Fuori Orario

di Martin Scorsese

USA 1985 Durata 97 min. Titolo Originale "After Hours"

Regia: Martin Scorsese con Griffin Dunne, Rosanna Arquette, Linda Fiorentino.

Fuori Orario (visto da Sam Sassoli)      

Fuori orario ,raccontato com’è coi toni e i tempi di una commedia nera, che a poco a poco incrocia i generi del grottesco e del tragico, diventa un’avventura notturna di sconcertante impatto visivo, in cui l’essere umano è sbattuto, come per ineluttabile sorte kafkiana,in un mondo estraneo . Il film segue e insegue metaforicamente il protagonista nell’inferno della metropoli oscura: dal labirinto in cui è finito cercherà l’uscita…nel pieno della notte, nella New york più inconscia e psicanalitica che si possa immaginare,piena dipaure e pregiudizi, incapace soprattutto di guardare all’arte e quindi incapace di redimersi.
Tanti i dettagli in cui si percepisce l’Apocalisse di “Scorsese”, il ruolo della donna ad esempio, castrante e pericolosa, il "Tropico del Cancro" di Henry Miller, tutti sintomi di un'ambiente per cosi' dire “normalizzato”, di un atmosfera repressiva e morbosa.
La stessa colonna sonora quasi incessante, spazia da Gershwin a Cole Porter , da Mozart a Bach e, a sottolineare il peso della cultura come ossessione e repressione, la citazione umoristica del mago di Oz che ridicolizza la sessualità e un intera società considerata sclerotica e convenzionale. Tra gli aspetti più interessanti spicca la fotografia di Michael Balhaus, ex di Fassbinder, che ha velocizzato tantissimo il lavoro del regista. B. è capace di inventare un quadro in mezzo al deserto ed è pioniere , tra l’altro , del movimento a 360 gradi, tecnica visiva che permette ancora di più di percepire lo sperdimento del protagonista nella notte e la sua alienazione dagli oggetti. Si gira in economia , eppure il portachiavi che cade dall’alto sembra una bomba che sta per esplodere e i guardiani del night club ci appaiono come mostri, torvi ed eccessivi.C’è in Fuori orario una semplicità totale che viene continuamente ribaltata: per esempio l’appartamento di Marcy è a 1 km da casa di Hackett , e non a cento miglia come può sembrare. La notte viene filmata nella sua totale interezza, tanto da apparire come assoluto diniego del giorno, un’orbita a sé stante, di brulicante e colloso terrore. Il terrore , visto con gli occhi di chi non lo conosceva , è proprio corrispondente all’ignoto e non è puro spavento, ma piuttosto alienazione, proprio quello spaesamento che ha l’uomo con il suo inconscio e con la stessa società in cui vive.In virtù di questo aspetto la telecamera è veloce e dona al film un’estrema scorrevolezza quasi a sottolineare che è una notte da vivere sensorialmente e in modo più immediato possibile. Gli attori, un po’ intontiti, sono perfetti , e sembrano soavemente stupidi o maledettamente primitivi. Merito anche di come è stata filmata la città che, a differenza di Mean streets , non è più un crogiuolo di violenze e sofferenze fisiche , ma un luogo metafisico dove smarrirsi.I rimandi alla letteratura, in particolare a Kafka e a Brecht , sono inevitabili, ma lo stile e il messaggio sociologico che ne escono sono altrettanto originali.I luoghi di Scorsese sono ovunque luoghi di vita che qui troppo spesso somiglia alla morte,e con essa sembra confondersi.Il tramite tra vita e morte rimane l'arte, che sembra essere il solo mezzo con il quale l'uomo può convivere. Del resto è arte quella degli strani personaggi incontrati a Soho , così come lo è la scultura di cartapesta in cui Hackett viene trasformato. E nella scultura c’è anche infine l'urlo di Munch , ennesima inquietudine espressionista. E poi la notte ancora protesa su New york, che innerva di magia questo viaggio allucinato verso le tenebre e al tempo stesso esalta i dubbi, le incertezze di un self made man alle prese con l'estraneo tunnel della metropoli. La metropoli notturna era stata immortalata già precedentemente da Jules Dassin nel 48 con La città nuda, da Polansky e da altri registi del calibro di Scorsese , ma forse mai si era reso così bene lo straniamento che essa provoca nell'uomo. Con Fuori orario si esce dall'orbita del giorno e si inciampa nell'oscurità: luce tenebrosa di un intero sistema o viaggio nei meandri dell'inconscio? Fantasia, ironia, parole chiave del film, strumenti neanche troppo nascosti per codificare appieno,o non codificare affatto , l'odissea urbana cui stiamo per assistere.

FUORI ORARIO ( visto da Chiara Armentano)
Paul Hackett (Griffin Dunne) è il classico informatico in giacchetta, estraneo alle colorite vicissitudini notturne della grande mela. Una sera per caso in un bar si imbatte nella dolce Marcy (Rosanna Arquette), la quale lo invita a casa sua a Soho. Di qui comincia il viaggio nelle “tenebre newyorkesi” del giovane Paul, ignaro che tutto , e ancora più di tutto , potrà accadere prima di tornare alla noiosa routine del suo lavoro.
Alla sua diciassettesima pellicola (la carriera di Scorsese infatti iniziò nel lontano 1959 con “Vesuvius IV”), Martin si innamora nuovamente del cinema e della sua città, New York, gira per le strade deserte di Soho e invade la privacy di strani personaggi a metà tra psicopatici-ladruncoli-maniaci-sadici e i reali fuori di testa che è credibilissimo incontrare in una metropoli come questa.
Il ritmo serrato non lascia il tempo né al povero Paul, ma direi neanche a noi spettatori, di comprendere chi o cosa si sia messo contro il destino di quest’uomo, invischiato irrefrenabilmente in un turbine di eventi incredibili (e, diciamolo, anche piuttosto sfigatelli).
Ma è in questo che risiede la straordinarietà del film: ovvero nella fusione degli opposti (una sorta di atavica “coincidentia oppositorum”) per la quale un uomo appartenente alla medium class newyorkese si trova improvvisamente impelagato in un quartiere malfamato, alle prese con donne psicopatiche che si vendicheranno di lui in ogni modo (ma soprattutto ingiustificatamente), coinvolto in un omicidio, accusato di tradimento e furto e nondimeno incapace di ritornare a casa.
“Coincidenza degli opposti” che si espleta quindi a tutti i livelli del testo filmico: dalla trama (che è una sorta di discesa dantesca in un girone dell’Inferno), ai modelli di riferimento (la commedia satirica si scontra con il thriller poliziesco, il dark-noir movie con l’ironia sardonica del grottesco), ai personaggi stessi che si mostrano sempre a metà tra simpatici inquilini di un quartiere d’artisti e veri pazzi furiosi lasciati liberi per le vie di Soho. In tutto questo l’ironia resta il minimo comun denominatore sotteso a tutta l’opera. Un’ironia sottile e pervasiva che rende tutto l’universo raccontato assolutamente surreale e al tempo stesso realistico, mistico , a tratti cosmico, non risparmiandoci una vena di intimo squallore metropolitano , che per altro non faticheremo a riscontrare in città come questa.
Grottesco, faceto, terrificante e ridicolo, sono i termini con cui descrivere l’assurda vicenda di Paul, e sono anche i motivi che riescono ad allontanarlo dalla gelida solitudine in cui la sua vita giaceva. L’abilità di Scorsese risiederebbe proprio nella capacità di infondere in una storia a tratti banale, un impeto di onirismo, tragicommedia e realismo urbano, consapevole di sfiorare motivi più vasti e profondi quali l’alienazione dell’uomo moderno (sarebbe il caso dire dell’ “homo informaticus”), la solitudine e la follia che giace sempre e comunque nelle nostre (anche se innocue) menti. Paul si scopre sorprendemente in bilico, tra il baratro della notte nera ed una vita effimeramente perfetta, bisognoso di “diversità”, ma al tempo stesso non del tutto pronto al grande salto mortale. Le donne che busseranno alla sua porta saranno numerose, da Kiki (L. Fiorentino) giovane punk sadomaso, a Marcy dal cuore tenero (e dalle tendenze maniaco-depressive), alla bella barista bisognosa di essere amata e infine alla gelataia praticamente schizofrenica. E’ l’avventura solo immaginata di “Tropico del cancro” di Miller -di cui Paul e Marcy parlano al bar - a materializzarsi in una successione di hitchcockiana memoria di eventi senza un senso raziocinante.
Un film sottovalutato dal pubblico (difficilmente potremo vederlo in televisione), pur avendo vinto a Cannes il premio per la miglior regia nel 1986.

MARTIN SCORSESE

Martin Scorsese nasce nel 1942 a New York, figlio di due immigrati siciliani (Charles e Catherine). Cresce a Little Italy, ed è proprio tra quei sobborghi che maturerà il suo cinema fortemente ispirato al proprio vissuto . Del padre eredita la passione per il cinema ( Charles porta spesso il piccolo Martin nelle sale di quartiere) ed è proprio la penombra di quegli antri angusti – come egli rammenta- “a sconvolgere magicamente e ipnoticamente la mente e il cuore” del futuro regista. Finché un giorno rimane “letteralmente traumatizzato”: stanno proiettando Duello al sole, un classico di King Vidor, con Gregory Peck e Jennifer Jones: le fiamme possenti che invadono lo schermo, gli spari, il technicolor, la potenza plastica dei personaggi, il paesaggio violentato dal deserto mettono ko l’immaginario del bambino che serbera’ indelebili queste tracce. E l’infanzia trascorre, intasata da un asma che il regista si porterà dietro fino agli anni 70 “… L’asma mi obbligò a guardare! Non potevo scappare e allora dovevo restare li’, inchiodato a vedere scene sciagurate, gente che si picchiava, che faceva sesso in mezzo alla strada, ubriachi di ogni genere…”.  E’ li’ che Scorsese ,  sulle streets nero asfaltate e sui marciapiedi di Little Italy , assorbe  gli umori di  quella violenza  che in  molti suoi film rappresenta un tratto  appunto germogliato ed interiorizzato dalle sue esperienze adolescenziali, e contemporaneamente fa del suo vissuto “italoamerican” la miniera antropologica e immaginaria per le sue opere più grandi e convincenti. Gli anni 50 segnano per lui il passaggio tra adolescenza ed età adulta:   si iscrive a una scuola cattolica , ma ne viene presto cacciato per “condotta immorale” (si innamora di una coetanea). E comunque in quel periodo anni coltiva confusamente a tratti anche l’idea di farsi prete. Inizia a girare i primi corti,tra amici, naturalmente in economia,  e nel ‘56 si iscrive alla New York University. In quell’anno si teneva un corso di cinema, metodicamente condotto da un certo Haig, che sarà anche il corealizzatore del primo lungometraggio “Chi sta bussando alla mia porta”. Sono anni intensi, anche  per la vita privata :  è nel 64 che convola a nozze con una compagna di studi , che l’anno dopo gli regala la prima figlia , Katherine (così chiamata in omaggio alla madre siciliana).

Sono anche gli anni dei primi corti ufficiali:

-1963- Cosa ci fa una ragazza così graziosa in un posto come questo?

-1964- Non sei l’unico, Murray

Pur con la povertà di mezzi e inevitabili ingenuità , già in questi primi canovacci si cominciano a delineare  temi a lui cari, quali  l’amicizia virile, la sessuofobia, i rapporti di coppia e il peccato , l’humus  italo-americano,  e si intravedono lampi di talento nel montaggio giocoso, nei dialoghi serrati, nella colonna sonora variegata e intensa.

Il primo lungometraggio  arriva nel  1968 , con  “Chi sta bussando alla mia porta?,( Who is ‘nocking at my door?) concentrato di pregiudizi religiosi ed etnici,  dominato dalla sessualità e dalla tentazione, segnato dagli stereotipi “italoamerican”, con un giovane Harvey Keitel (uno dei suoi due attori-icona, assieme a De Niro) : il film riscuote un discreto successo e soprattutto comincia a delineare l’originalità auotoriale di Scorsese.  Segue un periodo alterno, con  Martin costretto a trasferirsi a Los Angeles, dove conosce Roger Corman, grande regista pittorico, e soprattutto Francis Ford Coppola. Dalla Grande Mela alla Grande Steppa, Los Angeles diviene così il punto d’incontro di giovani registi che rispondono ai nomi di Brian de Palma, George Lucas e Steven Spielberg, con i quali trascorre  pomeriggi assolati ed inerti. La particolarità di Scorsese è anche e soprattutto quella di aver ricreato fuori dal set un'altra famiglia, una specie di clan , fatto di amicizie virili e perenni che stimolano continuamente il suo cinema e il suo immaginario.

E’ il 1972 quando realizza “America 1929 , sterminateli senza pietà” , seguito ideale de“il Clan dei Barker” e comunque aderente al filone gangsteristico.

Ma è con Mean streets (1974) che si delinea appieno la sua poetica della strada e della redenzione assieme. Il male, descritto con rara forza evocativ,  fa da perno a tutta quest’opera che segna anche il possente sodalizio di Harvey Keitel e Robert De Niro, due attori-feticcio che impersonano appieno i coetanei dell’adolescenza di Scorsese, i ragazzi di strada che avevano appunto due scelte – fare il gangster o farsi preti.

Da Mean Streets la carriera di Martin comincia a costellarsi di prove  di rara suggestione.

E così prende corpo l’affresco femminista e favolista di Alice non abita più qui (1974) , con una splendida Ellen Busrtyn, perfettamente a suo agio nella cameriera di fast food che sogna un futuro da cantante. Il film rimane a tutt’oggi una delicata incursione nel femminile e un ritratto dolcemaro di provincia.

Cannes lo consacra nel 1975 con Taxi Driver , vero e proprio saggio contemporaneo sulla violenza e sul male, talmente potente da entrare di diritto nella storia degli incubi cinematografici. De Niro qui assume le sembianze di un autentico psicopatico e il suo Travis Bickle rimarrà indelebile negli sguardi attoniti degli spettatori che improvvisamente urtano con la forza emotiva di un regista carnale ed edipico.

Su Taxi driver si avverte l’impronta  di Schrader, che firma la  sceneggiatura : il  fascino e l’atmosfera cupa del film si devono molto anche a questo eclettico scrittore di cinema , che tesse trame vicine al mondo shakespariano e riduce in tragedia 2 ore fiammeggianti.

Meno successo ha invece nel 1977 , “New York New York  , tuffo nel mondo nostalgico degli anni 40 e atto d’amore per la musica, quella di quegli anni 40  , partecipe della sua infanzia.

Nel 1976 nasce la seconda figlia, Domenica ; sono anni  di profondo cambiamento, personale e sentimentale e anche di disorientamento per il regista, un periodo in cui la crisi ispirativa sfocia proprio nel film-documento “L’ultimo valzer (1978), dedicato al concerto d’addio  di The Band, il gruppo musicale di Bob Dylan  nel 1966 e 1974. Ma , se la musica è comunque fondamentale in tutto il cinema di Scorsese ( si pensi ad esempio alla colonna sonora di Casinò , ma a tutti gli altri), è da rilevare che il regista italoamericano ha realizzato altri  film-documentari specifici sul tema, come la storia del blues Dal Mississipi al Mali (2003) , o il recentissimo (2005) No Direction Home , sulla vita  di Bob Dylan tra il 1962 e il 1966. 

In ogni caso si consideri che, dopo L’Ultimo Valzer  , segue per Scorsese , dalla fine anni 70, un periodo difficilissimo, con un tentativo di  suicidio,  uso di droghe e il peggioramento della sua  asma , mentre  i produttori sembrano abbandonarlo:  ma è proprio l’amicizia virile ( espressa in molti suoi film) a salvarlo , attraverso il suo “complice” più stretto, Bob  De Niro,  che , andandolo trovare nella sua stanza d’ospedale lo scuote e , quasi schiaffeggiandolo , lo spinge ad iniziare  “Toro scatenato” ( 1980), apice emotivo e registico in cui il montaggio , l’uso della telecamera, i dialoghi, la fotografia e , in generale , la recitazione leggendaria degli attori , ne fanno un autentico capolavoro. De Niro lo convince a girarlo urlandogli : “ Non lo capisci? Toro scatenato sei tu! Toro scatenato sono io!” E qui infatti De Niro è strepitoso in modo quasi insostenibile: per rappresentare la parabola del mitico campione di boxe  anni 40-50 , Jack La Motta ,dai suoi trionfi  fino al  declino, arriva ad ingrassare di 30 kg., mettendo a repentaglio,in tale  autoviolenza fisiologica ,  perfino la vita, fino ad  immedesimarsi nel personaggio , in una sorta di autentico titanismo attoriale . Accanto a lui  si mette in luce  anche Joe Pesci , altro “bravo ragazzo” che diverrà faccia familiare tra le  pareti di casa , e nei successivi  film “italoamerican”,  di Scorsese.

Segue nel 1982 , Re per una notte, satira un po’ misconosciuta sul potere mediatico, che vede l’ex mimo Jerry Lewis in un ruolo insolitamente drammatico.

Negli anni 80 Scorsese si avvicina a un cinema indipendente, quel cinema  teorizzato  da uno dei suoi numi , John Cassavetes.E nasce così Fuori orario (1985), sorta di favola nera visionaria, in cui entra in campo un nuovo  direttore della fotografia , quel  Michael Ballhaus, che firmerà tra gli altri, con la sua arte inconfondibile, Toro scatenato, L’età dell’innocenza, Gangs of  New York.

Tre anni dopo si realizza un suo sogno,  un film “apocrifo” su Gesù,  con  L’ultima tentazione di Cristo (1988) , tratto dal testo di Kazankinis :  boicottato anche da un certo ostracismo cattolico , risente, pur con lampi di classe, di certi appesantimenti moralistici ed anche stilistici.

E’ il 1990 quando esce Quei bravi ragazzi( Good Fellas) , torrentizio affresco del mondo della mafia americana, splendidamente fotografato e ottimamente recitato. Quei bravi ragazzi insieme a Casino, successivo di qualche anno, sembra essere l’ultimo capitolo sulle reminiscenze di Little Italy. Il regista cambia infatti veramente rotta e di li’ a poco esordisce nel dramma in costume L’età dell’innocenza (1993), prezioso rieccheggiare , pur con un suo inconfondibile stile, di  Renoir e di Visconti ( quello di Senso e de Il Gattopardo ) , laddove Toro scatenato evocava Rocco e i suoi fratelli.  Anche il remake di   Cape Fear / il Promontorio della paura( 1991)  - con Nolte e De Niro  in luogo di  Gregory Peck  e Robert Mitchum -  permette al virtuosismo di Scorsese una sorta di summa di tutte le sue angosce . Seguono Casinò( 1995), rivoluzionario per il montaggio e per la regia , Kundun (1997),  aderente al misticismo e alla spiritualità , e Al di la’ della vita (1999) , forse il suo film meno riuscito .  La  sua ultima opera di maggior valenza  resta al momento Gangs of New York (2002),  polifonico affresco sulla sua città , e le radici conflittuali e multietniche , di lacrime e sangue ,  da cui è sorta.    Mentre The Aviator  (2005), pur nella bellezza delle inquadrature e della fotografia, non riesce a trasmettere quel pathos,  né raggiunge la felicità espressiva,  che l’autore italo-americano  fa rivivere in grande cinema quando parla soprattutto del suo “vissuto” e della Big Apple. Ma , al di fuori di questa sua poetica “naturale”, nel rivisitare l’inter filmografia di Scorsese, colpisce la sua straordinaria capacità di cimentarsi  nei vari generi, dove, pur ispirandosi sempre a grandi antecedenti, lascia comunque i segni del  suo stile personalissimo e soprattutto della sua passione esistenziale e da cinéphile coltissimo. In questo senso notevolissimi risultano gli excursus storico-artistici che egli ha realizzato , sotto forma di “viaggi” filmici ( di 12  ore cadauno ) , rispettivamente   per il cinema italiano, il cinema  americano e il cinema inglese. 

Ad ogni modo , il cinema  che fa “riconoscere”   Scorsese  è certamente cosi’ denso e vicino alla vita reale da lasciare spesso senza fiato,  a partire da  emozioni  sviscerate in progessione  .

C’e’ in Toro scatenato la violenza emotiva e filmica, in Taxi driver l’ironia che diventa terrore, in Fuori orario tutto il surrealismo di cui è capace, nell’Età dell’innocenza la delicatezza e il rigore stilistico: così la cifra  personale “inquina” la cifra cinematografica con irruenza e distacco,  rendendo  ognuno dei suoi film sospeso in una duplice dimensione: quella carnale e fisica, da un lato , e quella astratta e spirituale , dall’altro . Un pò come Eastwood , Martin  è anche un tipo che mira “dritto al cuore” dello spettatore ,  ma lo fa da “gangster” ( o meglio da sodale-bambino dei vari gangsters/goodfellas che ha descritto) e non da comune “borghese”.