Fargo

di Joel e Ethan Coen

Fargo - USA 1996 REGIA: Joel e Ethan Coen con Frances McDormand, William H. Macy, Steve Buscemi, Peter Stormare, Harve Presnel.

Durata 97 min.

Ultimo film sul ciclo dei fratelli Coen , alla sua uscita Fargo ha ottenuto nel 1996 ampi riconoscimenti internazionali : miglior regia a Cannes, Oscar migliore sceneggiatura originale, Oscar migliore attrice protagonista . E ancora una volta i  Coen hanno spiazzato le  definizioni con cui  certa critica  li aveva  connotati Se infatti i due autori del Minnesota, con Blood Simple  (il  primo ) , e poi con i “giochi” di Arizona Junior e Mr.Hula Hoop , potevano ancora essere  iscritti  in quella categoria  del post-moderno  che mette l’accento sull’ibridazione dei generi, sul pastiche, sulla citazione , sulla frammentazione e sull’iperbole -dove risulterebbero dominanti il manierismo fine a se stesso nell’uso di questi materiali e la  pura esibizione di  abilità formale -  già con Miller’s Crossing abbiamo visto che  questa  tipizzazione  categoriale  risultava troppo riduttiva , e il film si faceva riflessione e metafora dei tanti “crocevia” della condizione umana : se il grottesco continuava e frammischiarsi al macabro, le “schegge impazzite” anomale  con cui il testo era disseminato , rientravano in una reinvenzione  del genere  ( in quel caso il gangster-movie) dove più che uno sberleffo irrispettoso, alla fine veniva fuori un omaggio intelligente alla nobiltà del “classico” , e la musica dolente di ballata celtico-irlandese contrappuntava questo respiro esistenziale , venato qua e la’ da ironia , ma  con un retrogusto fondamentalmente amaro.

In Barton Fink  poi il conseguimento  di senso si stratificava a più livelli : quello dello scacco dell’intellettuale che pensa di poter cogliere il mondo “di fuori” con l’arma della sua scrittura “realista” , che  crede di descrivere populisticamente  e presuntuosamente la “vera vita” della gente comune : e alla fine  l’unica possibilità di uscire  invece  dalle secche della pagina bianca è quello di “ascoltare” un’altra dimensione del reale, il lato oscuro della vita , che reinfiamma  ( letteralmente a livello di immagini, come abbiamo visto ) la sua creatività ; e l’altro livello  che arricchisce di senso il film  è quindi quello linguistico che sottende al primo :nello  specifico  la messa in essere di un linguaggio espressionista  spinto al massimo della visionarietà , dove  quello che si “esprime”  (quello che è “in gioco”)  è proprio “la vita della mente” , ma – “giocando” noi  con le parole- non risulta essere solo un “gioco” di stile :  la parabola  dello scrittore ebreo la cui mente è rinchiusa in una scatola , all’interno  di una stanza “animata” e vischiosa , all’interno di  un albergo allucinante ,  in un autentico sistema di “scatole cinesi” , rappresenta in maniera più generale incubi e disagi dell’uomo  contemporaneo di fronte  ad un reale per lui sempre più inafferrabile e misterioso e diventa anche affascinante discorso meta-cinematografico : il cinema che “sogna” se stesso.

Ora con Fargo i Coen si sono spinti ancor  più al di fuori del territorio del post-moderno, ci sono andati oltre .Tanto per cominciare premettono subito  nel prologo che si tratta di “una storia vera” , accaduta nel 1987. E questa è già una novità assoluta nella loro poetica , un assunto che li lega a un’esposizione meno iperbolica, più sobria . Anche perché la “storia” che vogliono narrare  la sono andati a cercare  nei luoghi  delle loro radici , al confine tra il Minnesota e il Nord Dakota.  E’  un Midwest confinante con le enormi  distese canadesi , dove i rapporti sono rarefatti e gelati come il clima, e in cui   predomina un popolazione di ceppo scandinavo , con un linguaggio poverissimo e  convenzionale.  Quest’ambientazione  permette ai Coen una messa in scena  adeguata a quello che vogliono “esprimere” : perché anche se trattano di “una storia vera”, non  stanno facendo documentario o cinéma-veritè : anche se non c’è dimensione (apparentemente) onirica e da incubo classico ,  anche se non ci sono oscurità in tutto questo bianco abbacinante ( ma se è abbacinante allora non si vede realmente) , quello che  vogliono fare è “esprimere” anche qui una dimensione interiore, una condizione dello spirito : e l’incubo ( a occhi aperti) si materializza comunque nello scorrere della storia. Taluni hanno detto che questo film dei Coen è una risposta che  mostra come  si possa  andare , pur facendo un cinema innovativo,   oltre il pulp alla moda e manierato di Pulp Fiction ( esploso 2 anni prima, 1994), proprio facendo agire  personaggi “alla Pulp Fiction” , ma facendogli fare “altri giri di giostra” e immettendoli in un contesto non più rutilante e colorato, ma straniato , “decolorato”.  E viene allora subito in mente America oggi ( Short Cuts)  di Altman , uscito 3 anni prima, 1993. Ispirato ai racconti di Raymond Carver e al suo minimalismo realista , l’immagine  della follia ordinaria e quotidiana  della “normalità” dell’America media , è di una crudeltà impietosa  senza pari, dove i moventi dei personaggi  rispondono come a riflessi condizionati e il non-senso prevale. Non a caso i Coen prendono da Short Cuts  due attori che  in entrambi i film  risultano tra i più “significanti” : William Macy e Frances McDormand . E non a caso il paese di Fargo si chiama Brainerd , parola che unisce significativamente brain ( cervello) e nerd (ritardato, stupido ) . In questo film tutti hanno come i riflessi ritardati ,  le loro azioni e  reazioni hanno sempre uno scarto torpido rispetto agli input dal reale , dove  non si avverte l’elaborazione di un pensiero compiuto e articolato realmente , ma conati , pulsioni , come i pochi suoni e frasi buttate lì : è un film quasi afasico, che  fa impressione se si paragona alla ricchezza lessicale  e alla fitta trama dialogica di Barton Fink e anche di Miller’s Crossing.

Fargo è sotto diversi aspetti un film sull’assenza, sul vuoto , sulla piattezza : “vuoto percettivo, vuoto psicologico, vuoto verbale” : piatto e vuoto è il paesaggio , bianco su bianco che cancella i confini tra l’alto e il basso, tra destra e  sinistra . Dal vuoto al gelo . La paralisi dei comportamenti è  anche la paralisi dello sguardo, come in tutti i film dei Coen . Ma qui l’ inebetudine non viene dal  rosso del sangue ( Blood Simple) , ma dal bianco della neve.Come dire: qui non è l’azione compiuta ad inceppare la vista , che fa perdere il controllo; no, qui l’occhio è già passivo di fronte al mondo , e la “banalità del male”  è quasi iscritta nel dna di questa umanità . Tutti guardano fissi la televisione  (anche il personaggio “positivo” della poliziotta) e tutti risultano spettatori inerti. Anche lo sguardo della macchina da presa è fisso, gelato, implacabile , “quasi da stampa giapponese nella raffinata stilizzazione delle inquadrature”, con un grande lavoro per ottenere uno stile antispettacolare : senza grandangoli ( come invece  solito per i Coen)  e con pochi campi lunghi ,  a riprendere uno spazio naturale , di una desolazione e solitudine infinite, al pari dello spazio artificiale che connota il mondo in cui vive l’America profonda : fast-food, motel, parcheggi , aeroporti : non-luoghi , dove più che vivere realmente, si passa ,si scorre , si transita. La mano dei Coen si vede nel modo in cui danno a questa storia, apparentemente di “cronaca nera” , un andamento sempre imprevedibile rispetto ai clichè, come  nel descrivere tutti e 7 i delitti attraverso fuori campo, con  sequenze interrotte a sorpresa .Ma  per la prima volta in  loro il desiderio di infrangere i codici hollywoodiani si misura con un problema etico come quello della violenza e della sua rappresentazione , “mostrandola nel suo lato più arbitrario , che può esplodere imprevisto  e sparire senza preavviso . E’ una preoccupazione di realismo, in opposizione a quanto si  vede a Hollywood”.  Siamo in “un inferno gelato”, dove tutto si riduce in  risposte a mere  esigenze corporee e  a  questioni puramente di denaro. “E tutto questo è successo per quattro fogli di banca? C’è ben altro nella vita”, commenta alla fine la normalissima, antiretorica , mediocre se si vuole, poliziotta incinta di 7 mesi, che continua  a mangiare per tutto il film  e a rifugiarsi appena può nel  suo televisorino in bianco e nero. E’ stato detto che Fargo “ è un racconto ontologico e non epistemologico” : ci fa cioè “sentire”, “essere” in  questa dimensione di vuoto morale, piuttosto che spiegarla. “E’ la paradossale moralità di un occhio perplesso e di uno schermo sepolto dalla neve”. Ma c’è molta più ricerca di umanità in questo  approccio , una capacità di scoprire “senso” sensitivamente , “che in un qualsiasi rimpianto filosofico sulla compiutezza di un mondo perduto pieno di senso. Davvero, rispetto a un pezzo di grosso taglio è più utile un francobollo da 3 cents , per far arrivare ‘i messaggi a destinazione’ ”. I Coen , già con lo straordinario incipit e accompagnati dalla musica “solenne” di Carter Burrell , danno il senso dell’incedere di questa storia  verso una tragedia cosmica , in un’epica dell’antiepica racchiusa nel “cuore in inverno” di questo paese, metafora della sempre più depauperata vita di relazione cui si sta riducendo l’umanità, invitando lo spettatore a contemplare ( e a interrogare) comunque il gelo. “Come Barton Fink ritornava a scrivere , imparando ad “ascoltare”, così Fargo ci impone di ascoltare il vento che soffia sempre uguale su questa terra spoglia e bianca. In fondo si tratta solo di sentire sguardi che non riescono a vedere, o di vedere voci che non dicono: il ‘segreto’  sta infatti nella neve…”.