Italia 1994 Durata: 87 min. REGIA: Alessandro
D'Alatri
ATTORI: Anna Galiena, Massimo Ghini, Kim Rossi Stuart, Patrizia Piccinini, Renzo Sacchi, Paola Tiziana Cruciani.
La vita quieta di una coppia piccolo borghese a Roma – lei impiegata alle Poste, lui conducente d'autobus – è turbata dall'ossessivo corteggiamento di Saverio, giovane psicolabile e ipersensibile, innamorato della donna. Lei è imbarazzata; lui, superati i primi impulsi di gelosia aggressiva, cerca di capire l'intruso e la sua diversità, sentendosi un po' santo, un po' fesso. Un'idea forte di partenza, sviluppata senza divagazioni né demagogia sentimentale con una conclusione che apre uno spiraglio di speranza per il giovane Saverio. Un bel trio d'interpreti, un solido impianto drammaturgico, una suggestiva e funzionale colonna musicale di sonorità klezmer (ebraico-balcaniche), curata da Moni Ovadia e Alfredo La Cosegliaz. 2 Grolle d'oro ad A. Galiena e K. Rossi Stuart.
Intervista ad Alessandro D'Alatri:
Dopo varie esperienze in
pubblicità, Alessandro D'Alatri (Roma, 1955) esordisce nel cinema nel 1991 con Americano
rosso, viaggio nella provincia veneta degli anni Trenta di un italoamericano
attempato alla ricerca di una moglie italiana "vergine e pettoruta",
in compagnia di Vittorio, fascista "imbroglioncello e furbacchione" di
paese, che alla fine scoprirà di essere stato usato come capro espiatorio
dall'americano.
Toni e ambientazione del
tutto diversi in Senza
pelle (1993), in cui. Saverio, un ragazzo con problemi psichici, è
innamorato di Gina, la quale stringe con lui un'intensa amicizia, nonostante la
gelosia del compagno Riccardo. Quando però Saverio comprende che la relazione
con Gina non potrà mai essere tale anche sul piano fisico, ha una violenta
crisi nervosa e nel finale egli sembra potersi integrare solamente all'interno
di una comunità.
Come ricorda il suo
esordio cinematografico con Americano rosso nel 1991?
Lavoravo ad un altro progetto
(una storia giovanile ambientata negli anni Settanta, che spero di riuscire a
realizzare in futuro), quando il produttore Fabio Parenzo, che possedeva i
diritti dell'omonimo romanzo di Pugnetti, mi propose di realizzarne un film. Mi
piacque la storia e la possibilità di un esordio che non attingesse
all'autobiografico (com'era in voga in quegli anni), ma guardasse invece ad un
grande affresco su un periodo di vita italiana intorno al '34, alla vigilia
dell'esplosione di grandi conflitti, come la guerra di Spagna e quella mondiale
e del manifestarsi nel nostro paese di grandi contraddizioni. Un film dal budget
limitato, che richiese faticose ricerche e viaggi per tutto il Triveneto - del
quale ho per altro un ottimo ricordo - nel tentativo di ricostruire quella realtà
poi trasformata dall'industrializzazione. Un lavoro che fu ben accolto da
critica e pubblico, nonostante la cattiva distribuzione.
Dopo un viaggio reale, un
viaggio "introspettivo" nel disagio psichico: come nacque Senza
pelle?
Effettivamente il tema del
viaggio - centrale nel mio primo film, così come nella mia stessa concezione
della vita - descrive in Senza pelle un itinerario più introspettivo, più
emotivo. Il film nasce dalla volontà di approfondire il problema della malattia
psichica, che in genere trova attenzione da parte dell'opinione pubblica solo
quando sfocia in episodi di particolare tragicità, abilmente sfruttati dai
media in termini sensazionalistici. Per documentarmi ho lavorato anche come
volontario per più di un anno in una comunità psicoterapeutica, scoprendo che
il disagio mentale è una realtà per lo più sconosciuta che coinvolge più
persone di quante si pensi, condizionando pesantemente anche chi vive loro
vicino. E' significativo poi, a mio avviso, che tale problema colpisca numerosi
giovani, il cui equilibrio certo subisce anche l'assurda pressione degli
incalzanti modelli di successo e di profitto. Personalmente ho condiviso la
Legge 180 che - se pur del tutto discutibile nella sua applicazione - ha
sottratto queste persone a una segregazione di tipo carcerario. Rimane però il
problema dell'emarginazione, in particolare in una società industriale, in cui
il disabile psichico appare improduttivo e più inaccettabile che non nel
contesto di un piccolo paese, dove spesso il "matto" appartiene al
folclore, vivendo forse, tutto sommato, una condizione di minore isolamento. Nel
quartiere di un grande centro moderno, invece, la persona con problemi psichici
dà senz'altro fastidio: su questo ho costruito Senza pelle.
Ci pare di capire, quindi,
che nel film, la soluzione di una comunità per il protagonista, sia una
proposta precisa...
Quel finale è stato
ingiustamente attaccato da molti intellettuali che a torto hanno visto nel
sorriso che la ragazzina della comunità indirizza a Saverio una sorta di
romantico happy end. Ma per chi conosce il problema, è evidente che ciò
non rappresenta comunque una soluzione di felicità, perché della malattia
mentale si può tutt'al più alleviare la sofferenza, senza però uscirne
completamente. La comunità è importantissima perché è aperta e perché aiuta
a recidere il cordone ombelicale con la famiglia e a costruire nuovi rapporti
sia con i terapeuti che con gli assistiti, favorendo lo sviluppo di relazioni
emotive e affettive. Era importante per me ribadire ciò, soprattutto in un
momento in cui tali importantissime strutture non godono degli aiuti necessari
da parte delle istituzioni, vedendo impedito il loro sviluppo e minacciata la
loro sopravvivenza.
Uno dei problemi con cui
si scontra Saverio è l'espressione della propria sessualità...
L'esigenza di una sessualità
da parte di queste persone è un aspetto scottante e importante, e un
inquadramento sereno del problema non è favorito da una certa morale e dal
senso del peccato nei confronti del sesso che proviene dalla nostra cultura
religiosa. Per non parlare poi della "falsità" e della superficialità
che la cultura audiovisiva di stampo americano in cui siamo immersi ci propone
nella rappresentazione del corpo e soprattutto dei rapporti umani.
Quali film hanno meglio
trattato il tema dell'handicap e del disagio?
In Italia mi vengono in mente
Il grande cocomero, di Francesca Archibugi o certi film di Marco
Bellocchio. All'estero Il mio piede sinistro e anche un'opera che mi ha
colpito particolarmente, Un giorno di ordinaria follia, con Michael
Douglas, a mio avviso uno dei migliori film americani sul tema del disagio.
Ho trovato invece un po'
"consolatori" Shine e Qualcosa è cambiato, che pure
sono dei buoni film: raramente, infatti, nella realtà, il problema psichico e
il disadattamento che ne consegue offrono gli spiragli che si vedono in queste
storie, dove i protagonisti trovano addirittura il successo e la realizzazione
sentimentale.
Forrest Gump,
invece, mi è sembrato un film sostanzialmente sincero e la confessione di come
gli americani vedono se stessi: "profondamente stupidi", ma onesti e,
soprattutto, vincenti!
Avendo lavorato a lungo in
pubblicità, cosa ne pensa di quella sociale?
Ne ho fatta poca nella mia
carriera e devo dire che non ne condivido affatto i presupposti: già la stessa
definizione di "pubblicità sociale" contiene in sé, a mio parere,
una grossa contraddizione. Preferirei invece che si facesse una pubblicità meno
avulsa dalla realtà quotidiana, dove si potessero vedere persone vere e, perché
no?, anche con handicap, piuttosto che i pubblicitari puntassero a "rifarsi
l'anima", dopo tanta brutta pubblicità commerciale, in questa specie di
"orto dei buoni sentimenti", che diventa spesso un'occasione dove
riflettere su velleità di artisti mancati.
Sono insomma in favore di una
maggiore presenza del sociale nella pubblicità in genere, piuttosto che per la
pubblicità sociale. Anche perché, generalmente, quest'ultima, occupando spazi
gratuiti, viene proposta col contagocce e in orari penalizzanti.
Quali sono gli
"handicap" del cinema italiano?
Al di là di alcuni problemi
specifici, relativi alla cattiva distribuzione, agli esercizi ecc., ritengo che
nel nostro paese viviamo in un clima generale di "asfissia culturale"
che coinvolge tutte le forme di espressione artistica: basta guardare che cosa
propongono la televisione e i giornali più prestigiosi per farsene un'idea!
Manca poi in Italia la
mentalità per investire nella cultura. Pochissime sono le fondazioni e tutto è
lasciato a carico dell'intervento statale. Occorrono leggi che stimolino gli
investitori privati a finanziare le iniziative culturali - magari grazie a
particolari opportunità fiscali - perché esse diventino un patrimonio del
paese e non un costo dello Stato.
Pensiamo ad esempio a Steven
Spielberg, che realizzò i suoi primi film grazie al contributo di associazioni
di professionisti. Anche da noi sarebbe auspicabile l'affermarsi di una sorta di
"azionariato culturale", lasciando che l'aiuto dello Stato si
concentrasse su specifici ambiti da difendere (come il cinema sperimentale). E
si dovrebbe poi saper dare finalmente un respiro europeo alla nostra
progettualità in materia culturale...