Giuseppe Zani
Pàrlô come t’à ’nsegnàt tò màder
Pubblicazione fuori commercio

 

Parlà de büfù
(Parlare da buffoni) 

Càmbiô shunàdô!.gif (37790 byte)
Disegno di Luca Ferrari

«Càmbiô shunàdô!»
... e Pinì 'l cambiàô gàmbô

 

A béer l’àivô,
ma càntô le ràne ‘n pànsô

A bere l'acqua, mi cantano le rane in pancia.
Morale: meglio il vino.

A béer l’àivô ciàpe ‘l rözen
perchè
gh'ó ‘l stòmec de fèr

A bere l'acqua prendo la ruggine perché ho lo stomaco di ferro.
Fa parte del repertorio popolare della serie "I danni dell'acqua".

A la shérô
shashào-shashào(*),
a la matìnô
cagào-cagào(*)

Alla sera (*), alla mattina (**)
(*shashào-shashào = Suono onomatopeico del ridere sonoramente che sostituisce il "divertirsi e far tardi") e (**cagào-cagào esprime in rima la difficoltà, l'impedimento fisico del mattino seguente).
L'associazione di questi due termini si trova anche per dire della persona spiritosa, ma timida: «el sümearès töt lü...» (Sembrerebbe tutto lui...), o del finto spavaldo: «el sümearès quaràntô-quatórdes» (sembrerebbe 40-14) e «el sümearès shashào-shashào e 'nvéce l'è piö gne cagào-cagào».

A nà ‘n gìro
ta pèrdet le shónze

Ad andare in giro perdi la sugna.
Si dice ironicamente al magro.

Ai tép de Carlo códegô
(o de Carlo ü)

Ai tempi di Carlo cotica (o di Carlo uno).
Al tempo che fu.

Alà, tumérô!

Valà, tomaia!
Si dice a persona che capisce poco. Che ragiona con i piedi.

Baciàculô!

Un «baciàculô» è uno che chiacchiera molto e a sproposito; il suono della sua voce ricorda qualcosa di sgradevole.
La «baciàculô» era usata durante la Settimana Santa in sostituzione delle campane che venivano "legate" dal giovedì santo fino alla Resurrezione. Era uno strumento composto da una tavola di legno ad ogni faccia della quale era attaccato un ferro "ad u" fissato all'asse in modo che in un movimento destra-sinistra andasse a sbattere rumorosamente sul legno stesso. In altre parti si usava il «gri-gri» (era chiamato così ad imitazione del rumore provocato dalla lamella che andava a sbattere contro la dentatura del perno su cui girava). In altre parti ancora si univano l'utile, il dilettevole e l'indispensabile. Si toglievano le nerissime catene del focolare che si facevano "suonare" trascinandole per terra sulla strada (l'utile). Per i bambini era l'occasione per correre e far cagnara (dilettevole) con la benedizione di tutti perché più sarebbero state in giro più sarebbero tornate a casa lucide, quasi nuove, pulite (indispensabile), pronte per essere appese, con orgoglio dei bambini, al loro posto.

Càmbiô shunàdô...
(e Pinì 'l cambiàô gàmbô)

Cambia suonata... (e Pinino cambiava gamba!)
Cambia argomento! Hai stufato! Quando però ci si rende conto che l'interlocutore non vuole proprio "cambiar musica" si tira fuori il paragone con un certo «Pinì» che suonava la fisarmonica, ma aveva un "repertorio" piuttosto scarno. Quando gli si diceva di cambiare, al massimo cambiava la gamba sulla quale era appoggiato il suo strumento così poco considerato.

Che nàre che fàva

È volutamente "italiacano". Il «Büfù» ricorre a queste espressioni che non hanno senso in italiano è sono la mera italianizzazione dell'espressione dialettale, in questo caso «che nà che 'l fàô» (che andare che faceva, cioè "come andava forte!").
Ecco qualche altra perla di "italiacano":
«Dal "solerro"(1) mi sono "ciuffato"(2) sul "finille"(3) per fare i "culimartelli"(4)»;
(1)«sulér»=solaio; (2)«ciufàs»=tuffarsi; (3)«finìl»=fienile; (4)«cürmartèi»=capriole;
«Prendi il "sapone"(*) e fai una buca» (*«sapù»=piccone)
«Ho un mucchio di sabbia che "mi cresce"(*)»
(*«el ma crès» significa "ne ho in più")
«Prendi la "gèrra"(1) e "trallallà"(2)»
(1)«gèrô»=ghiaia, sabbia; (2)«tràlô là»=tirala là.

«Che shét ‘ré a fa?»
«A catà shö l’òio de nus
de mitìgô shótô ‘l nas
a chei curgiùs!»

«Che cosa stai facendo?» «Sto raccogliendo l'olio di noce da mettere sotto il naso a quelli curiosi».
È un modo poco ortodosso per rispondere "Che cosa te ne frega?" a chi vuol sapere o curiosare su una cosa che tu, invece, non vuoi far sapere in giro.

Co l'ut de gumbèt
e inguènt de mölô,
pàshô 'l gós
e 'é la margiölô(*)

Con l'olio di gomito e unguento di mola, passa il gozzo e viene la (*)«Margiölô» è un grosso salame. Si ottiene insaccando nella vescica o nel «Butàs» (stomaco) del maiale «l'impiöm» (il ripieno), fatto di carne e grasso tagliati a pezzi più grossi rispetto al resto del salame. È detto anche "rete". Era considerata una specialità perché quando veniva tagliato se ne facevano fette, grosse «...come le röde del carèt» (...come le ruote del carro) e arrostendo i grossi pezzi di grasso facevano un bel po' di unto dove si sarebbe poi «puciàt zó» (intinto) la polenta. Quel giorno era festa grande a tavola.
Perciò: con olio di gomito e girando forte, passa il gozzo, ma diventa grosso come una «margiölô». Lo sforzo che fai nel far girare la mola ti fa gonfiare ancor di più il collo.

«Come àlô?»
«Come àlô... l’è mei en galù»
(she è de 'na fónnô
g'è mei töcc du!)

«Come va?» - «Come ala... è meglio una coscia» (se sono di una donna sono meglio tutte e due!).
Si gioca sulle parole: «àlô» significa sia "ala" che "va". La frase successiva sta perfettamente nel gioco. Tutto per dire: «potrebbe andare meglio». L'educato, invece, dice: « ...en va isé là» (andiamo avanti così).

De capì capéshe,
ma l'è a pishà
che fó le stréshe

Per capire capisco, ma a pisciare faccio scintille.
Poco comprensibile. Si dice quando si sente una risposta che non ha niente a che vedere con la domanda e non si sa se la cosa sia fatta ad arte o se siamo veramente di fronte ad una persona che non capisce.

De chei segnàcc de Dio
stàgô tré pàs de drìo

Da quelli segnati da Dio stai tre passi indietro.
Gli zoppi, i gobbi ecc., erano considerati in po' come degli stregoni di cui bisognava diffidare: «...g'è malégn come le grèm» (...sono maligni, maliziosi, tenaci, ostinati coma la gramigna).

El balèngô(*)
‘n de ‘l mànec

(*) nel manico (*el balèngô = tentenna, è inaffidabile).
Non è a posto. È un balordo. Impazzito.

El bàzô la bàrgiô(*)
per amùr d'i gnòc

Bacia la (*) per amore degli gnocchi.
(*bàrgiô = Marmitta o fiamminga. A Brescia si dice «Bàsia». In Valle Camonica si dice «bargiòt», o «bargiöl» al berretto largo).
Si parla del leccapiedi. Queste persone sono considerate «Cuèrcc che ga 'à bé a töte le pignàte» (coperchi che vanno bene a tutte le pentole) o dei «Bat dét-bat fò» (batte dentro, batte fuori), sono cioè persone che dicono bene o male, danno ragione o torto secondo l'interlocutore che hanno di fronte. Gli avvocati delle cause perse.

El föm
el ga 'à ré a ch'i bèi

Il fumo va dietro a quelli belli.
Lo dice per togliersi dall'imbarazzo chi cerca di evitare il fumo del «fugarì» (fuocherello) che lo rincorre dovunque si sposti per cercare di evitarlo.

El gh'à i zenöcc zümèi
e le gàmbe furestére

Ha le ginocchia gemelle e le gambe forestiere.
È così che si rappresenta la persona affetta da valgismo.

El gh'à ‘l mal del vedèl:
sha slóngô le bàle
e sha scürtô l’uzèl

Ha il male del vitello: si allungano le palle e si accorcia l'uccello.
Si dice, con pesante ironia, di chi invecchia.

«El 'l dìs fórse Lü 'l dìs
chel
'l dìs bu 'l dìs de 'l dìs
sunà 'l dìs l'urganì?'l dìs»
«Ah?
'l dìs Chi? 'l dìs
Mé?
'l dìs Nò! 'l dìs
L'è lü
'l dìs
chel
'l dìs bu 'l dìs de 'l dìs
sunà
'l dìs l'urganì 'l dìs»

«È forse Lei quello buono (capace) di suonare l'organino?». «Eh? Come? Io? No! È lui quello buono di suonare l'organino!»
è detto solo per prendere in giro un modo abbastanza diffuso di ripetere le "testuali parole" di un'altra persona, intercalando la frase diretta con dei «dice».

El pàrlô picù

Si dice di chi ha difficoltà nel pronunciare certe parole. Parlare in modo incomprensibile tipico dei bambini che pronunciano la «T» al posto della «S», la «L» invece della «R» e così via.
Del balbuziente si dice che «el cunchètô» o «el betégô». Sui "difetti" delle persone la fantasia si sbizzarrisce come in «Gàmbô de shèlino» (gamba di sedano) per dire di chi è alto e magro o «el rifletùr» (il riflettore) del pelato.

El sènt de lés(*)

Sente, ha sapore, di (*lés = Muffa umida appiccicaticcia che si forma sui prodotti non ben conservati).
Lo dice l'invitato che vuol mettere in imbarazzo il padrone di casa per fargli chiedere con una certa preoccupazione: «Che fòzô shéntel de lés, pò?» (Come mai sente di (*) poi?), «L'è... che a maiàl el sa finés» (è... che a mangiarlo si finisce) lo rassicura l'interlocutore... e così si trasforma in un graditissimo complimento come a dire: «è buonissimo e sparisce in fretta, non c'è nessuno che me ne lascia un po'?»

El tùnô
'n val cülérô(*)

Tuona in val (*cülérô = del culo; nella valle tra le due natiche).
Chi lo dice si guarda attorno alla ricerca dell'improbabile temporale. Quel tipo di tuono che ti prende sempre alla spalle è la scoreggia.

El và zó pièt

Va giù piegato.
Posizione del tronco in avanti. Si dice anche «‘ngubìt» (gobbo).

El và ‘n gatù(*)

Andare in (*«gatù» letteralmente è grosso gatto, ma significa muoversi a quattro zampe, andare carponi come i bambini).
Si dice di chi, ubriaco fradicio, non riesce a reggersi in piedi.

El piö bu d'i rós
el gh'à bütàt
sò pàder en de 'l pós

Il più buono dei rossi ha buttato suo padre nel pozzo.
Chi ha i capelli rossi è certamente cattivo

El sércô la pìpô
e ‘l ga l'à ‘n bócô

Cerca la pipa e ce l'ha in bocca.
Si dice allo smemorato e a chi non vede ciò che ha sotto il naso, così come si può sentire: «...el tàcô de i öcc a piö idìgô» (...comincia dagli occhi a non vederci più).

El ta màndô al bàvió(*)

Ti manda al cimitero (*«bàvio» o «bàbio» anticamente era detto l'ospedale dove si portano i malati molto gravi, quelli che oggi vengono definiti malati terminali).
Ti fa morire. Ti manda al creatore. Ci sono molti altri modi di dire che hanno significato di morire, ad esempio «'ndà a tènder le pàshere» (andare a sorvegliare le passere).

El và a ultà sha
l'Arcô(o la Màrcô) Traizànô

Va a prendere l'Arca (o la Marca) Trevisana.
Significa fare, spesso inutilmente, un lungo giro per arrivare al dunque. Complicare la situazione, ingrandendo il campo d'azione.
Lino ertani in "Vita camuna d'un tempo" dice che il detto è di origine Veneta: «La Marca Trevisana era territorio della Repubblica di San Marco distinto dal possedimento marino».

En bel nas,
en bel palàs

Un bel naso, un bel palazzo.
Può essere usato sia come complimento che come canzonatura. Il nasone è detto «nàpô» o «canépô».

I bèi palàs
i gh'à le bèle finèstre

I bei palazzi hanno le belle finestre.
Il bel viso ha gli occhi belli.

Fa i afàre de Zani

Fare gli affari di Zani.
Concludere un affare in perdita. Pare che a Corte Franca ci fosse una persona famosa per le sue «scopèrte» (trovate), la più famosa delle quali si dice che venisse raccontata proprio da questo simpatico personaggio: «...De Nigulìne sho pashàt fò a Pruài a telefunàgô al mulinér de àder de purtàm du shachèi de cröscô e giü de farinàcio...» (...Da Nigoline sono andato a Provaglio a telefonare al mugnaio di Adro di portarmi due sacchi di crusca e uno di farinaccio...) e, con il tono di chi aveva vissuto un grande evento, concludeva: «...L'è pròpe 'na cumudità 'l telefono!» (È proprio una comodità il telefono!).
Era il tempo dell'installazione dei primi telefoni nei posti pubblici, perciò un periodo relativamente recente e questo si vede anche dal fatto che si usa «Zani» anziché «Zagn». Nel nostro dialetto le parole che in italiano finiscono in «ni», quando non vengono troncate (es.: ca, pa, ma... = cani, pani, mani...), diventano «gn» (es.: agn, pagn, dagn... = anni, panni danni...).

Fa ‘ndà la 'mbaladùrô

Far funzionare l'imballatrice.
Mangiare.
«La màchinô del bàter» (trebbiatrice) che passava di cascina in cascina era di dimensioni tutt'altro che modeste e faceva sicuramente impressione quando, inghiottite «le cöf» (i covoni), da una parte "urinava" frumento, mentre dall'altra "cacava" balle di paglia.
L'imballatrice aveva un braccio meccanico che, col suo rumoroso e costante movimento dall'alto in basso, comprimeva la paglia. Ogni colpo produceva un «lòt» (quantità) di paglia e ogni dieci «lòcc» era una balla di paglia. Era un'utile misura di riferimento anche quando si doveva usare in stalla come «falèt» (strame, giaciglio, lettiera per le bestie).

Fin che 'l fös de dì
shé shé alà,
amò amò
'n pó shé,
ma pòtô, ma dopo, ma óó!!!

Fin che fosse da dire sì sì valà, un po' sì, ma "potta", ma dopo, ma ooh!!!
È una frase senza senso; frase fatta per sottolineare un ragionamento sconclusionato del quale resta solo una fila di parole. Con lo stesso significato: «Mìô per dì de dì... piötòst che lü 'l gh'àbes de dì... che nóter... ta 'l sét nè?» (Non per dire da dire... piuttosto che lui abbia da dire... che noi... lo sai vero?).
Della stessa serie ce ne sono altre come: «A bé bé pò!...», esclamazione di meraviglia per dire: «insomma...», «ma pensa...», « ci risiamo!» ecc., oppure il più arcaico: «A nì nì, alà, a ó» (andate, andate, valà, anche Voi) per dire in spirito buffonesco: «Non ti ci mettere anche tu adesso!».
Sempre a filastrocca si sente...

Gh'ó maiàt fò la àcô
per fat stüdià té,
ma fàe mei maiàt fò té
e fa stüdià la àcô

Ho venduto la mucca per farti studiare, ma facevo meglio vendere te e far studiare la mucca.
«...Avrei avuto più soddisfazioni». È la frase di rivincita di chi, con la sola conoscenza pratica riesce a risolvere il problema di un altro che non ce la fa nonostante abbia un titolo di studio.

G'è 'n pé

Sono in piedi.
Con questa immagine, che rimanda ad una simbologia della potenza fallica, si annuncia il mezzogiorno, con tutte due le lancette in alto.

Gh'è amò
a' chei che la cöntô

Ci sono ancora anche quelli che la raccontano.
Lo si dice al termine di un racconto o di una vicenda che si ritiene incredibile.

Gh'ìf fat bé tat
a sta ché póc

Avete fatto bene tanto a star qui poco.
Lo si dice come simpatico commiato agli ospiti.

Gh'ó puciàt tat per tignìlô,
ma la m’è scapàdô amò

Ho spinto tanto per tenerla, ma mi è scappata ancora.
La scoreggia non trattenuta crea un certo imbarazzo e questa battuta aiuta ad uscirne.

I shuspìr che tró per té
g'è shènsô nömer,
i vé fò deré
come chicömer

I sospiri che tiro per te sono senza numero, vengono fuori da dietro (grossi) come cocomeri.
A proposito di scoregge e «de büfù»... Questo è il massimo sospiro di un improbabile amore.

Gh'ét capìt come l'è stàdô?

Hai capito come è stata?
«el büfù» a questa domanda risponde così: «...che prümô l'è mórtô e pò la sh'è malàdô e con tre dicc en de 'l cül la sh'è stringulàdô!» (...che prima è morta e poi si è ammalata e con tre dita nel culo si è strangolata!).
È una «büfunàdô» (buffonata) detta per sottolineare che i discorsi ai quali si sta assistendo sono senza senso.

Gh'ó amò le prüme urèce

Ho ancora le prime orecchie.
Modo autoironico di dirsi giovane anche quando non lo si è più.

Grant e s-ciào

Grande (nel senso di alto) e basta.
Grande per niente. Fannullone. Incapace.
I significati della parola «s-ciào» sono molti e, da come è messa nella frase o dal tono della voce usato, possono diventare ad esempio «meno male», «è fatta», «davvero?» ecc. Questa parola ci rimane dal periodo della dominazione Veneziana: «s-ciào» significa schiavo e lo schiavo non era nessuno. Anche il comunissimo saluto "ciao" ha la stessa radice. A quel tempo si usava per dire con deferenza: «ti sono schiavo», «ti sono servo», «mi inchino a te».

I fömô a' i strus...
d'invéren

Fumano anche gli stronzi... d'inverno.
La frase si dice a chi non si è mai visto fumare: il suo atteggiamento è palesemente una forzatura. «Non darti arie da grand'uomo. Guarda che quello che stai facendo non è poi una gran cosa: anche gli stronzi fanno così!».
Da giovani, il primo "incontro" col fumo avveniva, di nascosto dai genitori, assaporando il fumo dell'improbabile sigaretta costituita da uno stecchetto di «idàshô» (vitalba).

I ga fa la fèstô
a che a Shan Süpèl

Fanno la festa anche a San Zoccolo.
Festaioli. Bigotti.

I và decórde
come du òrp
che i la fa a bastunàde

Vanno d'accordo come due ciechi che la fanno a bastonate.
Si vedono tanto volentieri... che ogni volta litigano.

La piö spèshô
l'ìô de 'mbutiglià

La più spessa era da imbottigliare.
Farsela addosso dalla paura. Diarrea.

L’è lónc come la fam

È lungo come la fame.
Si dice dei ritardatari o delle lentezze burocratiche, mentre della persona molto alta si dice: «Parét de lónc e s-ciào» (parente di lungo e basta).

L’è bas de cagadürô(*),
quater dìcc de gàmbe
e cül sübet lé

È basso di (*), quattro dita di gambe e (il) culo (è) subito lì (*cagadürô = cacatura: è un termine ad hoc che sta a significare «macchina per cacare»).
Piccolo.

L’è töt petacét(*)

È tutto lentigginoso (*«petacét» da «petéciô» = petecchia, macchia della pelle causata da piccole emorragie puntiformi. Sta anche per spilorcio, avaro).

La càren tacàdô a l’òs
l’è la piö bùnô

La carne attaccata all'osso è la più buona.
Si dice come consolazione a chi è molto magro.

L'àn del giü,
el més del mai

L'anno dell'uno, il mese del mai.
È un giro di parole per dire "Mai!"

La prümô óltö
gh'ó sheràt en öcc,
ma la shegóndô...
gh'ó piö ést!

La prima volta ho chiuso un occhio, ma la seconda... non ho più visto.
Sembrerebbe di sentir dire che la prima volta ha perdonato, ma la seconda volta... ha menato botte da orbi e invece è usato per dire che le ha prese di santa ragione: la prima volta è stato colpito ad un occhio (...ho chiuso un occhio), la seconda all'altro (...non ho più visto).

La ca dei piöcc

La casa dei pidocchi.
La testa.

L’è ac chel sicutérô(*)
piantà i pài

È ancora quel (*) piantare i pali.
(*sicutérô = "sicut era" in latino significa "come era").
È la stessa cosa. Anche se la dici in modo diverso... Gira e rigira è sempre la stessa storia.

L'è burlàt zó de 'l ciciòto
col scagnù 'n bócô

È caduto dal succhiotto col seggiolone in bocca.
Si dice di chi si crede un esperto insinuando che già da piccolo facesse le cose alla rovescia. Forse sarà una coincidenza, ma del grande esperto e del piccolo genio, anche nell'italiano corrente si dice che «ha il bernoccolo...»

L'è nat a dórmer la shérô
che 'l gh'ìô nigótô
e l'è leàt sö a la matìnô
che l'ìô zabèle mórt

è andato a dormire alla sera che non aveva niente e si è alzato alla mattina che era già morto.
Il «büfù» racconta così la morte fulminea ed imprevista.

L'è 'n barbèl

È un (*barbèl = farfallina soprattutto notturna; «barbelà» o «sbarbelà» significa tremare, come le ali del «barbèl»).
Si dice soprattutto del bambino svelto come « 'n vishinèl» (una improvvisa folata di vento), vispo, mai fermo, imprevedibile: «Un momento è di qua, un momento è di là...». Talvolta venivano chiamati «barbèi» anche i giovanotti che facevano la corte alle ragazze, ma di chi andava a morose o si faceva vedere nel ritrovo serale della stalla si diceva: «Gh'è che i lümagòcc» (ci sono qui i lumaconi) perché uscivano di sera proprio come fanno quei molluschi.

L’è parét
per part de ciàpe

È parente per parte di chiappe.
Come tutti a ‘sto mondo. Nessuna parentela. Si usa quando una certa fisionomia fa pensare che ci sia una qualche parentela col tale. Dello stesso significato è: «Shìf parécc perché shò màder e la tò g'è dò màme» (siete parenti perché sua mamma e la tua sono due mamme).

L’è pès
de 'na betònegô(*)

È peggio di una bettonica (*betònegô = erba bettonica. In questo caso sta per serva del prete, perpetua).
Dicesi di chi ha la lingua lunga, di chi conosce tutto di tutti. «Chel che 'l sa n'empàshô» (quello che si interessa inopportunamente, il ficcanaso, l'impiccione).
In questa parola si fondono i significati di «bètô», letteralmente abbreviativo di Elisabetta, ma col significato generico di persona dedita al pettegolezzo e «tònegô» (tunica, veste lunga). Molti, forse più appropriatamente e comunque con lo stesso significato, dicono «petònegô» (pettegola). La «betònegô» o «petònegô» per eccellenza è la "perpetua", l'aggiornatissima serva del prete, che con la raccolta e la redistribuzione di notizie vere o verosimili, era ritenuta "fonte certa" a cui attingere per ricavare e "ricamare" le informazioni).
È il peggior chiacchierone. Parla a sproposito.

L'importante
l'è che la ma àme

L'importante è che mi ami.
È una recente dialettizzazione per interpretare in prima persona il ruolo di qualcun altro e dire: «Non mi importa con chi va, io non sono geloso», ma il vero significato è "cornuto e contento".

Lü ‘l ma n’à dat,
ma mé ga n’ó dìt, nè?...
Mé négher de lé pète,
ma lü rós de la 'ergògnô!

Lui me ne ha date, ma io gliene ho dette, vero?... Io nero dalle botte, ma lui rosso dalla vergogna!
Il tono della voce aiuta di più a capire che si sta parlando di uno sbruffone e per giunta recidivo.

Maià pulèntô
e pìcô fò shót

Mangiare polenta e nient'altro.
Fare il gesto di intingere la polenta su niente (picchia sotto a vuoto). I poveri si accontentavano di latte, formaggi e della poca pietanza «el maià-shéc» che oggi si usa dire raramente ed in maniera scherzosa per significare "rancio" o altro modo di mangiare qualcosina, ma non un pasto. La carne in umido si dice «el frecashé» (friccassea).


'n do che gh'è i piö tancc

Andare dove ci sono i più.
Al cimitero.

‘n fin che sha pàrlô
de cül e de mèrdô,
l’ànimô la sha cunsèrvô

Finchè si parla di culo e di merda, l'anima si conserva.
Non fai del male ed il clima è di allegria.

‘n nigutì d’ór
co la cùô róshô

Un "nientino" d'oro con la coda rossa.
Detto così fa pensare a qualcosa di misterioso. È una risposta fatta per non rispondere ed impreziosire il niente che si ha.

‘ntat
mé shübie l’Aìdô

Intanto io fischio l'Aida.
Per protestare in maniera ironica contro l'impotenza dell'attesa.

Mei en gra de péer
che ‘n fìc de àzen

Meglio un grano di pepe che un fico d'asino.
Lo dice chi è basso di statura: «Meglio essere piccoli e saporiti che grossi e...». Con lo stesso significato si dice: «L'èrbô bashìnô l'è la piö fìnô» (L'erba più bassa è più fine).

O aànti co l’amùr
o ‘ndré la mé cunéciô

O avanti con l'amore o (voglio) indietro la mia coniglia.
Per ironizzare sui bisticci tra fidanzati. Si racconta che un tale, anzichè l'anello, avesse dato, come pegno d'amore alla fidanzata, la sua coniglia. Nel momento in cui il fidanzamento era minacciato di rottura, lui ha chiesto la restituzione del suo pegno d'amore con questo famoso aut-aut.

O cagà
o lashà lìber el büs

O cacare o lasciar libero il buco.
Si dice con un tono abbastanza seccato anche se confidenziale. Deciditi! Scegli: o uno o l'altro, ma spicciati!

Òrbo.. èdegô!

Orbo... apri gli occhi e cerca di vederci!
Questo detto ormai è usato in maniera banale, ma la sua origine sta nel racconto che riporto da "brixia" su «L'òrbo de Nàe».
«Fu questo il soprannome di Pietro Ronchi, nato a Caino nel 1780. Volendo dare del cieco a qualcuno, fino a non molti anni fa (ma da qualche parte si usa ancora anche se con qualche modifica), si usava aggiungere all'aggettivo orbo la specificazione "dè Nàe", ma non se ne sa il perché. Solo chi non ignora l'origine di questa espressione, l'adopera argutamente in senso metaforico, come a dire di uno che, fingendosi cieco o minchione, vede invece e comprende le cose meglio degli altri.
Il Cieco di Nave fu un uomo a cui la mancanza della vista, perduta da bambino a causa del vaiolo, non recò il minimo impaccio nello svolgimento dell'attività materiale ed intellettuale. Il Ronchi dimostrò prestissimo una mirabile vivacità e prontezza di mente ed una meravigliosa memoria e raffinatezza di tatto e di udito.
Era sua professione aiutare quei contadini che ricorrevano con memoriale all'Autorità, dettando petizioni, ricorsi e difese. Per tenersi sempre aggiornato sulle novità andava sovente nell'ufficio Comunale di Nave dove il Segretario lo teneva informato sulle leggi e sulle disposizioni Governative pubblicate e che egli riusciva a tenere nella sua prodigiosa memoria. Consultava e discorreva volentieri con gli uomini di legge. Lo si vedeva andare e venire dalla città con la sola compagnia del suo bastone, o salire ed entrare senza esitazione nei palazzi governativi, o farsi annunciare ai vari Magistrati nell'interesse dei suoi clienti.
Conosceva bene i salmi, le lezioni epistolari ed evangeliche e la Sacra Scrittura ed apertamente brontolava quando qualcuno leggeva male, fosse anche il celebrante.
Dopo le funzioni teneva crocchio sul sagrato; era facile alla critica, e sapeva talvolta con sagace disinvoltura sostenere certe massime speciose con una erudizione sua propria e citazioni improvvisate e forse del tutto false, ma che producevano effetto.
Mangiava or qua or là presso quelle famiglie alle quali prestava servigi esercitando i figli nella lettura o nella dettatura o patrocinando qualche negozio. Quelli di Caino usavano dire: "El nòst òrbo el ghè èt piö dèi àlter". Visse qualche tempo anche a Brescia dove tutti lo conoscevano, ma pochissimi conoscevano il suo nome perché per tutti era l'òrbo dè Nàe . A Nave lo chiamavano l'òrbo dè Caì ed a Caino l'òrbo.
Divenuto infermiccio visse l'ultimo anno elemosinando e morì nell'Ospedale il 21 aprile 1841.

Pèsh de prümô!

"Pesce di prima!" ma anche "Peggio di prima!".
Si dice che nel primo dopoguerra (1945-46-47) da noi passasse un clusanese a vendere il suo pesce fresco e per richiamare l'attenzione della gente verso la sua mercanzia gridasse così il suo "spot": «Pèsh de prümôôô!... Pèsh de prümôôô!». Questa sua scelta pubblicitaria che a lui appariva innocua, in realtà gli procurava discussioni e botte a causa dei malintesi che generava. Lui diceva «Pesce di prima scelta» e gli altri capivano «Peggio di prima, quando c'erano i fascisti».

Patashì patashù

Voce onomatopeica. Ognuno di noi ha qualcuno a cui dire: «Ma come parli male!...». Un altro modo onomatopeico per sottolineare il "parlar male" degli altri noi lo diciamo quando piove: «el ciösh en ciàsha de Bùren» (piove nella piazza di Borno) ...e sembra di sentirla quell'acqua!.

«Perchè ridì matù?»
"Perchè ridì a U"

«Perché ridete mattacchione?» "Perché ridete anche Voi".
Di solito è detta ironicamente quando si vuol sottolineare che si sta ridendo da matti senza motivo.

Pèstô pólce(*)

Pesta (*pólce = fanghiglia, pozzanghere).
Colui che cammina a passi corti e veloci.

Pìô mìgule

Morsica briciole.
Si dice di chi va a cercare il pelo nell'uovo. Pignolo. Anche «pìô farìnô» (morsica farina).

Paréciô la lentéciô:
ta 'n parécet en gra
e ta ‘n fét 'na shéciô

Prepara la lenticchia: ne prepari un grano e ne fai un secchio.
Il detto vale sia in riferimento alla coltivazione (il raccolto è abbondante), che all'alimentazione (l'effetto abbondanza si vede anche quando si va di corpo). La lenticchia, si dice, porta fortuna.

Quatr'öcc
e dò stanghète

Quattr'occhi e due stanghette.
La persona che porta gli occhiali, detti anche "fari", era apostrofato come «l'ücialìnô».

Sho nat a éder
el cinema Bianchini

Sono andato a vedere il cinema Bianchini.
Il cinema era una novità e sentir dire da qualcuno che era andato a vederne uno con un nome proprio, come il famoso Ridolini, invogliava a chiedere «...che cinema Bianchini?». A questo punto arrivava l'inaspettata risposta «quello che si vede sotto le coperte e sopra i cuscini». Andare a dormire. Della stessa serie sono le ferie «a Ca-stó» (a casa sto) o «a Ca-rèste» (a casa resto), improbabili località di villeggiatura.

Sho pashàt tàte ólte
de Credér,
ma töte le crède mìô

Sono passato tante volte da Credaro (BG), ma tutte non le credo.
Si gioca sulle parole «Credér» e «créder» per dire: «...ma chi credi di ingannare?».

Sta bé,
sta ‘n bàndô
e schìô le büze

Sta bene, sta in parte e schiva le buche.
È molto usato come modo allegro di augurare un "buon viaggio" agli amici. Con un altro tono di voce, invece, ha significato di «vattene e stai lontano da me». I più maliziosi aggiungono sottovoce: «...e và 'n de 'l fòs!» (...e va nel fosso!).

Sti come shi'
e shalüdìm i òs' de ca

State come siete e salutatemi i vostri di casa.
«Shi» e «òs de ca» hanno anche un altro significato e, giocando su questo, salta fuori: «State come maiali e salutatemi gli ossi di cane» che talvolta riesce a mettere in imbarazzo il destinatario del messaggio. È una frase di commiato opportunamente manipolata dal «büfù». È usata anche come allegro commiato tra amici. Un'altra frase di dubbio gusto è: «A riidìs a òbet!» (Arrivederci al funerale), ma è usata come stimolo ad incontrarsi più spesso e non attendere "il grande evento".

Schìô grónde

Schiva gronde.
È la persona alta che ha la posizione della testa evidentemente piegata verso la spalla, come se volesse schivare qualcosa. Chi cammina rasente al muro. Chi schiva il lavoro.

Sho nat en lòbia
a pishà 'n l'éra

Sono andato sulla loggia per pisciare nell'aia.
Detto che al nostro orecchio suona come un "simil bergamasco" e vuole indicare abitudini rozze di persone incivili.

Shèc come 'n becalà

Secco come un baccalà.
Durissimo. Molto magro. Sono moltissimi i paragoni usati per sottolineare i difetti fisici ed ognuno ha un proprio parametro di misura per cui si può sentire, ad esempio: «Shurt come 'na tràpô» (sordo come la pianta della vite).

Svelto...
come 'n gat de màrmo

Svelto come un gatto di marmo.
Così si dice di chi non si sbriga. Molto più pesantemente si dice: «L'è giü de ch'i svelti: en de 'n dì «màmô càcô» el l'à zabèle e fàdô 'n bràghe» (È uno di quelli svelti: nel dire «mamma cacca» l'ha già bell'e fatta in braghe) oppure il più spiccio: «Zó de 'l tram shótô 'l tram» (Giù dal tram, sotto il tram).

Ta ma shümèet
maiàt fò de le càmule(*)

Mi sembri mangiato dalle (*càmule = larve della farina).
Sei magro e con una brutta cera. Stai male? Al posto di «càmule» si possono sentire altri termini come «Tóti», «cagnù» ecc. che significano "vermi".

Ta ma shümèet
mantignìt a lüzèrte

Mi sembri mantenuto a lucertole.
Magro, cadaverico. Questo detto viene dall'osservazione del gatto, famoso cacciatori di topi (prima dell'avvento del cibo in scatola anche per loro). Nella bella stagione, infatti, il gatto era sempre molto magro perché cacciava e si cibava quasi esclusivamente di lucertole. Chi voleva ucciderlo, per mangiarlo, attendeva l'inverno perché in questa stagione diventava un po' più grasso. Lo metteva almeno tre o quattro giorni a «sfrulà al vac» (spurgare dove non batte il sole), cioè all'aria e al gelo in modo che perdesse i liquidi ed il sapore di selvatico. Il gatto veniva cucinato arrosto o usato per fare il salmì da mettere sulla pastasciutta.

Tö shö 'l trentü

Prendi su il trentuno.
L'origine di questa espressione dialettale appare evidente attraverso l'esame di una antica costumanza riportata da "brixia" del 25.10.1914).
«Il 16 marzo 1447 veniva posta la prima pietra del grande ospedale di S. Luca, nel quale Brescia aveva decretato di riunire tutti gli altri ospedali cittadini esistenti e, in tale occasione, si pensò anche ai poveri bambini abbandonati, da genitori ignoti, alla pubblica carità. Sino a quel tempo si usava deporre clandestinamente quelle innocenti creature sulla soglia o nell'interno delle chiese, donde i sacerdoti li levavano affidandoli poi a qualche nutrice. I governatori dell'Ospedale ordinarono che alla porta di questo fosse posta una culla per raccogliervi i bambini portativi da mani ignote o raccolti dalle chiese, i quali venivano poi allevati nel pio luogo.
Abusando però parecchi ricchi di tale disposizione, fu colloca ta presso la porta una lapide e una buca dove agli abbienti era fatto obbligo di coscienza di porre l'importo del mantenimento dell'esposto. Papa Giulio, più tardi, nel 1507, sancì questo obbligo comminando la scomunica a chi avesse esposto bambini in S. Luca senza risarcire l'Ospedale.
I bambini, per la maggior parte, venivano nutriti, fuori dall'Ospedale, e le balie potevano trattenerli presso di sè anche dopo l'età dell'allattamento. Quando venivano restituiti entravano a far parte del numero dei Putti o delle Putte dell'Ospedale, che li manteneva in cambio dei loro servigi. Ad una certa età, il trovatello, veniva emancipato e, in tale occasione, riceveva in
dono dall'Ospedale trentun berlingotti (circa £.18,50 dell'ottobre 1914) andando per lo più ad alloggiare presso qualcuna delle famiglie nobili della città che menavan vanto di assai numerosi domestici.
Quando qualcuno domandava conto all'Ospedale di un esposto emancipato e già uscito, si sentiva rispondere: "Non è più qui: ha preso i trentuno." Ecco dunque spiegato come "tö sö 'l trentü" (al che talora si aggiunge "e 'ndà per el trentadù") ha potuto significare tra noi sinonimo di andarsene.»

Tremàe...
trè màe,
...e tremàe amò del fret

Tremavo... tre maglie ... e tremavo ancora dal freddo.
Per dire: «Fa molto freddo». Si pronuncia velocemente per lasciare qualche dubbio di interpretazione.

Va a belàze barbér
che l'àivô la scòtô

Va adagio barbiere che l'acqua scotta.
Si dice a chi vuol far vedere di essere un po' meglio dell'altro, ma anche a chi ha fretta. Calma! Non correre! Non esagerare!

Za che ta shét mis...

Già che sei bagnato...
«Già che ci sei... fammi anche quest'altra cosa».
Lo dice anche chi fa contro voglia un favore a qualcun altro. Richiama e sottintende la storiella molto conosciuta che qui racconto brevemente.
C'era un tale di nome «Giuanì» (Giovannino) che tutti i giorni a cavallo della sua bicicletta si recava a Brescia per lavorare. Si era appena sposato e gli capitava di dover lavorare sodo per mantenere la sua famiglia. La moglie «l'érô ligòshô ashé» (era lazzarona quanto basta); si alzava tardi e passava il resto della sua giornata chiacchierando e molte volte toccava ancora al marito preparare la cena. Il pover'uomo era molto innamorato e sopportava bene la situazione, ma un giorno «...la gh'è shimàdô a' che a lü» (la rabbia ha superato il livello anche per lui). Oltre alla stanchezza, quel giorno anche la pioggia ci aveva messo lo zampino. Arrivato a casa «'ntrempàt» (bagnato fradicio), Giuanì tenta di entrare in cucina, ma la moglie gli urla che, bagnato com'era gli avrebbe sporcato tutta la casa che aveva impiegato tutto il giorno a pulire.
Con calma sistema la sua bicicletta e tenta di nuovo di entrare, ma la moglie, porgendogli il secchio, gli dice: «Zà che ta shét mis, streèrsô l'érô e và lé al pós a töm na shedèlô de àivô» (Già che sei bagnato, attraversa l'aia e va lì al pozzo a prendermi un secchio d'acqua). Zitto zitto, col suo secchio in mano, attraversa l'aia sotto la pioggia scrosciante, cala il secchio nel pozzo, lo riempie e ritorna dalla moglie che lo attende sulla porta di casa. A questo punto afferra bene il secchio e... lo rovescia addosso alla moglie dicendo: «Adès ta shét mìshô a' té, và a tötelô té l'àivô al pós» (Adesso sei bagnata anche tu, vai a prendertela tu l'acqua al pozzo). Da allora, racconta la storia, le cose cambiarono in quella casa.

Zó d'i pólec(*)

Giù dai (*pólec = cardine, ganghero che aggancia e rende girevoli gli infissi).
Giù di morale.

 

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