Il tempo dei Gitani

di Emir Kusturica

IUGOSLAVIA 1988 ,  Durata 135 min.

Con  Davor Dujmovic , Bora Todorovic , Ljuibica  Adzonovic , Husnija hasimovic , Sinolicka Trpkova .

Tre anni dopo Papà è in viaggio d’affari  Kusturica  ci regala un altro  splendido film , questa volta  immergendosi nell’universo rom  , attratto anche dal fatto che la nonna materna era di origine gitana, e così   questo è stato anche un modo per recuperare le sue radici più “scomode”.  Precedenti illustri sull’ argomento :  Ho incontrato anche zingari felici (1987 ) di A.Petrovic  e  L’angelo custode ( 1987) di G.Paskaljevic . Dal primo, Kusturica si  distanzia  perché , rispetto al suo , che indaga sulla mitologia zigana, Petrovic  invece  rilegge tutto in chiave dostoevskjana . Il secondo  parte da una vera e  propria inchiesta sociologica  rispetto al  “realismo magico” tipico di Kusturica , che si immerge  proprio nel  magma - ribollente di vitali e irrinunciabili contraddizioni  -  dell’anima Rom.   Anche Tony Gatlif  nel suo L’uomo perfetto ( 1982 ) aveva girato  dentro la cultura zigana  e sembrava l’unico in grado di avvicinarsi a loro senza avvolgerli nella retorica  . Ma   Kusturica è andato ancora più in la’ : si è addentrato con  libertà assoluta e  fedeltà impressionante  tra le pieghe  di un popolo  che non ha più un centro, un punto di riferimento .

La sua lettura poetica  e mitologica , non è però una lettura acritica o indulgente : al contrario i suoi gitani sono scoperti nei loro difetti , seguendo il filo non sempre logico dei loro racconti, e Kustirica ci  regala due ore e 15’ di immagini sregolate e  perfette allo stesso tempo,   ricreando una magia  profonda  in ogni situazione.

“Il tempo dei gitani”  non è il nostro tempo , vive sospeso tra la vita e la morte, la realtà e il sogno:  è  come se queste genti , nel loro inesausto errare per il mondo abbiano trascinato in sé il suo  letame  ma anche gemme preziose e misteriose , che ogni tanto scintillano : Kusturica  ci ha restituito attimi che sono mix di fango e  di  nobiltà nascosta  nei gesti, nella  musica , nei  riti, nei miti  zigani.

L’incipit , come del resto anche negli altri film di Kusturica , “ è letteralmente strepitoso” : la vita  del villaggio zigano ci viene  resa  con  schizzi sia struggenti che comici ,   e subito circola  un irrefrenabile vitalismo , una voracità inesausta di afferrare il tempo in un universo dominato da una sorta di fantastica follia , innervato di fatalismo, scandito dai riti più eterogenei .

In questo contesto , centrale risulta il personaggio di Baba , la nonna  , portatrice di  un patrimonio sapienziale-magico    che incarna il meglio della tradizione e della cultura rom  : si può dire che la prima ora del film ( che è anche quella  nelle radici del villaggio )  è  “il regno della nonna Baba” , mentre la seconda parte , quella dove la storia si sposta a Milano e poi a Roma  ,  si può definire “il regno di  Ahmed” , il capo-tribù despota e cinico ,  portatore  del deterioramento peggiore  del comportamento rom,  basato sullo sfruttamento di donne e  bambini e  sul furto ,  : questi  due personaggi - la nonna e Ahmed -  si contendono di fatto l’anima del protagonista Perhan . E  proprio attraverso Perhan , Kusturica ci da’ anche in questo film un percorso di formazione , dove questo “ casto folle” passa  - sempre più segnato -  per   l’amore e il disincanto, il dolore e la rabbia, la vendetta e l’espiazione :  il film segue   questo percorso  come un lungo  poema , una ballata piena di poesia e di incantamenti anche nel descrivere le situazioni più truci .  La musica di Goran  Bregovic  rende più preziosa ogni scena: nella sua ricerca di   varie suggestioni balcaniche  (da quelle jugoslave a quelle bulgare , da  elementi  arabo-turchi ad alcuni   ebraici)  si afferma come  una potenza evocativa  grandissima , che diventerà ancora più grande  e significativa in Underground (che vedremo il prossimo sabato ) e che è, ancor di più , il capolavoro di Kusturica  : dopo questi film,  Bregovic , con  la sua magnifica orchestra , è diventato un classico  nel mondo e in Italia ormai è di casa, e  la gente ai  suoi concerti    ha  sempre negli occhi  le immagini  dei film di Kusturica.

Ma le scene memorabili , che lasciano stupore e malìa , in realtà sono molteplici  e  le fantasmagorie del regista “ si organizzano secondo una serie di coordinate linguistiche e culturali estremamente variegate : Ivan Cancar e Carl Barks  già nella  straordinaria sequenza  della “casa da appendere” (cui fa riferimento il titolo originale ) , che è imparentata sia con il finale visionario di Il servo Jernej e il suo diritto , che ai momenti più poeticamente strampalati dell’autore di Paperino. Eppoi Hieronymus Bosch e Tod Browning  nella “mostruosità” degli abitanti che non ha bisogno di un confronto col “normale” , e ancora Marc Chagall e Andrej Tarkovskij  : il primo per la “sospensione magica dell’autorappresentazione di una cultura , il secondo per l’uso  simbolico della telecinesi e per l’idea di sopravvivenza sotterranea  di una  tradizione  -vedi il magnifico tableau dei riti di San Giorgio – insieme Stalker e Andrej Rubliov .  E’ interessante  cogliere dallo stesso Kusturica il suo approccio particolare a questo mondo , questa sua autentica “osservazione partecipante” , una metodologia “sul campo” che non ha nulla da invidiare a quella  degli antropologi di rango   : “Sono partito da una storia che mi ha raccontato un ragazzo rom  che era in prigione a Skopje. Viveva con la nonna e aveva passato centinaia di volte la frontiera italiana senza passaporto . Mi ha parlato di quello che faceva in Italia , del modo in cui viveva la’. La sua storia era autentica e piena d’interesse, ma  a questo punto ho voluto conoscere meglio la mentalità di questo popolo gitano . E giocando a pallone sono passato a far parte di una squadra locale di Skopje, in un quartiere dove vivono 50.000 gitani. All’inizio volevano mandarmi via  perché hanno paura dei forestieri ,poi ho imparato a parlare un po’ la loro lingua  che è simile a quella dell’India , da dove sono venuti più di mille anni fa. Un mio amico poi ,un medico di origine gitana che ha appena pubblicato un grosso libro su questa cultura, mi ha molto aiutato sul set, traducendo, quando era  necessario , dal serbo-croato in gitano” .

In  definitiva fin dalle prime inquadrature e poi dalle prime sequenze c’è tutto lo stile di Kusturica: il continuo interscambio delle storie e dei piani di racconto e  l’ “evidenza di personaggi surreali che hanno bisogno di pochi secondi per imporsi - restando sempre al di qua dello stereotipo e dell’eccesso -  e così il peso specifico, volutamente leggero, del simbolismo” che mette in atto : questi veli da sposa che fluttuano via   in momenti cruciali ( e  ricorreranno in Underground) , le oche  e i tacchini  sempre  presenti  come un’evocazione di essenza primordiale ,  il  nascondersi fino alla fine nelle scatole di cartone ( anche questo ritornerà in Underground) come “vita sotterranea” che fuoriesce incoercibilmente fuori . “ Dio si è dato alla fuga quando ha incontrato gli zingari” , dice una leggenda gitana , che sentiamo all’inizio raccontato dallo zio di Perhan .

Piccole vicende private e violenti momenti d’azione ,microstorie e un melodramma, è lo stile di Kusturica che inizia fin dalla scrittura verbale  della sceneggiatura, miscelando momenti drammatici a risvolti grotteschi , facendo affiorare l’ironia sulla superficie del momento più “rischiosamente” intenso per cadere nel mélo : “una perfezione nell’alternanza dei toni che può essere persino calcolata” , ma che non la fa “sentire” tale : come nel finale ,  anch’esso definito da molti  critici “strepitoso” : Perhan è morto, la gente del villaggio lo piange. La casa diventa  luogo sacro e profano, fuoco ,lacrime, giochi di luce. La mdp segue il figlioletto di Perham che esce in silenzio , lo segue mentre cammina all’esterno, oltre i vetri opachi. Poi improvvisamente il bambino rompe i vetri , ruba le monete d’oro dagli occhi del padre defunto - dove erano  appoggiate secondo la tradizione zigana -  e scappa via .Lo zio “matto” lo vede, tenta una corsa , ma in realtà  senza inseguirlo. Corrono tutti e due , lo zio e il bambino,ma  in diverse direzioni, e tutti e due  senza una meta ( o siamo noi che non possiamo coglierla ? ) : uno dei finali più belli della storia del cinema , da parte di un autore che spesso  riesce a  renderci  aspetti di realtà che generalmente non si è capaci  nemmeno di  scorgere.  “ E poi gli zingari arrivano. Ma non sono quelli con gli stracci poetici di Macondo, non sono quelli che suonano felici nella Russia di Oci Ciorne : non sono neppure quelli fortemente radicati a formule morali anacronistiche  e spietate del Gatlif  de L’ uomo perfetto . Sono gli zingari che incontriamo per le strade delle città italiane , che calpestano la letteratura e fanno esplodere  le contraddizioni delle nostre coscienze. Kusturica  ha ritrovato le strade di terra e gli odori di legno dei suoi due primi bellissimi film: ha recuperato le sue radici più scomode, il lato perdente dei suoi personaggi più indovinati. I suoi gitani sono scoperti, talmente scoperti nei loro difetti da far pensare che lui abbia saputo girare un film con loro ( e forse anche per loro) ,  senza che loro lo sapessero sino in fondo…”.