...à cuì cuègô? |
Ha il codino la cotica?
L'origine di questo modo di dire sta nella seguente storiella.
Una volta tutto il cibo veniva cucinato al fuoco del caminetto e, sebbene le pentole non
fossero d'acciaio e perfettamente lucide come oggi, non mancava il buon sapore nel piatto
che si portava in tavola. Per dare un buon sapore alla minestra, solitamente si aggiungeva
una pestatina di lardo, grosso modo come si usa fare oggi per la carbonara o, raramente,
una cotica. Ebbene, una sera la mamma nota che «Giuanì» (Giovannino), seduto a
tavola, continua a rimestare la minestra nel suo piatto, ma non si decide a mangiare. Ad
un certo punto Giuanì, nel suo «parlà picù(*)», chiede alla
mamma che strana cosa avesse cucinato. «La cudègô!» risponde lei, e pensa: «Giuanì
non ha fame». E lui: «à cuì cuègô?». «Sì!» risponde fermamente lei per non
aprire discussioni. «à raspì (zampette) cuègô?». «Shé, màiô e fa
shìto!» (Sì, mangia e fai silenzio!). Ma lui, incurante della crescente rabbia
della mamma continua: «à urèce cuègô?... à 'l pél cuègô?... à 'l nas cuègô?...
à bócô cuègô?...».
La mamma si avvicina per mollargli un ceffone, ma vede nel piatto del suo Giuanì qualcosa
di nero che si muove e, cambiando espressione dice: «Fam véder mò!?» (Fammi un po'
vedere!?). E trova un topolino che, probabilmente, era caduto dal camino nella pentola
con la cena del povero Giuanì.
In «...A cuì cuègô?» è riassunta tutta la storia e, pronunciata a tavola, fa nascere
qualche preoccupazione in chi si appresta a mangiare.
Una volta, paese sì, paese no, c'era un «Cudègô» o un «códegô» a cui attribuire
la paternità dell'avventura di Giuanì.
(*«parlà picù» è un modo di parlare, spesso incomprensibile dei bambini. Vedi
argomento «parlà dè Büfù»).
|
A bunùrô n
becherìô
e tàrde n pescherìô |
Di buonora in macelleria e tardi in
pescheria.
È un consiglio pratico a chi deve andare a fare la spesa: se arrivi presto in macelleria
puoi trovare ancora le parti migliori; se vai più tardi in pescheria hai qualche
probabilità in più che il pesce sia veramente fresco di giornata. |
A chi che la ga piàs
còtô,
a chi che la ga piàs crüdô |
A chi piace cotta, a chi piace cruda.
I gusti sono gusti, ed è impossibile accontentare tutti. |
A maià la galìnô d'i
óter
ta 'mpégnet la tò |
Mangiando la gallina degli altri
impegni la tua.
Quando chiedi un favore prima o poi lo devi restituire. |
A tàulô e a let
ga öl mìô rispèt |
A tavola e a letto non ci vuol
rispetto.
Se hai rispetto a tavola, cioè ti vergogni a farti avanti per cibarti di quel che c'è
sul tavolo, ti alzerai con la fame. E così anche a letto. |
Càren fa càren,
vì fa shànc
(...e làivô la fa marsì l pal) |
Carne fa carne, vino fa sangue (...e
l'acqua fa marcire il palo)
Carne e vino ti mantengono in buona salute. L'acqua, si aggiunge scherzosamente, fa
marcire (come marcisce più in fretta il palo conficcato nel terreno bagnato). |
Chi che öl maià
l pulì bu,
l la màe
gros come n capù |
Chi vuol mangiare il tacchino buono, lo
mangi grosso come un cappone.
È tenero fino intorno ai tre chili. |
Chi màiô piö
stungiù(*),
i màiô piö capù |
Chi mangia più (*), mangia più
cappone.
(*stungiù = è la parte che rimane dopo la mietitura o la potatura. In questo caso
sono quei residui di penna che rimangono sulla pelle del pollo non spennato bene).
Più pelle, più carne. |
el cafè gh'è de biìl
sedènt e bolènt |
Il caffè bisogna berlo seduti e
bollente.
A conferma del fatto che il caffè va gustato in tranquillità si ammonisce: «A béer el cafè 'n pé sha deèntô puarècc» (a bere il caffè
stando in piedi si diventa poveri). |
el cudighì bu
l va maiàt coi dìcc |
Il cotechino buono va mangiato con le
dita.
Il cotechino ben cotto, infatti, si appiccica alle dita. |
La ròbô che nàs
n de làivô
la gh'à de mörer en de l vì |
La roba che nasce nell'acqua deve
morire nel vino.
Il riso ed il pesce, a pasto, si accompagnano col vino. |
èl val de piö
l föm de la me ca
che l ròst di óter |
Vale di più il fumo della mia casa che
l'arrosto degli altri.
Mi accontento del mio poco. |
el và töt en de la
mashölô |
Va tutto nello stomaco.
È tutta roba buona da mangiare. Non fare tanto lo smorfioso e mangia! |
el vì el ta fa dì
a chel che ta öt mìô dì |
Il vino ti fa dire anche quel che non
vuoi dire.
...in vino veritas... |
el vì
lè l pishì del Signùr |
Il vino è l'urina del Signore.
È una benedizione. |
en bicér de 'ì
lè l bastunsì dei vèci |
Un bicchiere di vino è il bastoncino
dei vecchi.
Un bicchierino fa sempre bene, dà energia. I vecchi, con molta autoironia, dicono che è
il loro sostegno e la loro consolazione. «Oltre alla bontà, ...ci sono le calorie!». |
en sac vöt
el sta mìô n pé |
Un sacco vuoto non sta in piedi.
Se non mangi non hai la forza neanche per reggerti in piedi. |
Fan 'na pèl |
Farne una pelle.
Si dice del mangiare e di qualunque altra cosa gradita e abbondante. |
Galìnô èciô
la fa bu bröt |
Gallina vecchia fa buon brodo.
È molto saporito. Questo detto si usa anche per sottolineare il pregio dell'esperienza. |
Gràshô cuzìnô,
màgher testamét |
Grassa cucina, magro testamento.
«Marènde e marendù...» (Merende e merendone...). Si dice di chi organizza feste
e festine senza badare a spese. |
Guluzità de bócô,
de pentìt ta tócô |
Golosità di bocca, di pentirti ti
tocca.
Anche questo ammonisce a non eccedere in gozzoviglie. Ci puoi rimettere sia fisicamente
che economicamente. |
La bócô nó lè
stràcô
she nó la shént de àcô |
La bocca non è stanca se non sente di
mucca.
Un buon pasto si conclude con un pezzo di formaggio o di stracchino. Ai latticini
l'ultima parola! |
La càren de ócô
lè bùnô, ma lè pócô |
La carne dell'oca è buona, ma è poca.
Buona, ma molto grassa. L'oca (o l'anatra) uccisa in autunno e fatta arrostire a pezzi si
metteva poi nelle «óle» (olle = vasi di terracotta, pieni di grasso di oca o di
maiale) dove veniva conservata per l'inverno e tirata fuori all'occasione, come si fa
con il salame. |
La fam
lè la piö bùnô pietànsô |
La fame è la più buona pietanza.
Quando hai fame mangi di tutto ed è tutto buono. |
La galìnô che sta per
la ca,
she la gh'à mìô becàt
la becarà |
La gallina che sta per casa, se non ha
beccato beccherà.
Non c'è da preoccuparsi se la donna che sta in cucina è l'ultima a mangiare: come le
galline non aspetta l'ora di pranzo, ma tutto il giorno assaggia un po' di questo e un po'
di quello. |
La minèstrô
lè la biàô de lòm |
La minestra è la biada dell'uomo.
Come l'avena per il cavallo. |
La pàpô
la fa menà la làpô |
La pappa fa menar la lingua.
Si comincia mangiando la minestra. |
L'è 'na fam
lecàrdô(*) |
È una fame (*lecàrdô =
recipiente usato per raccogliere le gocce di grasso che colano dall'arrosto che cuoce
sullo spiedo).
Si dice della fame da «butép» (buontempo) di chi non sa cosa mangiare pur avendo
la possibilità di mangiare cose gustose e nutrienti. Il "mangiare ansioso", del
"ghiottone", diremmo oggi. |
La pulèntô nó
lè bùnô
she nó la shüdô la persùnô |
La polenta non è buona se non suda la
persona.
Per fare la polenta con lo «stignàt» o «ramì», cioè con quel paiolo di rame,
ricoperto all'interno da uno strato di stagno (la parola «stignàt» significa,
letteralmente, "stagnato"), bisognava per forza stare vicini alla fiamma del
camino sempre vivissima, perché si bruciava legna di vite o altra legna minuta, e
bisognava tener sempre ben mescolato. Si sentiva dire spesso: «Per fa
pulèntô ga öl lòio de gumbèt» (Per fare la polenta serve l'olio di
gomito).
La polenta si mangiava in tutti i modi, calda, fredda, arrostita... Spesso si sente
raccontare la storia di quel ragazzo che si vantava di aver mangiato una specialità:
«Polenta con due righe!», cioè polenta arrostita sulla «muètô» (molla per il
focolare).
È noto che il granoturco sia venuto in Europa a seguito della "scoperta
dell'America", ma: «Il maiz qui prese a coltivare primamente da Giampietro
Gaioncelli reduce dall'America in orto fra Lovere e Volpino nel 1638. (...) Allora
prevalevano le colture del miglio nei luoghi umidi, del frumento, della scandella, specie
di orzo, dell'antico farro, specie di frumento, della segale nei luoghi elevati e del
succedaneo saraceno (formentù negher). Praparavansi polentine con miglio e latte, pane
signorile con orzo e uova secche, e nelle carestie, cuocevansi anche pane di melica
coltivata pei polli e per sagginare i porci frequenti.» (Gabriele rosa "La
storia del bacino del Lago d'Iseo"). |
Löf crüt el val
ór,
shüdàt el val arzènt
e buìt el val niènt |
L'uovo crudo vale oro, sudato
"alla coque" vale argento e bollito non vale niente.
Ecco in sintesi le proprietà dell'uovo. |
Maià a raèl(*) |
Mangiare (*a raèl = cibo senza
altri condimenti oltre al sale).
Significa consumare un pasto essenziale, senza companatico e magari in fretta. |
n fin che ghe n'è
vìvô l rè,
quan che ghe n'è piö
sha àrdô n sö |
Finchè ce n'è viva il re, quando non
ce n'è più si guarda in su.
È un richiamo ad essere attento, a non sperperare. «L'è shübet fat a tègner a ma
quan' che ghe n'è piö» (è troppo facile risparmiare quando non ce n'è più). |
'na scüdèlô
de làt e de 'ì,
la fa n bel bambì |
Una scodella di latte e di vino fa un
bel bambino.
Latte e vino veniva dato come sostentamento alle donne incinte. |
Nóm a éder |
Andiamo a vedere.
Si dice accomiatandosi. Quasi sempre si aggiunge, con un sorriso d'intesa, «...she
l'è 'n caàl o she l'è 'n puléder» (...se è un cavallo o un puledro). Qualche
burlone però gioca sul termine «éder» fingendo di capire che si tratti di
un'improbabile richiesta di «pa éder» (dal latino "veter", è il pane
vecchio, raffermo). |
o de pàiô o de fé
el stòmec el ga öl pié |
O di paglia o di fieno lo stomaco ci
vuole pieno.
«...o bu o gram, ergót el ga öl dét» (...o buono o cattivo, qualcosa ci vuole
dentro). |
Pa e nus,
past de spus |
Pane e noci, pasto di nozze.
È buono e sostanzioso, ricco come un pasto di nozze. Subito però si aggiunge, quasi a
volerlo far diventare un botta e risposta, «nus e pa, past de ca»
(noci e pane, pasto da cane) per sottolineare che è un pasto da poveri.
Le noci sono usate come paragone anche nel detto: «Piö le us che le
nus» (Più le voci che le noci), cioè: molto baccano, ma poca sostanza.
Più parole che fatti. Pettegolezzi.
Fino a qualche decennio fa, dopo la cerimonia nuziale si usava accogliere i novelli sposi,
all'uscita della chiesa, lanciando confetti in segno di festa. Era il momento più atteso
dai bambini ed era uno spettacolo vederli mentre inseguivano i rimbalzi dei confetti per
prenderne il più possibile.
Ecco cosa dice in proposito Gabriele rosa nel suo "Dialetti, costumi e tradizioni
nelle provincie di Bergamo e Brescia":
«I villici, tornando dalla chiesa alla casa dopo gli sponsali, spargono confetti e
frutta ai fanciulli che li seguono, come praticavano i Romani: "Sparge nuces, marite
tibi jam ducitur uxor" (Virg. Egl.)».
I pasti nuziali venivano preparati dalle donne e, generalmente serviti su grandi tavolate
allestite sotto il portico della cascina o «'n de l'érô» (nell'aia). Tutti si
sposavano alla mattina e i due pasti della giornata, venivano serviti, generalmente, il
primo alla casa della sposa ed il secondo alla casa dello sposo. Tra l'uno e l'altro si
faceva il viaggio di nozze che spesso consisteva in un giro a piedi in uno dei paesi
vicini (es.: Timoline - fontane di Cremignane - Ciuchèt e ritorno). |
Pégher a maià,
pégher a laurà |
Pigro a mangiare, pigro a lavorare.
Quando uno è pigro... è pigro! |
Pès còt
e càren crüdô |
Pesce cotto e carne cruda.
Per una buona commestibilità e perché siano mantenute le proprietà nutritive dei cibi. |
Piötòst che le ròbe
le ànse,
crepé pànse! |
Piuttosto che le cose avanzino, crepate
(o) pance!
Era difficile che avanzasse qualcosa del pasto, ma piuttosto di buttarlo o darlo ai
porci... Infatti si dice: «Mei mé che 'l sì» (Meglio io
che il maiale). |
Quan che finés la
pulèntô
l Signùr el rit |
Quando finisce la polenta il Signore
ride.
Si è mangiato tutto senza sprecare. C'è salute, allegria e buona compagnia.
Ecco cosa scrive, a proposito di polenta, Gianni bosio nel suo libro "Il trattore
ad Acquanegra": «La cucina era pur essa una dimensione storica e non
un'astrazione. L'astrazione della cucina sono le ricette ed i manuali di gastronomia. La
cucina ad Acquanegra, quella vera era il mangiare, e il mangiare normale consisteva in
queste combinazioni dove la polenta faceva da spalla rituale: polenta e fichi; polenta e
melone; polenta e zucchero; polenta e formaggio; polenta e pancetta; polenta e anguria;
polenta e salame; polenta e grasso di maiale; polenta e frittata; polenta e spalla;
polenta e uova sode e insalata, soprattutto in primavera per purgare il sangue con
alimenti misti; polenta e sardelle; polenta e aringhe.
Ma la polenta a sé, la polenta "surda" (senza companatico), poteva diventare un
dolce arrostito, con strutto e zucchero, in padella; o, arrostita, sciogliere e
accompagnare cibi freddi, come il salame cotto, avanzato alla sera, il grasso di maiale.
Al mattino, prima, se cera, una bella scodella di vino, poi polenta abbrustolita con
tutto o niente, o polenta e latte, o se il latte era andato a male, si poteva fare la
"puina" (ricotta), e, con la "puina" e zucchero, preparare la cena.
Ogni cibo era una occasione per infiniti, ristretti, poveri, non costosi, gonfiati cibi.» |
Shalàt come n
bèc |
Salato come un becco.
È troppo salato, come la carne secca di montone. |
Shénô lóngô, étô
cürtô;
shénô cürtô, étô lóngô |
Cena lunga, vita corta; cena corta,
vita lunga.
Se vuoi restare a lungo in salute, mangia poco alla sera. |
Töcc i göscc...
a shaìi truà |
Tutti i gusti... (vanno bene) basta
saperli trovare.
Ognuno ha le proprie preferenze (e non solo in cucina). |
Töcc i sha chel che
bói
en de la shò pignàtô |
Tutti sanno quel che bolle nella
propria pentola.
«el bu e 'l gram el gh'è 'n töte le ca» (Il buono e il cattivo c'è in tutte le
case). Ognuno badi un po' di più a ciò che succede nella propria casa. |
Töcc i shàncc i va
n glòriô
e le fèste n paciatòriô(*) |
Tutti i santi vanno in gloria e le
feste in (*paciatòriô, da «pacià» che significa mangiare senza ritegno, si può
tradurre in «una buona mangiata». Perciò «paciàdô» è scorpacciata e «pàcio»
significa grasso, rubicondo).
Ogni situazione ha la sua logica conseguenza. |
Tùrtô, pulèntô,
pès e fretàdô:
föc a la disperàdô |
Torta, polenta, pesce e frittata: fuoco
alla disperata.
La torta di cui si parla è quella fatta col sangue di maiale. Per cucinare questi piatti
serve tanta legna «minüdô» (sottile, di ramoscello).
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