Giuseppe Zani
Pàrlô come t’à ’nsegnàt tò màder
Pubblicazione fuori commercio

 

 

L'uccisione del maiale   

La "festa" dell’uccisione del maiale era un "rito" che iniziava presto al mattino con l’accensione del fuoco all'aperto. Il «peröl» (paiolo) pieno d’acqua richiedeva un fuoco sempre vivace, quello delle fascine di legna minuta della potatura della vite. Mentre si aspettava che l’acqua «la tiràes el bói» (prendesse a bollire), giusta per "pelare" il maiale morto, il «mashadùr» (norcino) preparava tutti i suoi arnesi. C'erano tanti coltelli con lame di varie dimensioni, ma egli cercava «el stilèt» (stiletto) da avere a portata di mano. Nel frattempo, ad una «bórô» (grossa trave di legno) del portico venivano fissati i tiranti e i ganci ai quali sarebbe stato appeso a testa in giù il maiale morto e già pulito dalle setole, pronto da squartare.
A questo punto tutto era pronto: col cuore in gola ci si avvicinava cautamente al porcile e uno si incaricava di entrare per legare una cordicella «al sgarlèt» cioè alla gamba posteriore dopo di che si apriva la porta. Il maiale usciva con circospezione perché quasi mai era uscito dal porcile. Una volta sull’«érô» (aia) tutti si avvicinavano al maiale: chi tirava la corda per fermarlo ed impedirgli di stare in equilibrio, chi lo spingeva per farlo finir per terra sul lato destro. A questo punto interveniva il «mashadùr» che, mettendogli un ginocchio sul collo, gli alzava la zampa anteriore sinistra e «'l la scanàô» (lo scannava) infilandogli lo stiletto nel cuore tenendovelo fino alla morte per dissanguamento del maiale. Una scena questa alla quale si aveva cura di non far assistere i bambini, che però non potevano non sentire le strazianti «scainàde» (urla) del maiale. Alcuni vecchi dicono che da Timoline si sentivano i maiali di Cremignane.
Una volta pelato e appeso, prima di essere squartato, gli veniva infilato un coltello in gola per cavarne il sangue per fare la "torta di sangue" da cucinare col «lès» (o «brunzàl» una pentola di ghisa o di bronzo con tre appoggi e col doppio fondo, adatta per stufati e umidi). Poi gli venivano bruciate le ultime setole del muso che anche il coltello più esperto non riusciva a togliere durante la pelatura e finalmente si procedeva all’apertura del maiale per togliere le interiora. Vescica e budella venivano accuratamente pulite con acqua bollente e aceto per essere riutilizzate per insaccare; «cör e curàdô» (cuore e polmoni) costituivano il famoso «tripì» da mangiare nel giro di pochi giorni, così come il fegato.
Una volta squartato, le due metà del maiale venivano portate nella stanza dove si sarebbe svolto tutto il resto del lavoro, dalla spolpatura delle ossa alla separazione delle varie parti. Per tener sempre ben affilato il coltello doveva essere sempre a portata di mano «l'ashalì» (il fuso d'acciaio da macellaio). La carne e il grasso migliori diventavano salami, le cotiche «cudighì» (cotechino), le altre parti, escluso il lardo e il «séf» (sebo), diventavano «shalséshô» (salsiccia) se veniva aggiunta la carne di mucca, o «shalséshô stràshô» (salsiccia straccia) con la parte più scadente della spolpatura delle carni di mucca e di maiale.
Sulla quantità di lardo che si sarebbe trovata si scommetteva prima dell'uccisione del maiale e la misura di quattro dita era cosa di cui andare fieri non solo perché in cucina era molto usato, ma anche perché ciò dimostrava che non si era lesinato su cibo e cura nel suo mantenimento.
Il «cuì» (codino) e i piedi erano prelibatezze da mangiare bollite con le altre ossa. C’era chi le orecchie le faceva arrostire, chi le tritava nel cotechino o bollite con le ossa.
Del maiale si buttavano via solo le unghie. Le setole più lunghe venivano scelte dal calzolaio che le avrebbe poi usate per cucire le scarpe.
Nel giorno della macellazione sulla graticola finivano subito alcune «cudèghe» (cotiche) o addirittura «el müzèt» o «‘l sguanzù» (musetto o guancia) che venivano offerti al «mashadùr» e agli aiutanti con l’immancabile bicchiere o scodella di vino. Essendo parti particolarmente prelibate quanto difficili da cuocere a dovere, c'era sempre qualcuno incaricato di prestare la massima attenzione a quel ben di dio ed evitare che, ad esempio troppe braci sotto la graticola lo facessero «Nà vià pret» (andar via prete, diventare nero) cioè bruciare all'esterno e lasciare la parte interna non cotta.
Nel frattempo si prestava molta cura nel separare le varie parti del maiale in modo che il lavoro potesse rendere al massimo. La carne veniva sminuzzata in più passaggi in modo che al momento del condimento (lì stava il segreto e la bravura del norcino) potesse essere, quanto più possibile manipolata per far assorbire «la cónsô» (il condimento).
«Quan' che l'è menàdô la rèstô tacàdô» (quando è menata resta attaccata). Era questa l'indicazione con cui si poteva sapere se la carne di maiale, dopo essere stata macinata e «cunsàdô» (condita, speziata) era stata impastata quanto bastava a farle assimilare in modo omogeneo il condimento. La donna incinta o mestruata non poteva toccare la carne di maiale in lavorazione perché altrimenti, si diceva, il salame sarebbe andato in malora.
Il grasso del maiale veniva colato per ricavarne «le grépule» (ciccioli) e «’l deléc» (strutto) per cucinare. L’«òs del stòmec, la lènguô e la shuprèshô» (l'osso dello stomaco, la lingua e la soppressa) venivano messe in salmì è insaccati più tardi. Tra gli insaccati avrebbero rappresentato la specialità da mangiare al tempo dei bachi da seta, alla mietitura o in determinate occasioni di festa.
Il «büdèl gentìl» (la parte dell'intestino colon-retto) era da tagliare in occasione di un battesimo e tra tutti i salami appesi alle «pèrteghe» (pertiche) in cantina spiccava per la sua ben augurante lunghezza ogni volta che ci si recava a cambiare le «bràze» (braci) al tepore delle quali veniva "asciugato" nei primi giorni dopo l’insaccamento.
Un salame o un cotechino erano riservati alle persone importanti: «el prét, el dutùr, el padrù, la cumàr...» (il prete, il dottore, il padrone, la levatrice, ostetrica) eccetera.
Le costine sono una "invenzione" recente perché tutte le ossa venivano spolpate a dovere «la càren piö bùnô l’è chèlô tacàdô a l’òs» (la carne più buona è quella attaccata all'osso). Tutte le ossa poi venivano salate e dopo qualche giorno bollite per staccare e mangiare con l’immancabile polenta ciò che il coltello non era riuscito a staccare.
«La margiölô». Era chiamato così il salame tritato più grosso e insaccato nel «butàs» (stomaco) del maiale. Questa "specialità" veniva tagliata a fette grosse che venivano arrostite e mangiate insieme alla polenta da «pucià zó» (inzuppare) nell'intingolo di quest'arrosto.
In cantina si teneva il «Regiàt de prédô», recipiente tondo in pietra, tipo vaso, di dimensioni più o meno ampie (il più piccolo poteva essere "abbracciato" da un adulto e quindi con un diametro di 60-70 centimetri circa), per conservarvi i «Mezé de làrt» (quarti di lardo).

indietro home page avanti

 
indice
Simboli fonetici usati

© Edizioni Cumpustéla 1998
Il materiale qui presentato è liberamente utilizzabile a scopo personale e di studio. È vietato qualsiasi uso commerciale.