Giuseppe Zani        
Pàrlô come t’à ’nsegnàt tò màder    
Pubblicazione fuori commercio          

Prüèrbe d'i cuntadì 
(Proverbi dei contadini)

Le àche a mès le fa mai el lat.gif (41734 byte)
Disegno di Luca Ferrari

Le àche a mès le fa mai el lat

 

A daquà de nòt
sha dàquô a bòt

A (voler) adacquare di notte si irriga a caso.
Se non vedi con chiarezza ciò che stai facendo sprechi acqua e tempo. Lavorare o concludere un affare al buio: un rischio economico.

I bò ècc
g'è piö spèrcc

I buoi vecchi sono più esperti.
Tirano di più. Il riferimento è all'esperienza degli anziani.

A laàgô la cùô a l’àzen
ta ciàpet le peshàde

A lavare la coda all'asino prendi i calci.
L'esperienza dice che è inutile aiutare o fare favori a certe persone perché sarai "ricompensato" in malo modo. In italiano si direbbe "gettar le perle ai porci".

A shaìi tö shö la shò shezù(*)
pò a' i grépegn(**)
i da del bu

Sapendoli prendere sulla loro (*) anche i (**) danno del buono. (*shezù = sezione, stagione; al momento giusto)
(**grépegn = terreni aridi, magri, sassosi).
I contadini ci insegnano che, anche nelle situazioni più disperate, c'è sempre un momento favorevole e bisogna saperlo sfruttare. E ciò vale sia per la campagna che nei rapporti umani.

A ülìghen caà trop,
sha i fa nà shòp

A volerne cavare troppo, si fanno andare zoppi.
È riferito agli animali, ma soprattutto ai campi (colture intensive). Rimane anche qui il riferimento ai rapporti tra persone. Usare senza abusare.

Agn de èrbô,
agn de mèrdô

Anni di erba, anni di merda.
Quando piove tanto in primavera si fa molta erba, ma per il resto se ne cava poco.

àrô che ta àrô
che she Carlo nó ‘l càgô,
l’è 'nnütel che ‘l vàrô

Ara che ti ara (e ri-ara) che, se Carlo non caca, è inutile che ari.
Se non metti la cacca (il letame) è inutile arare.

Caài, pére e ca
i desmèntegô mìô la stràdô
e i vé a ca

Cavalli, pecore e cani non dimenticano la strada e vengono a casa.
Quando si parla del «caretér» immancabilmente saltano fuori le lunghe dormite possibili dalla certezza che il cavallo lo avrebbe portato a casa.

Chi che gh'à
gnè shì gnè órt
i và ‘n giro col có stórt

Chi non ha né maiale, né orto, va in giro con la testa storta.
L'orto ed il maiale erano la ricchezza dei contadini. Chi non ne ha, è proprio povero e deve chiedere la carità.

Chi che gh'à l’órt vizì a ca
g'è s-ciòr e nó i la sha

Coloro che hanno l'orto vicino a casa sono ricchi e non lo sanno.
Nell'orto c'è di tutto e per tutte le stagioni.

Chi gh'à tèrô,
gh'à guèrô

Chi ha terra ha guerra.
Sia nel senso che chi lavora la terra non sta mai fermo, sia nel senso che ha sempre problemi di confine. A Borgonato c'è un campo che si chiama «el ciós de la quis-ciù» (il campo della questione). Si tratta di un terreno sul quale da molto tempo è aperta una discussione: «la gh'à mìô scàric» cioè non si sa da che parte il padrone dovrebbe passare per entrare ed uscire dal suo terreno.

Chi che té a mà ‘l ledàm,
i té a mà a shò dàn

Chi risparmia il letame, risparmia a suo danno.
In inverno «sha ultàô le méde del ledàm» (si giravano i mucchi di letame) che c'erano nei campi per "aiutarlo ad essere più buono". Ecco come Gianni bosio "Il trattore ad Acquanegra" presenta alcune antichissime norme alle quali il contadino doveva attenersi:
«La concomitanza tra le opere e l'influenza degli astri rappresentava una costante della vita del contadino. Si trattava di norme ricavate dall'osservazione dei fenomeni naturali, con i quali doveva fare i conti chi lavorava all'aperto, chi esponeva il proprio lavoro al cielo e chi dal cielo attendeva un aiuto per il buon compimento delle opere. Un lavoro semplice come lo spargere il letame nei campi, doveva sottostare ad alcune regole. (...) che la luna non sia in luce al tramontar ed al spuntar del Sole che in allora quel lettame non fa alcun giovamento a quella terra; procurare in quei pochi giorni che la suddetta terra trovasi nel punto che vi ho detto, procurate di sospendervi allo spargimento di detto lettame fin tanto che avrà preso callo la medesima luna, e questo consiste nel pieno della Luna medesima; questa osservazione ve ne dovrai servire per tutto il tempo dell'anno anche nello spargere il lettame nei prati».

Co la bùnô ‘uluntà
e la shàpô
sha fa nà bé la catìô anàdô

Con la buona volontà e la zappa si fa andar bene la cattiva annata.
L'avversità della sorte si deve affrontare rimboccandosi le maniche.

Co l’àivô e ‘l sul
la crèsh en de ‘n vul

Con l'acqua ed il sole, cresce in un volo.
Sono questi i magici ingredienti per l'erba.

Còle(*) tàte e póc ledàm,
sha manté la fam

(*) tante e poco letame, si mantiene la fame.
(*)«còle». Riflettendo su questa parola qualcuno può pensare ad una derivazione del verbo latino "colere", cioè coltivare, col significato di spazio coltivato. Ma «còlô» si diceva da molto tempo prima, dal periodo dei Reti, anzi, il succitato verbo "colere" è solo una derivazione.
Ecco cosa dice a proposito Rossana prestini nel suo libro "èl dialèt bressà": «...Al primitivo periodo di caccia e pesca succede quello dell'allevamento del bestiame, e la continuazione del parto animale (nelle stabule e nei recinti) assicura la sopravvivenza delle generazioni umane. Si passa allora all'organizzazione del villaggio, si ordina la comunità che prende il nome di "orda"... Il collegamento per gli scambi tra i vari villaggi è garantito da quella rete di strade che i Reti seppero creare e che diedero origine alla civiltà che si estese poi a tutto il mondo (...) Cominciano i primi tentativi di agricoltura: il primo grano "fara" (farrum) che significa "dono di luce"; l'orzo (hor deum), dono di Dio.
A causa della rotazione agraria, gli insediamenti umani diventano stabili ed il villaggio si va sempre più organizzando: abitazioni, stalle, granai, fienili, laboratori. Questi villaggi, che per millenni fiorirono in Europa, ci hanno lasciato il loro nome: "Còlô". Difatti l'agricoltura primitiva era svolta nella comunità collettiva, in modo collettivo (colonia, coleg, colloquium, collectivum); "còlô" è dunque un centro residenziale agricolo, dove si coltiva, si coglie (còlta, collectio); si ara (culter = vomero), si bonifica e si spiana il terreno (colmata); nelle "cole" si fila (colus = rocca da filare), si cola il metallo (colata), si vaglia e si depura il grano (colum = crivello): la "còlô" è il villaggio completo con le sua attività agricole, artigianali, sociali. Molti paesi in Italia hanno conservato il nome "Còlô": Colà, Colazza, Collegno, Colico, Cologne, Cologno, Colorno, ecc.; all'estero: Colberg, Colefort, Coleraine, Coligny, Coll, Collon, Comar, Köln, ecc...».
Per noi:
nell'orto è quel fazzoletto di terra «‘nculmàdô» (rincalzata), cioè a forma di piccolo dosso, ai cui lati ci sono due solchi che permettono di avvicinarsi agevolmente alla coltivazione;
nel campo, invece, è la lingua di terreno detta anche «pianitìnô» ai cui lati venivano piantate file di «mur» (gelsi) o di «tràpe» (viti), o entrambe.
Tenuto così, il terreno rendeva meno agevole l'avvicinarsi con gli attrezzi e di conseguenza la sua coltivazione diventava un riempitivo perché l'attenzione principale era dedicata alle file di piante sistemate ai suoi lati. Il prodotto della «còlô» non avrebbe certamente ripagato la fatica di chi fosse stato avaro di letame.

Córdô e shólcc

Corda e soldi
Queste due parole sintetizzano la conclusione immediata del contratto con scambio diretto tra corda (animale) e soldi. Significa: pagamento diretto, immediato, ed integrale della merce "vista e piaciuta". Il contratto si concludeva con un accenno di sputo sulla propria mano destra prima di batterla su quella dell'altro. Teatro di gran parte di queste contrattazioni era il mercato di Rovato che aveva l'apice della sua frequentazione quindici giorni prima di Pasqua, quando si premiava il bue più bello. Per prepararsi a questo appuntamento i contadini tenevano con ogni cura la bestia che avevano deciso di portare a Rovato; oltre al cibo normale gli davano la farina di frumento, quella di granoturco, la crusca e il «panèl» (una "ruota" di semi di lino compressi).

Cültürô de óst
a le pèrgule(*)

Cultura d'agosto alle (*«pèrgule» o «filù» = filari di viti).
Consisteva nel togliere le erbacce e nello zappare e muovere la terra vicino alle radici per dare aria alla vite. Lo riafferma anche il detto: «Per vìgô ‘n bu móst, fàgô la cültürô de óst» (per avere un buon mosto fagli la cultura in agosto). «Cültürô de óst» era detta anche la semina dei «verzàcc» o «erzàc» (ravizzoni) che poi sarebbero stati in parte utilizzati per dar da mangiare alle bestie in ottobre e novembre, ma per la maggior parte arati e perciò usati come concime. Infatti il detto che segue dà voce al prato e dice: «Té làshem la mé èrbô che mé me n’incàghe de la tò mèrdô» (Il prato dice: «Tu lasciami la mia erba che io me ne frego della tua merda»).

Dam la mèrdô
che ta daró l’èrbô

Dammi la merda che ti darò l'erba.
Questo detto dà voce al campo arato che chiede di essere concimato.
Per ogni tipo di terreno c'erano delle misure standard da rispettare, ad esempio: «Concime da stalla da 8 a 12 mc. per ettaro; Perfosfato per frumento q. 6 per ettaro; fuliggine (cenere per vite) q. 30 per ettaro; calce mista a terra (per terreni argillosi) q. 9 per ettaro; deiezioni umane ettolitri 225 per ettaro... prelibato se da cavallo...»

Dèle ólte
'al piö tat la làpô(*)
che la shàpô

Certe volte vale di più la (*) che la zappa.
(*«làpô» = lingua o, più in generale, bocca). In modo dispregiativo è detta «shilàpô», dalla fusione di «shì» (maiale) e «làpô».
«Slapà fò» o «lapà shö» significa mangiare avidamente lasciando, in breve tempo, il piatto pulito. Onomatopea del modo rumoroso di usare la lingua per mangiare e bere, soprattutto dei cani. In senso figurato significa anche imparare tutto e con una certa facilità.
È la constatazione dell'efficacia del lavoro di chi sa vendere; infatti non basta saper produrre, bisogna anche essere capaci di vendere il proprio prodotto. A volte rende di più saper chiacchierare che saper lavorare. È detto che indica soprattutto il mestiere del mediatore.

el caàl piö bu
‘l gh'à cupàt el sò padrù

Il cavallo più buono ha ammazzato il suo padrone.
Ammonisce a non dare troppa confidenza e a non sottovalutare mai il cavallo perché «Gh'è mèzo de ciapà 'na quac dópe» (c'è mezzo, si rischia, di prendere qualche paio di calci).

el fé shegàt de nòt,
fal secà de 'l dé

Il fieno falciato di notte fallo seccare di giorno.
Per falciare l'erba si andava nei campi quando era ancora buio, così di giorno, mentre il sole faceva la sua parte, c'era la possibilità di fare altri lavori. Se viene tagliata alla sera, l'erba secca meno facilmente perché c'è da fare i conti con la rugiada della notte. In estate, il fieno falciato alla mattina, spesso era sul fienile la sera stessa. Lo dice il proverbio: «el fé ustà el và a ca prüm del paezà» (Il fieno di agosto va a casa prima del paesano). Erano quattro i tagli di fieno ed erano detti nell'ordine: «mazènc», «ustà», «tersaröl» e «quartaröl». Il nostro modo di dire «...De quàrtô shegàdô» (di quarta segata) che significa di poco valore, di ultima scelta, viene da qui.

el fiòcô...
el famèi el maiòcô(*)

Fiocca... il famiglio (*«Maiòcô» non è proprio "mangia", ma è un "mangiare a sbafo", mangiare per nulla).
Il famiglio, tenuto in casa per aiutare nei vari lavori domestici e di campagna, si trasferiva a vivere nella casa del padrone col «fagòt», il bagaglio delle proprie cose personali. Poteva essere assunto per una stagione o per l'intero anno. In genere si trattava di persone povere o sole, ma anche figli della miseria, soprattutto ragazzi, o adulti, vedovi, anziani...
Quando nevicava, il padrone non poteva impiegare il famiglio nei lavori di campagna pur avendolo in casa a mangiare. Il tono della voce era un «...pazienza! Se va male a noi andrà meglio a qualcun altro».
Per completare il quadro si aggiungeva il punto di vista del famiglio: «...el padrù 'l bruntùlô, el famèi el sa cunsùlô» (il padrone brontola e il famiglio si consola).

el làt el vé de la 'énô
she la bócô la ga 'l ménô

Il latte viene dalla vena se la bocca glielo mena.
Perché la mucche facciano il latte, tu devi dare loro il giusto nutrimento.

el ledàm de shì ‘l val puchì,
chel de àcô ‘l val 'na petàcô,
chel de bò amò amò,
chel de caàl
ta ‘l sét mìô quat che ‘l val

Il letame di maiale vale pochino, quello di mucca vale una patacca, quello di bue ancora ancora, quello di cavallo non sai quanto vale.
Ecco, in ordine ascendente, il pregio del letame.

el vì de la it umbreàdô
l’è bu per ‘na pishàdô


Il vino della vite ombreggiata è buono per una pisciata.
Non ha molta gradazione alcoolica.

el vì töt en de 'n vashèl(*),
e 'l salàm töt en de ‘l sò büdèl

Il vino tutto nel (*), ed il salame tutto nel suo budello.
(*«vashèl» o «vazèl» è una botte di legno)
Il vino deve stare nelle botti e non nel vetro. Per fare gli insaccati, tutte le interiora del maiale venivano accuratamente pulite e lavate con acqua calda e aceto. Si diceva che il maiale di peso e grossezza ideali, era quello che stava nelle sue budella, ma, come sempre accade, qualcuno dice che: «L’è póc pursèl chel che sta ‘n de ‘l sò büdèl» (è un piccolo maiale quello che sta nel proprio budello). Significava: «Pulisci bene, non buttare niente». In queste occasioni si raccontava anche la storiella del pesce e del maiale.
Il "rito" dell'uccisione del maiale (è descritto, nella sua essenzialità, in fondo a questo capitolo) era fatto di tanti piccoli e grandi compiti che coinvolgevano tutti. A tutti coloro che hanno partecipato almeno una volta da bambini a questa festa, sarà certamente capitato di essere stati mandati a prendere «el sgürighì per netàgô le urèce» (un inesistente strumento per pulire le orecchie del maiale) e di essere tornato trascinando una borsa o un sacco nel quale era stato messo qualcosa di pesante. La delusione era amplificata dalla derisione per esserci cascati.

en tuchèl de órt
el val piö tat de ‘n sì mórt

Un pezzo di orto vale più di un maiale morto.
Dal maiale ne puoi avere beneficio solo in una parte dell'anno, mentre dall'orto hai tanti prodotti e per tutto l'anno.
Da noi, maiale si dice soprattutto «shì» (o «sì»), «shinì» se è piccolo, «pòrcô» se è scrofa coi maialini, ma nella parte di provincia che frequento, ho sentito usare altri termini: «pòrc», «pursèl» (o «porsèl»), «ròi», «shunì», «shóna», «rugnànt».

Fa ‘l fatùr en àn:
she ta sharét puarèt, tò dàn

Fai il fattore (per) un anno: se resterai povero, (sarà) tuo danno.
Ogni fattore era capace di "fare la cresta". Il fattore galantuomo non sarebbe riuscito a diventare ricco.

Fam puarìnô
che ta faró s-ciòr

Fammi povera che ti farò ricco.
È la vite: ti chiede di essere potata.

Fic, pèrsec e melù,
töcc i fröcc a la shò stagiù

Fichi, pesche e meloni, tutti i frutti alla propria stagione.

Furmentù rar,
pulèntô spèshô

Granoturco raro, polenta spessa.
«C'era poca possibilità di dare acqua al "formentone" e, quando le piante erano troppo spesse, bruciavano in fretta vanificando il lavoro: avrebbero fatto un «canù» (pannocchia) corto, con pochi chicchi e buono solo per dar da mangiare alle bestie. La distanza tra una pianta a l'altra doveva essere di almeno 50 centimetri. Alla semina doveva essere data molta attenzione in quanto «... le sementi piccole e leggere andavano frammiste alla sabbia per evitare la dispersione, e si dovevano spargere "a manipoli e due colpi" perchè «spargerlo in uno solo ti potrà riescire molto spesso»; utile, oltre al manipolo alternante, aiutarsi con il passo.» (Gianni bosio "Il trattore ad Acquanegra").

Furmét en tèrô
padrù ‘n pé

Frumento in terra, padrone in piedi.
Quando il frumento va in terra tardi, cioè quando la spiga è carica e matura, vuol dire che il padrone starà in piedi, cioè avrà fatto un bel raccolto; quando, invece, va a terra ancora verde se ne cava poco o niente.

I bò fò de la stàlô
i turnô piö ‘n dré

I buoi fuori dalla stalla non tornano più indietro.
Come i buoi rubati, i soldi spesi, le decisioni prese, ecc. sono danni irreparabili; quindi sii previdente e pensaci prima.
Le razze bovine più diffuse qui da noi erano: la svizzera, detta anche "bruna alpina", la valtellinese, la veneta, la pugliese e la olandese. Terribili come la peste erano le malattie che li potevano colpire: la polmonea zoppina, ma soprattutto il carbonchio.
Il detto era ripetuto spesso anche a chi portava le bestie alla vasca d'acqua collocata sotto la pompa del pozzo e le faceva bere, stimolandole con una «shifulàdô» (fischio).

I bò zùegn g’è braghér(*),
i bò facc i fa i mestér

I buoi giovani sono inesperti, i buoi fatti fanno i mestieri.
Anche questo detto è una lode all'esperienza.

I shólcc de le galète(*)
del furmét e del vì,
sha 'l sà
quan' che g'è 'n de 'l scarsilì

I soldi dei bozzoli del baco da seta, del frumento e del vino, si sanno quando sono nel taschino
(*«galète», in questo caso, sono i bozzoli del baco da seta. Da questo lavoro venivano i primi soldi dei contadini: «Le prüme palànche a Shan Piéro»).
Il mestiere del contadino è pieno di incognite fino all'ultimo.

La àngô
la gh'à la póntô dórô

La vanga ha la punta d'oro.
«...Ma la ta rómp el fil de la schénô» (Ma ti rompe il filo della schiena - la spina dorsale) aggiungono subito i nostri vecchi in una sorte di botta e risposta; meglio, quando si può, usare la punta dell'aratro che è detto «gümér» o «scartàdô». La punta d'oro indica la preziosità del lavoro che si fa arando, vangando o per «dàgô cültürô» (dare coltura), ma si tratta di un lavoro la cui durezza è ben simboleggiata nel detto «Ta ga màet la pàgô ai àzegn» (mangi la paga agli asini), cioè ti metti al loro posto; anzi, è peggio, perché l'asino lavora solo andando avanti, ma quando lavori tu, vai anche indietro o, come si dice scherzandoci su, «ta ga dét el cül al mut» (dai il culo al monte).

La matìnô
la àidô ‘l dé

La mattina aiuta il giorno
Se ti alzi di buon'ora e con un po' di lena, il lavoro rende di più.

L'àrgiô a la cantìnô
gh'è de dàghelô a la matìnô

L'aria alla cantina bisogna darla alla mattina
Sfruttare il venticello fresco del mattino per una salutare ventilazione di questo luogo che aveva il compito di mantenere gli alimenti.

La ròbô d'i ciós
l’è de Dio e d'i Shàncc
(...e de töcc quàncc)

La roba dei campi è di Dio e dei Santi (...e di tutti quanti)
è il detto della spigolatura. Ci sono anche i furbi che «...i và a spigulà prümô de regòer» (vanno a spigolare prima della mietitura).

Le àche a mès
le fa mai el làt

Le mucche a metà non fanno mai il latte
Il padrone dice: «Chi le munge ne toglie dal secchio prima di darmi la mia metà». Il contadino pensa: «Mi resta solo la metà del latte munto».

Le umbrée d’istàt
le fa mal al bògio d’invéren

Le ombre d'estate fanno male alla pancia d'inverno
Le giornate d'estate erano lunghe perché, molto spesso, allo spuntar del sole si tornava già a casa dopo aver fatto pascolare le mucche. Era facile che qualcuno durante il giorno si godesse un ombreggiato sonnellino. Ed ecco che il detto lo ammonisce a non prendersela comoda: chi non lavora d'estate, avrà fame d'inverno.

Lègnô taiàdô ‘n lünô nuèlô
la fa ‘l caröl

La legna tagliata in luna nuova fa il tarlo.
La legna va tagliata in luna vecchia. Solo così, dicono gli anziani «la fa piö tàtô zuàdô» (giova di più). L'attenzione al rapporto causa-effetto tra luna e opere dell'uomo, ha portato a ricavare alcune norme che erano osservate dal contadino nelle molteplici attività: per la semina ed il taglio delle piante, per l'orto, per la potatura e la vendemmia, per il vino, per castrare porci, galli, manzi ecc.
«Castrare un maiale, ad esempio, non era cosa da poco; ma chi non li castrava in epoca buona andava incontro, al dire del Majoli, all'inconveniente «che non vengono grassi, come anco de' Galli, si dice che si devono castrare nel Scemar della Luna in tempo che non sia freddo, né Caldo, cioè in primavera nel mese di Marzo, od in Settembre cioè in Autunno». Oltre all'abilità, occorreva saggezza, cioè esperienza, cioè scienza, perchè un mestiere si poteva improvvisare, ma a rischio e pericolo, perchè un mestiere era proprio un'arte». (...) «L'ettà poi è un tuo arbitrio: ma quanto più sono picioli, le loro Carni riescono migliori, ma non crescono tanto, né sono tanto pericolosi; quelli che sono Castrati grandi crescono molto; ma la sua Carne non riescono così buona.
Ma le femmine, chi le vuol ben castrare, bisogna che sieno in età d'impregnarsi, e quando avran fatto sono meglio da Castrare; volendo il Casaro far quest'Opperazione fa che sia bel giorno, Sereno ed asciutto e che sia tempo che lussuriano perchè non sentiranno tanto dolore e sono più pericolose e fanno peggior Carne. Il castrar de Maschij è facile e fa che questi siano digiuni; Altro non vi si fa, che tagliargli la pelle dei testicoli, e Cavarglieli, ungendo con songia e Cenere sopra.»
(Gianni bosio "Il trattore ad Acquanegra").

Lóngô pulsàdô,
gran bütàdô(*)

Lungo riposo, gran (*bütàdô = buttata, da «böt», germoglio).
Dopo un lungo riposo, anche il terreno riprende vigore. Si dice che un campo riposa quando è tenuto a prato.

L’è mei spigulà
che fa capòt

È meglio spigolare che fare cappotto.
Meglio poco che niente.

L’è mei vésher
en padrù màgher
che ‘n fatùr gras

È meglio essere un padrone magro che un fattore grasso.
L'indipendenza costa sacrificio, ma è meglio così che stare, anche in modo agiato, alle dipendenze di qualcun altro.

L’è mei vìgô a che fa
con de 'n catìf padrù
che con de ‘n brào fatùr

È meglio aver a che fare con un cattivo padrone che con un bravo fattore.
Un bravo fattore è un fedelissimo esecutore di ordini, un padrone, anche se cattivo, a volte può cambiare parere.
I contratti contadini erano così distinti:
1) di masseria «i mashér» = di mezzadria, detto anche di colonìa parziaria;
2) braccianti = giornalieri fissi;
3) operai avventizi = giornalieri senza accordo;
4) di bifolcheria «i biólc» = salariati annualmente. Dovevano essere disponibili giorno e notte ad ogni ordine. Non era prevista l'assenza dal lavoro per cause estranee o di malattia: potevano assentarsi solo su licenza e dopo aver trovato un sostituto (avventizio) che avrebbero pagato a proprie spese. Il «biólc», ad una certa ora, dopo cena, doveva ritirarsi nella propria corte perché la proprietà doveva essere chiusa. In caso di dubbio sulla sua onestà, in ogni momento si poteva procedere ad una perquisizione.

L’è mei
‘na bèlô ‘ntrempàdô(*)
che ‘na bùnô bagnàdô

È meglio una bella (*) che una buona bagnata.
(*«'ntrempàdô» si dice di cosa o persona bagnata, fradicia, inzuppata all'inverosimile).
Una buona bagnata può risultare ancora insufficiente, la «'ntrempàdô» dà la certezza di avere quanto serve, anzi di più, visto che il terreno rifiuta l'acqua. Di una persona si dice che «l'è
mis trebatìt», cioè coi vestiti trapassati dall'acqua.

L’èrbô del vizì
la crès piö a la svèltô

L'erba del vicino cresce più alla svelta.
Invidia.

L’öcc del padrù
‘l engràshô ‘l caàl

L'occhio del padrone ingrassa il cavallo.
La sorveglianza del padrone fa funzionare bene ogni cosa.

L’órt el ga öl
grant come ‘n capèl,
bàstö tignìn de cönt de chel

L'orto ci vuol grande come un cappello, basta tener da conto quello.
Se si è capaci di coltivarlo, non servono grandi superfici. Generalmente si teneva, ben recintato, leggermente staccato dalla Villa (casa colonica) e a tramontana in un posto possibilmente basso ed umido, magari vicino ad un pozzone (naturale o costruito) di acqua piovana, molto utile per la sua irrigazione.

‘mprèstô mai
gnè léber gnè caài

Non prestare mai né libri né cavalli.
Sii geloso di questi beni preziosi. Anche se saranno trattati con riguardo, qualcosa perdono sempre: solo tu sai come devono essere trattati. Il cavallo, ad esempio, è abituato ad una certa voce, a certi ordini, ma quando viene prestato ne sente altri e ciò rischia di "rovinare l'ammaestramento".

'n do che gh'è i remès(*),
stàgô de près

Dove ci sono i (*) stai da presso (*remès = rimesso. È, ad esempio, piantare una vite nuova tra due vecchie. Per Gabriele rosa è «...erba spontanea che cresce in terreni pingui che per i contadini è segnale di una certa fecondità...»).
Stai vicino, abbi cura dei bambini; dedica loro la stessa attenzione che devi alle piante. Quando si otteneva il permesso di tagliare una pianta, il Conduttore era obbligato a piantare due piante della medesima specie e sostenerle «...fin quando avranno allignato, lettamarle e zapparle almeno tre volte all'anno».

’n fìnô a Nedàl fret nó ‘l fa: bràghe de télô;
dopo Nedàl el fret el và:
bràghe de télô

Fino a Natale freddo non fa: braghe di tela; dopo Natale il freddo se ne va: braghe di tela.
E con questo detto "ad hoc", è già giustificata la mancanza di calzoni di lana. «Restà 'n bràghe de télô» (restare in braghe di tela), è rimasto come modo di dire "indifesi, a disagio".

Nó gh'è Pàsquô
shènsô fràscô

Non c'è Pasqua senza frasca.
È il periodo nel quale i rami sono già frondosi.

Nó gh’è
gnè ‘na stràshô de pulàstrô
che nó la fàghe l’öf a Pàsquô

Non c'è neanche una straccia (misera) di pollastra che non faccia l'uovo a Pasqua.
La stagione delle uova è la primavera.

Nó ‘l tumpèstô mai per töcc

Non tempesta mai per tutti.
La tempesta non colpisce in maniera uniforme ed omogenea, ma "a strisce". Qui si sottintende che l'affitto è da pagare, anche se si è stati colpiti dalla tempesta.

Ògne èrbô
la gh'à la shò 'irtü

Ogni erba ha la propria virtù.
Devi saperle riconoscere per farne un uso appropriato. Ogni persona ha la propria buona qualità.

Ògne stras de 'n caàgn
el vé bu 'na óltô a l’àn

Ogni straccio di un cesto viene buono una volta all'anno.
Detto di ogni cosa che al momento non serve e si vorrebbe buttare via. È una frase ricorrente nel periodo della vendemmia quando, veramente si andava a prendere ogni cesta nella quale mettere l'uva più scarsa (acerba o mezza marcia) per fare il secondo vino. Quello migliore era da vendere per poter guadagnare qualcosa, l'altro l'avrebbero bevuto i contadini. Si sente questo detto anche quando si scopre l'utilità di una cosa che avresti pensato di non usare più. In sostanza cerca di non buttare via niente perché verrà il momento che ti capiterà di dire: «Se l'avessi avuto ancora...».
Le poche soffitte rimaste sono piene di molte cose che, magari, non ci si ricorda più neanche di avere, ma sono un concentrato di storia del nostro passato prossimo che sarebbe bello organizzare in un museo o mostra permanente ad uso scolastico e culturale.

Pàiô lóngô,
spìgô cürtô

Paglia lunga, spiga corta.
Quelli della bassa aggiungono: «Tat falfére e pa pisègn» (tanto volume e pani piccoli).

Pàsquô la ègne
quan’ che la ga n'à òiô
che ‘l sàles
el gh'à za la fòiô

Pasqua venga quando ne ha voglia che il salice ha già la foglia.
È la prima pianta a mettere le foglie. Tra le piante da frutto il primo a fiorire è il mandorlo.

Per catà shö
bizògnô sbashàs zó

Per raccattare bisogna abbassarsi.
Per avere, devi piegare la schiena, devi lavorare.

Per vìgô öf a caàgn
càmbiô galìne töcc i agn

Per avere uova a cesti cambia galline tutti gli anni.
Le galline novelle fanno più uova.

Piötòst che arà mis
l’è mei gratàs la pànsô
(o nà a dórmer)

Piuttosto che arare (quando c'è) bagnato è meglio grattarsi la pancia (o andare a dormire).
Perché, lavorandoci sopra, la terra «la sha 'mpàcô» (si comprime) e non respira, perciò oltre ad essere dura da lavorare, non renderà.

Quan’ che ‘l càntô l’uzignöl
l’è ùrô de ‘nsurnà ‘l fazöl

Quando canta l'usignolo è ora di piantare il fagiolo.
I fagioli si piantano il 10 aprile, «el dé shènto», il centesimo giorno dell'anno.

Quan’ che la spìgô
la dìs de shé
el granér sha ‘l spàshe bé

Quando la spiga dice di sì, il granaio si spazzi bene.
È il momento giusto per la mietitura. Da quel momento l'aia diventava il centro dell'attività del contadino. Sarebbero venuti i carri con «lé cöf» (i covoni) da sistemare sulla loggia; l'arrivo della «màchinô del bàter» (trebbiatrice) con la sua dose di polvere da spargere dappertutto durante la trebbiatura, tutto intorno un formicolìo di persone sudate, col cappello, il fazzoletto al collo o sul viso, camicie e pantaloni lunghi; le balle di paglia e i sacchi gonfi di grano. Nei giorni successivi il paziente lavoro di essiccatura che consisteva nel «sguarà zó» (spianare, livellare) il frumento sull'aia e "tenerlo mosso" passandoci a piedi nudi due o tre volte al giorno in modo che il sole facesse efficacemente la sua parte. La sera bisognava "ricoverarlo" sotto il portico per evitare che l'umidità della notte facesse danni.

Quan’ che le caròshe
le narà shènsô caài
el sarà 'n mónt de guài

Quando le carrozze andranno senza cavalli sarà un mondo di guai.
Profezia o pessimismo?

Quan’ che ‘l fic
el rèstô shö ‘l fighér(*)
la ga 'à mal al padrù
e pò al mashér

Quando il fico resta sul (*) va male al padrone ed anche al mezzadro (*«fighér» è la pianta di fico che qui si intende come posto dei fichi, come «finér» e «granér» sono rispettivamente il posto per il fieno e per il grano).
Si tratta di quei piccoli fichi che rimangono immaturi sulla pianta. Sono la testimonianza che il clima dell'anno non è stato equilibrato (asciutto o tempesta).

Quan’ che ‘l fiòcô
shö la spìgô
sha ‘n fa póc o mìgô

Quando nevica sulla spiga se ne fa poco o mica.
È quando nevica fuor di stagione.

Rós de matìnô,
làshô zó la rànzô
e va ‘n cuzìnô;
rós de shérô
bel tép sha spérô

Rosso di mattina, posa la falce e va in cucina; rosso di sera bel tempo si spera.
Previsioni del tempo. "Rosso di mattina, la pioggia si avvicina".

Quan’ che ‘l sul
el tùrnô ‘ndré de shérô,
tö shö la rànzô
e và, shégô!

Quando il sole torna indietro di sera, prendi la falce e va, falcia.
Si dice che il sole "torna indietro" quando, dopo un temporale serale che ha oscurato il cielo, ritorna il sole. È il segnale che il giorno dopo sarà sicuramente bello, perciò prepara i tuoi arnesi per il lavoro.

Quan’ che pìshô le galìne

Quando pisciano le galline.
È un modo per dire un categorico «mai!». Gli antichi romani avrebbero detto un più raffinato: "Ad calendas grecas".

She la vìperô
la ga shentirès
e la shibórgulô
la ga edarès,
nishü al mónt i ezisterès

Se la vipera ci sentisse e l'orbettino ci vedesse, nessuno al mondo esisterebbe.
Dice che se questi due rettili, combattuti come pericolosi, sommassero le loro cattiverie...
Tra i serpenti più ricordati ci sono anche «el bés bastunér» (il "Biacco" è detto "bastonatore" perché si difende provocando dolori come quando si è bastonati), «el bés galilì» (porta sul capo una cresta e il suo sibilo richiama il canto del gallo) «la leàndrô» (un serpente con la parte sotto di color giallo, la testa grossa, e goloso di latte), «la béshô de àivô» (biscia d'acqua che si nutre di topi e rane), «la béshô càgnô» (salamandra).

She le galìne le fa i öf,
sha ‘èt i zenöcc

Se le galline fanno le uova, si vedono le ginocchia.
Per raccogliere le uova che le galline facevano un po' dappertutto, le donne prendevano il bordo del loro grembiule o delle lunghe vesti e lo tenevano in mano in modo da usarlo come cesto, mostrando così, involontariamente, le gambe; lo stesso accadeva quando andavano a raccogliere il frumento o il granoturco dal granaio.
In primavera era abitudine dare alle galline la «paarìnô» (centocchio, budellina) perché, si diceva, facesse produrre più uova, ma una volta nel pollaio era una bella lotta con gli anatroccoli che ne sono golosi.


She ta shét mìô bu de fa,
ta shét bu gnè de cumandà

Se non sei capace di fare, non sei capace neanche di comandare
Non intrometterti e lasciami fare!

Shólcc, ledàm e fé
g'è mai ashé

Soldi, letame e fieno non sono mai abbastanza.

Stràs e òs
e pèi de cunécc...

Stracci e ossa e pelli di coniglio...
Oggi si parlerebbe di "raccolta differenziata", ma c'è un piccolo particolare che la rende decisamente diversa dal passato: la raccolta e lo smaltimento oggi sono a carico del cittadino. Una volta, invece, passavano delle persone che raccoglievano, pagandoli con qualche spicciolo, stracci, ossa, pelli di coniglio, ferro vecchio... perfino i lunghi capelli che restavano sul pettine al termine della pettinatura delle donne.

Tèrô négrô dà bu fröt,
tèrô róshô la guàstô töt

Terra nera dà buon frutto, terra rossa guasta tutto.
La terra rossa è argillosa o «castegnérô» (dove ci sono le castagne) e quindi meno fertile.

 

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