"Mona Lisa" di Neil Jordan (1986)
MONA
LISA di Neil Jordan, U. K., 1986, 101 min. (visto
da Chiara Armentano)
George
(Bob Hoskins) è un ex galeotto in disperata ricerca di lavoro. Per una strana
coincidenza, un giorno si ritrova in un lussuoso albergo in cui una prostituta
di alto livello, Simone (Cathy Tyson) lo ingaggia come “autista” personale.
Di qui ha inizio l’incontro-scontro tra questi due personaggi, così diversi
eppur complementari, e al tempo stesso inizia un viaggio verso gli inferi
londinesi, nel mondo infame di bordelli e protettori. Il film presenta diversi
livelli di lettura: la fusione originaria riguarda i meccanismi del giallo-noir
e quelli della fiaba. E questo confermerebbe la particolare attitudine di Jordan
verso il fantastico, a volte l’orrore, spesso l’inconscio dimostrata da
altre sue pellicole, pensiamo a “In compagnia dei lupi”(1984),
o al più recente “La moglie del soldato” (1992). Palma
d’oro al festival di Cannes nell’86 per Bob Hoskins come miglior attore,
Jordan ci descrive una Londra diversa da quella disegnata
da cartoline o dai classici manifesti mediatici: la Londra di Jordan è
grigia, ambigua, beffarda e maledettamente violenta, tutti attributi
assolutamente realistici cui egli aggiunge elementi per così dire
“surreali”. Cominciamo da quel simpatico coniglio bianco che George porta al
proprietario di un night per poi consegnarlo a Diny Mortwell (Michael Caine). A
meno che non abbia ingurgitato sostanze stupefacenti, un coniglio bianco in un
tale contesto si annulla, muore, non serve, o peggio è ridicolo. Eppure è
proprio lì l’impasse: il regista vuole darci piccoli indizi per portarci nei
suoi luoghi inesplorati, luoghi in cui un cappellaio matto e una ragazzina di
nome Alice fanno cose strane, in una parola cerca di trascinarci nel luogo del
fantastico e della fiaba. Il coniglio allora rappresenta (oltre che un tributo
al romanzo di Lewis Carroll) l’ingenuità e la goffa timidezza di George che
sta per addentrarsi in un territorio ostico e ambiguo.
“Ambiguità”
è la seconda chiave di lettura del film (dopo quella del “fiabesco” e del
“surreale”): ambigui sono tutti i personaggi e le situazioni.
L’interazione tra George e Thomas, quella tra il protagonista e la sua
famiglia, una moglie isterica che si rifiuta di vederlo e una figlia suo
malgrado succube di questa dinamica. E poi naturalmente il rapporto tra Simone e
George, e quello tra lei e Cathy riescono a spaesare lo spettatore e a
confermare la volontà del regista di sospendere il giudizio. Le due donne hanno
evidentemente un rapporto molto profondo mentre quell’amore platonico che
George credeva di provare per la bella Simone non fa che rivelarsi l’estrema
sublimazione di un rapporto paterno (quello stesso che la moglie si ostinava a
negargli con sua figlia).
Ne
deriva che: l’unico vero rapporto che uomini e donne riescono ad intrattenere
qui è quello di padre e figlia. Ogni altro tentativo diventa una barriera, un
ostacolo, un impedimento. Le donne riescono a costruire qualcosa di “vero”
solo con altre donne.
Jordan
utilizza con grande maestria (quella del romanziere prima che del cineasta)
forme filmiche privilegiate per comprendere le realtà diverse che si
accompagnano in modo insolito nell’arco di
una storia di vita. Bellissimo lo scorcio di Londra
di cui ci viene offerto l’assaggio, una metropoli violenta, mai
indulgente, irriverente e scomoda.
I
sentimenti estremi, le emozioni, il coinvolgimento istintivo non sono peraltro
mai tradotti in spiegazioni razionali ma piuttosto in suggestioni empatiche,
spesso cromatiche (il rosso delle insegne e le luci porno e il grigio del cielo
londinese) e naturalmente visive.
Il
titolo stesso del film, accompagnato dal leit motiv musicale, diventa d’un
tratto chiaro: “Mona Lisa” è ognuno di noi, un ritratto unico che manifesta
l’intrinseca ambiguità dell’essere umano.
BOB HOSKINS (alias George)
Nato
a Bury Saint Edmunds, nel Suffolk (anno 1942), Bob è un attore eclettico,
avendo sperimentato un pò tutti i mestieri, dall’aiuto pompiere al mangiatore
di fuoco in un circo. La carriera di Hoskins iniziò quasi per caso:
accompagnato un amico ad assistere a dei provini, venne scambiato per uno dei
partecipanti. Hoskins ottenne la parte ed acquistò un agente. Fu persino la
seconda scelta di De Palma per interpretare Al Capone negli
"Intoccabili". Con “Chi ha incastrato Roger Rabbit” di Robert
Zemeckis raggiunge il successo di pubblico, ma è con “Mona Lisa” che
ottiene il premio della critica di New York, il Golden Globe e il premio per la
miglior interpretazione maschile a Cannes. Il ruolo nel film di Jordan infatti
risulta precisamente ritagliato sulla sua figura, sottoproletario abituato ai
bassifondi, eppur nel profondo uomo di sentimento, innocuo e dal forte istinto
paterno. Insomma nel film è assolutamente perfetto.
MONA
LISA (
visto da Manuela Martini / Cineforum /n.258/ 1986 )
(…)
Mona Lisa non è film intellettuale, ma tranquillamente colto, sul piano
cinematografico e, più in generale, mitico. Esibisce un repertorio cromatico e
di inquadrature che rimanda immediatamente al thriller e al noir, che cita
esplicitamente attraverso la trasmissione televisiva di La donna del bandito
(The Live by Night, 1949) di Nicholas Ray. Non è letterario, nel senso che la
parola non opprime (e non sostituisce) il tessuto narrativo costruito dalle
immagini; è però molto «scritto», nel senso che frasi, battute, riferimenti
(il «coniglio bianco con le orecchie lunghe», per esempio) si inseguono in
velocità e con disinvolto spreco. Non è visionario, ben attento a non
lasciarsi andare a orrori e psicanalismi di vario tipo, eppure solleva in certe
scene un'inquietudine sottile, un disagio palpabile che si fa strada da un
retaggio iconografico profondo. E su questo vale la pena di soffermarsi, perché
è l'elemento che determina lo scarto di Mona Lisa rispetto a un
professionale prodotto medio e la riconoscibilità d'autore. Se il principale
modello di riferimento del film è il noir, con i tratti tipicamente
inglesi dello humour nero e del piccolo impressionismo quotidiano (gente
comune, abbozzi di piccola collettività e solidarietà, ambientazione
parzialmente naturalistica), un altro universo immaginifico, attinente il noir,
ma vagamente distorto rispetto ad esso, riemerge ciclicamente. È l'universo
della fiaba e dell'incubo, dell'allucinazione notturna e malsana, intesa
comunque come quest, viaggio iniziatico, discesa nel /ed eventuale
risalita dal Maelström. È questo un universo con cui il noir (e mi
riferisco al versante «realistico» del noir, cui Mona Lisa
appartiene, e non a quello fantastico, tipo Cat People) ha molto da
spartire, nei comuni richiami psicanalitici, in certi simbolismi, nelle radici
mitiche e, soprattutto, nel percorso narrativo. Ma, mentre il noir tende
di solito alla dannazione dell'eroe (quanto all'eroina, è dannata in partenza),
la favola (e con lei l'horror) tende alla sua salvezza. Riflessi della stessa
passione sensuale e amorosa, il primo scarica il cadavere dell'eroe in una
piscina o ai piedi del patibolo, mentre la seconda lo conduce o lo spinge fuori
dalla foresta o dal castello maledetto. Forse solo Hitchcock è riuscito per tre
quarti della sua carriera a risolvere il nero in chiave di favola; ma anche lui,
infine, ha ceduto alle pulsioni più oscure, uccidendo le eroine (Vertigo,
Psyco, Frenzy), elevando a eroi i mostri (ancora Psyco e Frenzy),
o addirittura lasciando finali aperti sull'incubo (Gli uccelli). Neil
Jordan assume come portante il meccanismo dell'indagine, che si palesa a poco a
poco come spinta motrice dell'azione, sopravanzando altri spunti narrativi
abbozzati in precedenza (la commedia d'ambiente, malinconicamente drammatica,
presagita dal ritorno a casa di George e dal suo reinserimento nel «mondo del
lavoro»; il dramma sociale a sfondo metropolitano che le due differenti
disperazioni di George e Simone richiamano; la piccola, malinconica storia di un
amore impossibile tra due disgraziati, che pure serpeggia lungo tutto il film,
tingendosi però, inespressa com'è, di più morbosa passionalità). L'indagine,
classicamente, nasconde una verità vagamente truccata, a danno dell'eroe: «Mi
sono venduto per una coppia di lesbiche», sbotta George al colmo dello
sconforto e della tensione, sul lungomare desolato di Brighton, dove cerca di
spiegare a se stesso e a Simone gli inganni della loro vicenda (e Bob Hoskins
con gli occhialini a forma di stella assurge qui a una rara dimensione
drammatica). Le visite a King's Cross evocano volute dell'inconscio. Il ciclico
ritorno su un percorso obbligato sembra un incubo ricorrente («Questa notte ho
sognato di tornare a Manderley...»): la luce si fa incerta, i colori cupi e
pastosi, l'atmosfera imprecisa, fumosa quasi, e opprimente; i gesti e la
scansione sono sempre uguali e aleggia l'impressione che i protagonisti, isolati
all'interno dell'auto, una volta o l'altra possano venir assorbiti dall'incubo.
Non si tratta della pura e semplice impressione di «malattia» percettibile
nella faraonica sauna dove George segue Mortwell e Anderson; né dell'ovvio
squallore degli interni di Soho, alleggerito anzi da una serie di notazioni di
carattere, che danno a tratti più l'impressione di una degradata realtà
aziendale che di un mondo tentacolare (persino Mortwell, in una delle sue
apparizioni in «ufficio», riesce ad assomigliare al bonaccione che si finge).
King's Cross è davvero un sogno malvagio, una sorta di foresta maledetta,
popolata di mostri ostili e oppressa di vapori di palude. L'altra faccia del
percorso, il luogo della salvezza, è altrettanto antinaturalistico e «fiabesco»:
quella specie di antro dello stregone benefico dove vive Thomas. Invaso dai
ferri del mestiere di Thomas e da partite di spaghetti e madonne di plastica, il
garage è una zona franca, dove i cattivi non entrano inspiegabilmente nella
dinamica del thriller, ma con logica esemplare in un contesto fiabesco,
dove i territori del bene e del male sono separati da invalicabili confini. E
Thomas, con il suo divagare bizzarro su trame poliziesche, assume un po' la
fisionomia di un Merlino moderno e scalcagnato,che,per
enigmi,addestral'eroe. D'altra parte, i tratti irrisolti sono troppi per
essere casuali «errori» di sceneggiatura rispetto alla struttura del
poliziesco; soprattutto nel caso di una sceneggiatura tanto dettagliata e
accurata. Non solo l'immotivata sicurezza offerta dalla «caverna» di Thomas,
ma anche la repentina fine dell'attacco di Anderson, che si dilegua senza
tentare di bloccare George e Simone all'uscita dell'ascensore e senza attenderli
(come ci si aspetta) vicino all'appartamento di lei (e Jordan sa che ce lo
aspettiamo, tanto è vero che fa arrivare improvvisamente una vicina di casa).
Che sortilegio hanno compiuto i due? Forse basta tornare sui propri passi perché
l'incubo svanisca. Anche nel ritrovamento di Cathy, il mattino alla villa di
Mortwell, c'è qualcosa di oscuro; George arriva là per puro istinto, come
avesse sempre saputo che proprio quello è il castello stregato. Poi, ci sono il
coniglio bianco, i nani sul lungomare di Brighton, quell'arabo sorridente e
gentiluomo con il quale Simone sembra perfettamente al sicuro e a proprio agio,
e, forse, è una specie di corrispettivo ricco ed orientaleggiante di Thomas.
Infine, c'è quella sorta di «risveglio» di George, che, alla fine della sua
storia di mortale amour fou, si ritrova al sicuro a narrarla a Thomas,
come se si trattasse dell'ennesimo libro giallo. Sconfitti i cavalieri del male
(ma anche l'eroina, in rispetto al noir, ci ha rimesso le penne), il
mondo torna al solito ordine. I piedi minacciosi che si avvicinano all'auto
sotto la quale George e Thomas stanno lavorando e chiacchierando sono quelli,
amichevoli, della figlia adolescente di George. Un tratto ambiguo, quest'ultimo,
che ritorna spesso nel film, nelle battute meravigliate di George rispetto
all'età delle giovanissime prostitute tra le quali Simone cerca Cathy («Ho una
figlia di quell'età!»). Un tratto che potrebbe dischiudere ulteriori discese
nell'inconscio e negli abissi edipici; che certamente non è casuale, ma
semplicemente schizzato, con estrema eleganza e pudore.
D'altra parte, la discesa nella favola non è né gratuita rispetto alla
concezione del noir(con cui condivide, appunto, le radici mitiche), né
occasionale nell'opera di Jordan. Mona Lisa è il suo terzo film. Prima
aveva diretto il thriller Angel e la saga fiabesca In compagnia dei
lupi, scritto insieme ad Angela Carter . I conti, come si vede, tornano
perfettamente; sembra addirittura che, nella commistione, Jordan abbia trovato
il proprio registro più equilibrato. Una sottolineatura, brevissima ma
doverosa, per il livello dell'interpretazione e lo studio attento della colonna
musicale. Per quanto riguarda gli attori, a parte Bob Hoskins (che è
probabilmente il più impressionante attore inglese del momento, in grado di far
soffrire e ridere nello stesso attimo e con la stessa intensità), e Michael
Caine (genio del male assoluto, viscido e insinuante nei minimi gesti della mano
o del capo, in campo lungo e lunghissimo), vanno rilevate l'esattezza
millimetrica del casting e l'aderenza mimetica e fisionomica dei protagonisti ai
personaggi. Per quanto riguarda la colonna musicale, studiatissima negli
immediati riferimenti mitici delle sonorità da Into Deep dei Genesis a Madama
Butterfly, non si può non citare la canzone che da il titolo al film, che
ritorna con un tocco di magistrale romanticismo lungo tutto il film, per
esempio, ogni volta che i protagonisti percorrono le strade notturne di Londra
in auto e con la radio accesa; la Mona Lisa di Nat «King» Cole: “Are
you warm,/Are you real,/ Mona Lisa?/Or are you just a cold, lonely work of
art?”.
Neil Jordan (Irlanda,1950)
Cineasta tra i più affermati ed originali del panorama mondiale , è anche affermato autore di racconti e romanzi , tra cui Alba con mostro marino (1994) . Considerato l’eclettico della cinematografia irlandese che pur vanta nomi come Sheridan e Jarman ha dichiarato che “ E’ stata La strada di Fellini il film che mi ha fatto capire il legame tra letteratura e cinema” . Scrive e dirige il suo primo film , Angel nel 1982. Si tratta di un thriller teso e violento che , insieme a In compagnia dei lupi (1984) , premio della critica inglese per la miglior regia , mostra con chiarezza i temi a lui più cari : l’inconscio, il fantastico, l’orrore ; forme privilegiate per comprendere la realtà che si accompagnano in modo insolito, ma convincente con la ricostruzione storica e la passione politica. I sentimenti estremi, le emozioni, il coinvolgimento istintivo, non sono peraltro tradotti in spiegazioni logiche, ma in suggestioni empatiche, cromatiche e visive. E’ il caso del torbido e ossessivo Intervista col vampiro (1994) , o di In dreams (1998) , ma anche dell’epico ed energico Michael Collins (1996) , dedicato all’omonimo eroe della resistenza irlandese ( Leone d’oro a Venezia) o di Fine di una storia (1999), opera dai toni cupi e intensi. Intervista col vampiro , realizzato ,(come anche Michael Collins) con enorme dispiego di mezzi , ha una storia (tratta dal best-seller di Anna Rice) che è indagine psicologica e profonda sulla società e sui sentimenti , attraverso un horror-movie con complessità inedita per questo genere, richiedente pertanto una visione attenta e culturale e non soltanto spettacolare. Convincenti qui risultano Tom Cruise, Brad Pitt e Antonio Banderas.
I film del periodo hollywooodiano di Collins (Fantasmi da legare e Non siamo angeli con Robert De Niro e Sean Penn), sono opere non ben riuscite e lasciano l’autore insoddisfatto e frustrato , poiché le megaproduzioni Usa non gli permettono il controllo finale del prodotto e gli stravolgono i progetti ancor prima di iniziare le riprese.
Se il tumultuoso Mona Lisa segnala Jordan al pubblico internazionale, il primo grande successo lo ottiene con La moglie del soldato (1992) , un viaggio nel fanatismo e nel pregiudizio politico ed erotico dagli esiti inaspettati. Jordan con questo film ci trascina in una ricerca interiore distruttiva , spiazzandoci continuamente , fino al grande colpo di scena che lascia lo spettatore senza fiato ; un grande film , violento e delicato nello stesso tempo, con sei nominations e premio Oscar per la sceneggiatura originale. Eccezionali Forest Whitaker , Stephen Rea, Jaye Davidson , Miranda Richardson.
Filmografia:
"Angel", 1982;
"In compagnia dei lupi", 1984;
"Mona Lisa", 1986;
"Fantasmi da legare", 1988;
"Non siamo angeli", 1989;
"Un amore forse due", 1990;
"La moglie del soldato", 1992;
"Intervista col vampiro", 1994;
"Michael Collins", 1996;
"In Dreams", 1999;
"Fine di una storia", 2000.