"L'impero del Sole" di Steven Spielberg

L’IMPERO DEL SOLE (1987)

Nel 1941 il ragazzo inglese Jim Graham - dieci anni - vive a Shangai in mezzo agli agi con l'hobby immaginifico degli aerei-giocattolo. Durante l'invasione della Cina da parte dei Giapponesi, nella confusione della fuga, Jim perde il contatto con i genitori. Dopo lungo vagabondare, rientra nella villa deserta e vi rimane finchè, esaurite le provviste, si avventura in bicicletta per Shangai, pattugliata dai Giapponesi. Quasi investito da due spregiudicati americani, Basie e Frank Demerest, viene catturato con loro dai Giapponesi e chiuso in un campo di concentramento. Qui Jim vive gli anni difficili del passaggio dall'infanzia all'adolescenza. Si rende utile ai prigionieri, dedicandosi con furbizia, come si trattasse di un gioco, a un piccolo commercio fatto di scambi di oggetti. E' infatuato dello scaltro Basie, trasfigurato in eroe dalla sua fantasia, ma è sensibile alla dedizione e al coraggio del dottor Rawlins, il medico inglese del campo, che gli fa anche scuola. Gioca a lanciare il suo aereo giocattolo con un coetaneo giapponese, intravvisto al di là del filo spinato, in mezzo ai militari che presidiano il campo. Lasciato libero con gli altri prigionieri dai Giapponesi in rotta, assiste a distanza al bagliore della bomba atomica che porrà fine al conflitto. Riunito ad altri fanciulli dispersi, ritrova la madre e, tra le braccia di questa, abbassa sfinito le palpebre. 

Dal romanzo (1984) di James G. Ballard, adattato da Tom Stoppard: c'è un ricco ragazzino inglese, nato in Cina, che il colonialismo l'ha succhiato col latte. Quando i giapponesi occupano Shanghai, è separato dalla famiglia e finisce in un campo di internamento che diventa scuola di vita. E un megafilm da 35 milioni di dollari che, nonostante la bellezza di alcune sequenze (ottimi i primi 40 minuti), non riesce a diventare, come vorrebbe, una saga sull'innocenza perduta. Quella del bambino e quella del mondo, dopo l'atomica di Hiroshima. Nel bene e nel male, comunque, un film spielberghiano al 100%. 

Ancora la guerra vista con gli occhi di un ragazzo. Stavolta non è lo stesso regista che, cresciuto, ricorda con nostalgia (il Boorman di 1941) o con dolore (il Malle di Arrivederci ragazzi) gli anni “eroici” del conflitto, poiché Steven Spielberg (classe 1948) non era ancora nato, a quel tempo. Il regista americano si è affidato al romanzo semi-autobiografíco di uno scrittore inglese di fantascienza, James Graham Ballard (e proprio James - Jim - Graham si chiama il suo piccolo protagonista), nato a Shanghai, autore tra l'altro di Vento dal nulla e di Deserto d'acqua.Spielberg sente parlare tanto in casa del periodo di guerra, e già nel 1979 lo tratta sullo schermo, in maniera sarcastica (1941: Allarme a Hollywood). Stavolta si fa serio, dichiara che è finito il tempo delle favole, che avendo compiuto i quarant'anni è tempo che abbandoni i film fanciulleschi. Ciò non toglie che continui, come ha fatto spesso, ad occuparsi di ragazzini: diciamo che nel piccolo protagonista di L'impero del sole, maturato dall'esperienza della guerra, delinea se stesso, cinematograficamente maturato (lo afferma lui). Passaggio dichiarato anche dalla sequenza dell'esplosione atomica, cui il ragazzino protagonista assiste ignaro ma come folgorato: fine di un periodo per la Storia (maiuscolo), per il mondo, per il personaggio. Anche per il regista della storia (minuscolo)? Che già in Il colore viola, d'altronde, aveva fatto (a suo modo, s'intende), professione di “serietà”.Dunque il tema di L'impero del sole (titolo ripreso da un film italiano dei 1956 di Gras e Craveri, “réportage” di un'esplorazione nel Sudamerica) è il bambino che diventa uomo in circostanze drammatiche, che cresce in fretta per colpa della guerra. Un motivo che è già stato trattato da cineasti di diversa origine, e sempre in maniera drammatica. Ricordiamo solo Sciuscià (1946) di De Sica e Germania anno zero (1948) di Rossellini, I bambini di Hiroshima (1952) del giapponese Kaneto Shindo e Giochi proibiti (1952) del francese René Clément, e soprattutto il bellissimo L'infanzia di Ivan (1962) del russo Tarkovskij. In un suo lucido intervento a proposito di quest'ultimo film, Sartre metteva giustamente in rilievo l'importanza del messaggio lanciato da Tarkovskij, scarsamente recepito dalla critica nostrana, compresa quella di sinistra: “Ivan è la più innocente e toccante vittima della guerra - scriveva il 9 ottobre 1962 all'“Unità” - Impiccato a dodici anni. In mezzo alla gioia di una nazione che ha pagato duramente il diritto di proseguire la costruzione del socialismo, c'è - fra tanti altri - questo buco nero, una puntura d'ago irrimediabile: la morte di un bambino nell'odio e nella disperazione... Non c'è neppure una madre per confondere dentro di sé dolore e fierezza: una perdita secca”.Jim, il protagonista di L'impero del sole, esce vittorioso dal conflitto. Sopravvive, ritrova la madre e il padre. Passa attraverso uno scontro armato che non è la guerra dei bottoni e neanche quella dei ragazzi di Via Paal, ma trionfa di tutte le avversità. Certe volte sembra addirittura cercare il pericolo, con incoscienza (come quando sale sul tetto del più alto edificio del campo per vedere meglio gli aerei americani in volo radente), ma la sua buona stella lo assiste sempre. Il fatto è che, guerra o non guerra, Jim è per intero una creatura di Spielberg.“La funzione dei bambini - scrive Franco La Polla nel suo “Castoro” dedicato a questo regista - è pressoché sempre la stessa: essi immettono nella narrazione una componente di incoscienza verso quel che di terribile sta accadendo, a volte addirittura risolvono una situazione problematica... C'è insomma nel bambino spielberghiano qualcosa di superiore, una sorta di grazia che lo rende capace di cose davanti alle quali l'adulto reagisce in modo più drammatico. Oppure, addirittura, una forza che lo mantiene in vita nonostante i pericoli che possono minacciarlo”. Pare di sentire Truffaut, quando fa commentare il volo dal quinto piano del bambino che si rialza incolume, in Gli anni in tasca: -“è terribile, quando si pensa a quanto può capitare ai bambini. lo trovo che sono in pericolo dalla mattina alla sera. - Sì, è vero. Ma i bambini sono molto solidi. Battono la testa contro tutto; la battono contro la vita, ma hanno tanta grazia e poi hanno la pelle dura!”.Jim Graham è il più spielberghiano dei ragazzini, più del piccolo Barry di Incontri ravvicinati del terzo tipo che familiarizza con gli alieni, poiché i giapponesi sono molto meno poetici e suggestivi delle luminose creature che accorrono allo scampanio del motivo sonoro dell'amicizia, diffuso nello spazio. Ci si potrebbe formalizzare sull'atteggiamento sfumato adottato nei confronti dei “nemici”, davanti ai quali il piccolo protagonista si umilia per ottenere vantaggi pratici per sé e per i compagni di prigionia (più pragmatico di loro: non per niente ammira tanto gli americani); i giapponesi sono da lui considerati con simpatia, il loro coraggio, la loro forza aerea, il loro comportamento lo attraggono al di là di ogni altra considerazione patriottica.Anche altri registi (pensiamo soprattutto a Malle; la battuta “Grazie, Hitler!” di Boorman è, appunto, soltanto una battuta) ricordano di quando consideravano i nemici sotto una luce favorevole, nettamente diversa da quella della Storia; ma non senza rimorso. Spielberg non ne ha, la cosa non lo riguarda direttamente: in lui guerra, giapponesi, aerei, drammi, bombardamenti, distruzione, morte, tutto diventa materia di spettacolo.Guerra come gioco, allora. Quando la nave giapponese entra nel porto di Shanghai e Jim lancia segnali, dalla finestra dell'albergo, con la torcia elettrica, e la nave, come in risposta, bombarda la città, il ragazzino esterrefatto dichiara al padre accorso: “Non l'ho fatto apposta, era solo un gioco”. Continuerà a giocare, e con lui Spielberg continuerà a filmare, cioè a rendere “astratti” gli avvenimenti, a depauperarli della loro concretezza tragica, a farli diventare “belle immagini”.Certo, alla base c'è il famoso motivo della “matu-razione”. Jim è un ragazzino viziato, sotto il sole di Shanghai. “Tu devi fare quello che dico io” dice alla cameriera cinese che cerca di correggerlo, e con atteggiamento di precoce snobismo si dichiara ateo, senza saper bene di cosa stia parlando. Ed ecco che le cose intorno a lui sono diverse da come le aveva pensate, cambiano inaspettatamente. Aveva già avuto delle avvisaglie, aveva già constatato che il mondo “vero”, attorno al piccolo mondo protetto in cui viveva, era complicato, diverso dall'etichetta di casa, dal Chopin suonato con grazia dalla madre sul pianoforte a coda, dal golf giocato in giardino dal padre. La sequenza del percorso in automobile verso la casa in cui si svolge la festa mascherata è un'efficace definizione dell'ottusità e dell'insensibilità dei bianchi rispetto alla ribollente realtà locale. L'intensità della sequenza non ha altri riscontri, il “gioco” deve ancora cominciare.Nella sua elegante giacchetta della comunità anglicana, Jim viene gettato nel bel mezzo di quel mondo praticamente ancora sconosciuto per lui. Lo schiaffo violento che riceve in pieno viso da quella cameriera cinese che era stata da sempre aggiogata al suo carro è un trauma per lui, e colpisce anche noi, è una definizione eloquente ben risolta, senza bisogno di spiegazioni, di sottolineature) delle circostanze in cui i due mondi (bianchi/gialli, bimbi/adulti, pace/guerra, privilegi/povertà ecc.) si scontrano. Per un po' l'educazione ricevuta (il parlare ricercato di Jim, i suoi modi gentili) conta ancora qualcosa, ma poi lascia il posto ad una serie di comportamenti autonomi, nuovi e pratici.Jim conosce la povertà, il disordine, la morte. Per sopravvivere, si finge morto. Si arrende a tutti, amici e nemici. Un altro tipo di educazione subentra a quello tradizionale, anche se faticosamente, nel campo, il medico tenta di non fargli dimenticare il latino imparato a scuola. “La scuola migliore è l'università della vita”: è una battuta che il film attribuisce a Jim, ma noi non gliela sentiamo pronunciare. Anzi, la proposizione è oggetto di sfottò: furbescamente, quella che è la morale della storia non viene dichiarata con “faccia feroce” dal regista, ma con leggerezza, con ironia.Ci sono anche i momenti, per cosi dire, “sgradevoli” nel senso shawiano della parola (la citata mascherata degli europei, lo sguardo durissimo che Jim rivolge a Bosie, il trafficante americano che tradisce le promesse, che se ne va passando al di sopra del sentimento dell'amicizia e di ogni altro sentimento), ma la motivazione del regista è quella di sfruttare le occasioni che gli vengono offerte dal “plot” per scatenarsi nella sua ben nota visionarietà, per far girare a pieno regime la sua macchina-cinema.Utilizzando con indubbia maestria il suo set miliardario (ha girato in Cina - con la prima “troupe” americana ammessa a Shanghai - in Gran Bretagna e in Spagna), nonché i mezzi tecnici che ha avuto a disposizione, Spielberg crea il suo personale “impero del sole”, cioè della luce. Luce e spazio sono i suoi strumenti principali. Quando Jim si risveglia nei campi di raccolta vede i prigionieri in una luce spettrale. Quando riesce ad avvicinarsi ad un “vero” aereo giapponese, attivo, lo scorge immerso in una miriade di scintille di fuoco (alcuni saldatori stanno usando la fiamma ossidrica: il dato diegetico diventa subito - come sempre in Spielberg - una dilatazione della realtà, un passaggio ad una “realtà altra”). Il bombardamento aereo che Jim osserva dalla finestra della sua baracca è una festa di luci nella notte; lo scoppio lontano dell'atomica è un'esplosione di luce, un'epifania di tipo “spirituale” (come se l'“ateo” Jim fosse colpito da un segnale celeste). Il sole splende alto, anche nei numerosi controluce del film: ricordiamo solo quello, celebrato in una specie di ripetuta apoteosi, della morte del ragazzo giapponese, mancato kamikaze (il sole brilla sulla lama della sua spada, sfoderata solo per tagliare un frutto a Jim), seguita dal massaggio al cuore da parte del protagonista, il quale ripete istericamente che vuol riportare tutti alla vita. Jim, nel movimento inutile, si alza e si abbassa ora coprendo ora scoprendo il sole, con un effetto di evidente compiacimento enfatizzato da una musica corale che si imparenta, guarda caso, al mascagnano “Inno al Sole”.L'enfasi è la misura espressiva di Spielberg. E anche del suo compositore Johnny WiIliams, rappresentante della nuova spettacolarità hollywoodiana “sub specie sonora”. Il bombardamento di immagini, in L'impero del sole, va di pari passo col bombardamento di suoni: vedi il coro di voci bianche della presentazione iniziale nella chiesa anglicana, ripetuto nella sequenza della partenza dei tre kamikaze (il ragazzino intona la sua canzone, per associarsi al canto mistico-eroico dei giapponesi senza ritorno, e un coro invisibile lo segue); vedi il coro liricizzante, senza parole, sul passaggio a volo radente dei bombardieri americani (ad un certo momento i rumori realistici scompaiono, il movimento è rallentato, si fa a tempo a vedere un pilota che saluta amabilmente al passaggio: la musica domina sovrana); vedi l'“Alleluja” intonato a piena gola, ancora nel coro, sulla morte del ragazzo giapponese e sul tentativo da parte di Jim di “risuscitarlo”. AIleluja che viene ripreso ed esposto in tutto il suo turgore Dolby sotto i titoli di coda, e che continua ancora per un pezzo, sulla lunghissima coda nera, quando la maggior parte del pubblico se ne è già andata. Segno del turgore, dell'entusiasmo debordante e di Williams e di Spielberg.Ho usato apposta il termine “vedi” e non “senti”, a proposito degli interventi musicali, perché gli apporti del compositore sono corposamente legati alla natura delle immagini, nell'esaltazione del potere magico e immaginario del regista. Quest'ultimo è invitato a nozze nel trasfigurare tutto in cosa da ammirare (“mirabilia”), in visione pura: se sia quintessenza del cinema o formalismo, pura maniera, dipende dall'atteggiamento di chi si pone di fronte a questo lussurregiante materiale visibile, a questa ostensione opulenta.In Spielberg i richiami (l'acqua dell'inizio e della fine: anche qui dominano gli elementi naturali, acqua, aria, terra, fuoco, che La Polla dichiara peculiari al cinema di questo autore; l'abbraccio al medico che anticipa quello alla madre; il pianoforte di casa e il pianoforte dello stadio; la bicicletta usata nella casa vuota e poi nella baracca abbandonata) tracciano una tramatura di significati, ma è il luccicare del tessuto a contare più della trasparenza. Così come, a proposito di “segni” che rimandano a determinati “sensi”, nella presenza di allusioni come la distrazione di Jim solista nel coro della chiesa (accenno a qualcosa che stona nell'ordine della colonia britannica); il mendicante cinese che attira l'attenzione (e di cui Jim ritroverà la scatoletta di latta per l'elemosina, povero guscio vuoto); il sangue della gallina sbattuta contro il vetro dell' automobile durante la gita verso la festa in maschera; la cipria sparsa per terra, nel bagno di casa, occupato da presenze usurpatrici; il vento che spazza via le orme così come fa volare le foglie nell'acqua della piscina, insozzandola, e via dicendo.Tom Stoppard, commediografo inglese, ha scritto la sceneggiatura, e i fatti sono quelli del libro. Ma tutta la “rappresentazione” è spielberghiana al cento per cento: la fluidità della cinepresa, gli ampi movimenti di macchina che partono da un particolare per abbracciare vasti spazi e moltitudini di persone (Spielberg fa concorrenza ad Attenborough nell'uso delle masse), i “trucchi”, che non riguardano stavolta gli effetti speciali, ma la pure “imagerie”. Dico della sequenza del gioco di Jim nella carlinga dell'aereo fuori uso, che “mitraglia” l'aliante, con i movimenti laterali della cinepresa e i carrelli verso il viso di Jim (carrelli veri, con duttilissimi “dolly”, non zoom) combinati a dare l'illusione che Jim voli davvero; di quella dei ritorno a casa, in cui una figura in vesti bianche, sostenuta dalla musica di Chopin, sembra agli occhi di Jim, e ai nostri, quella della madre, e invece si tratta dell'ufficiale giapponese in veste da bagno; di quella dei viveri catapultati dal cielo, con quei contenitori che come magiche cornucopie spargono abbondanza dal tetto come una pioggia d'oro (in controluce, naturalmente).Non c'è bisogno di arrivare al momento in cui Jim “disturba” la ripresa di un cinegiornale giapponese, seguito subito dopo dal suo trascorrere davanti ad un enorme cartellone di Via col vento, con i caratteri cinesi per capire. Il cinema è giapponese, è cinese, è di tutti, è sempre cinema.Spielberg domina ancora una volta - cresciuto o no, svolte o no: sono molto scettico al riguardo - il suo impero del sole, cioè del cinema. Macché Sol Levante. Il suo è il sole negli occhi.