Và mìô a shercà
'l fret per el let |
Non andare a cercare il freddo per il
letto.
Si consiglia di non andare alla ricerca di cose che porteranno solo disagi. Lascia
perdere! |
A deentà ècc
càlô le bàle
e crèsh i difècc |
A diventar vecchi, calan le balle e
crescono i difetti.
Adesso che sei giovane hai tanta baldanza, ma con la vecchiaia ti passeranno certe idee. |
A deentà ècc
sha dièntô s-cècc |
A diventar vecchi si (ri) diventa
bambini.
Capricciosi, bisognosi di assistenza. |
A shèt agn sh'è
s-cècc,
a shetàntô sh'è a pès |
A sette anni si è bambini, a settanta
si è anche peggio.
Come sopra, rincarando la dose. |
A fàghelô a la fónnô
el ga rìô gnè l Diàol
(...ma l làt sé) |
A fargliela alla donna non riesce
neanche il Diavolo (...ma il latte sì).
La donna è furba e non si fa ingannare. Solo il latte che bolle, insinua qualcuno, è
l'unico che riesce a fregarla. |
Al scür
töte le fónne g'è stèshe |
Al buio tutte le donne sono uguali.
C'è chi lo usa per dire che non è proprio bella..., ma in queste occasioni c'è sempre
qualcuno più burino della media che se ne esce con un: «...basta che respiri!». |
A le gàte(*) èce
ga piàs i shurèc nuèi |
Alle gatte vecchie piacciono i topi
novelli (*«gàte», in questo caso si riferisce all'animale domestico che tutti
conosciamo, ma «gàte» sono anche i batuffoli di polvere che si scopano in casa nei
luoghi di pulizia non quotidiani. Anche i bruchi sono «gàte» e quando sono pelosi
diventano «gàte móre» come la processionaria del pino).
Alle donne mature piacciono i giovanotti. |
A Pàsquô e a Nedàl,
le spùze al sò cazàl |
A Pasqua e a Natale, le spose al loro
casale.
Era tradizione che la sposa, dopo aver vissuto tutto l'anno nella famiglia del marito, in
queste occasioni ritornasse nella sua famiglia d'origine. |
A praticà le fónne
sha pèrt el có |
A praticare le donne si perde la testa.
Occhio... |
A la ca del galantòm,
prümô la
fónnô e pò lòm |
Alla casa del galantuomo, prima la
donna e poi l'uomo.
È un cavaliere, ma i maligni dicono che in quella casa comanda la donna. Si dice
anche quando la primogenita è femmina. |
àrdel bé, àrdel töt,
lòm sènsô palànche,
come lè bröt |
Guardalo bene, guardalo tutto, l'uomo
senza soldi, com'è brutto
Il detto serve ad esprimere due concetti:
1) Per chi vuole sistemarsi, un uomo senza soldi non è mai abbastanza bello;
2) i soldi servono e l'uomo che non ne ha è sempre cattivo, brutto, intrattabile. |
Bel en fàshô
bröt en piàshô |
Bello in fascia, brutto in piazza.
Bello da piccolo, brutto da grande... e, si lascia intendere, viceversa. È usato per
consolare chi rimane deluso dal confronto del proprio piccolo con altri coetanei.
Infatti... |
De nuèi
töcc g'è bèi |
Da novelli tutti son belli.
Piccolo fa tenerezza. Si dice sempre... «A' che bel s-citì!» (Guarda che bel
bambino).
Verso i bambini piccoli venivano prestate tutte le attenzioni possibili, spesso eccessive
o comunque cariche di credulità se viste con gli occhi di oggi. Ad esempio la fasciatura
stretta a cui erano sottoposti, che li teneva costretti nei loro pannicelli dalle spalle
fino ai piedi voleva prevenire la lussazione dell'anca e mantenere ben dritta la schiena.
I bambini non si facevano specchiare perché se «i sa descagiàô» (non avrebbero
digerito il latte), né si poteva tagliar loro le unghie o i capelli perché
se no
sarebbero diventati stupidi o avrebbero perso "la parola". |
Che cùlpô ga
nàlô la gàtô
she la fónnô lè màtô |
Che colpa ne ha la gatta se la donna è
matta.
Se la gatta ha preso... è colpa della donna che l'ha lasciato incustodito. Altre volte si
dice più esplicitamente: «Fónnô a la finèstrô, gàtô a la
minèstrô» (Donna alla finestra, gatta alla minestra) ed è riferito,
pettegolmente, alla poca attenzione ed al poco tempo dedicati all'educazione dei figli. |
Chi che öl saì la
erità
i vàghe de la purità |
Chi vuol sapere la verità vada dalla
purità.
Solo il bambino dice innocentemente la verità, anche quella che gli si era raccomandato
di non dire. «Se mi cerca il tale, dì che non ci sono!» ...e il figlio, diligentemente:
«Mi ha detto il papà di dire che non c'è». |
Chi de énte nó 'l
gh'à,
de trèntô nó l fa |
Chi a venti non ha, a trenta non fa.
Senno. |
(Zét) che nàs e che
mör,
che rìt e che piàns |
(Gente) che nasce, che muore, che ride,
che piange.
Si dice quando in una comunità si vivono due situazioni opposte. |
De i zenöcc en sö
giü e pò piö |
Dalle ginocchia in su uno e poi più.
La lunghezza della gonna era fino al ginocchio e da lì in su era solo per il marito. |
De nuèl...
ta èdet töt bel |
Da novello vedi tutto bello.
Da giovani si è più allegri, giocherelloni e senza malizie. Si dice anche
dell'entusiasmo per un lavoro o per una situazione nuova. |
Dulùr de muér mórtô
l dürô nfìnô a la pórtô |
Il dolore per la moglie morta dura fino
alla porta.
Si dice maliziosamente di chi, vedovo, non si rassegna a restare solo. È come: «...chi
muore giace e chi vive si dà pace».
I matrimoni fra vedovi erano un po' più frequenti anche per una questione economica: i
ruoli di padre e di madre erano difficilmente assorbibili da uno solo dei genitori
perché le famiglie erano più numerose di quelle odierne. Succedeva che la gente disapprovasse
queste unioni, ma soprattutto quelle di un vedovo (o vedova) con un'altra persona non
maritata. Nessuno però si azzardava a manifestare alcunché quando una delle parti
era ricco o potente. |
ecièshô e puertà g'è
du mai
che i-a guarés
gnè i dutùr gnè i uspedài |
Vecchiaia e povertà sono due mali che
né i dottori, né gli ospedali riescono a guarire. |
Brötô èciô
carampànô |
Brutta vecchia carampana.
Quando diciamo «èciô carampànô» noi vogliamo indicare una
donna vecchia e piena di acciacchi, «sgiandàdô» o «en giànde».
Questa espressione viene da Venezia e, pur appartenendo al modo arcaico di esprimersi, è
restata nel nostro dialetto.
Là, infatti, c'era "il ponte delle tette" dove le prostitute esponevano la
loro... merce. Poco lontano c'era una casa fatiscente di proprietà dei Conti Rampani: la
Ca' Rampani, appunto.
Il Comune ne fece un ostello, una casa di riposo, per prostitute in... disarmo. Da allora
tutte le vecchie arrivate al capolinea della loro attività sono dette «...èce
carampàne».
Per i maschi si usano espressioni come «sgalüpét» e «sgalvignàt» col significato di
"messo male", con evedenti difetti fisici, scalcangato, acciaccato.
Nel linguaggio di tutti i giorni è colei che si dà delle arie nonostante gli
inconvenienti dell'età. |
el ga 'n sa de piö
n vècio ndurmét
che n zùen deshedàt |
Ne sa di più un vecchio addormentato
che un giovane sveglio.
L'esperienza del vecchio vale molto più della buona volontà del giovane. |
el tép, el cül e le
fónne
i fa come i n'à òiô |
Il tempo, il culo e le donne fanno come
vogliono.
Su tutte e tre le cose non si può comandare: piove quando vuole; quando scappa...
scappa; se la donna decide qualcosa, alla fine sarà proprio così nonostante la tua
volontà. |
en de 'na ca
ga sharà shèmper le piàghe
she lòm el gh'à l bigaröl(*)
e la fónnô le bràghe |
In una casa ci saranno sempre le piaghe
se l'uomo ha il (*) e la donna le braghe. (*«bigaröl», da «bìgol» (ombelico)
grembiale). Qualcuno usa chiamarlo «scushàl». Giovanni scaramella (Nuovo vocabolario
ortografico Bresciano) dice: «origine longobarda: Skauz; velo, scialle, vestito,
sottana, grembiule».
Scambio di ruoli.
Chi comanda? Nelle nostre famiglie ognuno appendeva gli abiti al proprio attaccapanni e lo
scambio di indumenti poteva far pensare che le cose non stessero andando per il verso
giusto. |
Fónne e relòi
gè töcc embròi |
Donne e orologi sono tutti imbrogli.
I maschi affermano che entrambi non sono a posto e dicono: «Quanti sono gli orologi
giusti?» facendo intendere che l'altra domanda è superflua. |
Fónne, pàshere e
óche,
le par tàte a she g'è póche |
Donne, passere e oche paiono tante
anche se son poche.
Fanno troppo chiasso. A questo segue l'ovvio e più brutale: «Fónne
e óche, tignìn póche» (Donne e oche, tenetene poche). |
Fónnô bèlô:
o màtô o vanarèlô |
Donna bella: o matta o vanitosa.
È bella, ma un difetto deve pur averlo... è una donna! |
(tö mìô) Gnè fónnô
gnè télô
a lüzùr(*) de candélô |
(non prendere) Né donna né tela al
(*) di candela
(*Lüzùr = chiarore proveniente da qualcosa che arde).
Al lume di candela non riesci a vedere i difetti. Sii sicuro e valuta bene ciò che
stai prendendo, soprattutto quando è per sempre. Sia con le donne che con la tela, devi
aver ben chiaro ciò che stai prendendo. |
I cüi de le ustére
e i santaröi de le céze
i-a tócô töcc |
I culi delle ostesse e le acquasantiere
delle chiese li toccano tutti.
«è lì che si va sempre a mettere la mano...» Sacro e profano. |
I tré dé piö bèi de
làn:
el dé che ta còpet el sì,
el dé che ta càet zó,
el dé che ta mör la fónnô |
I tre giorni più belli dell'anno: il
giorno in cui uccidi il maiale, il giorno in cui travasi il vino, il giorno in cui ti
muore la moglie.
L'ultima parte è aggiunta in osteria dopo un certo livello. |
La bès-ciô piö
catìô al mónt
lè chèlo che la gh'à
la cùô shöl có |
La bestia più cattiva al mondo è
quella che ha la coda sulla testa.
Tutte le donne avevano i capelli lunghi ed ogni acconciatura era una piccola opera d'arte
del "fai da te". Era un bel campionario quello che poteva vedere chiunque fosse
entrato in chiesa la domenica mattina dalla parte delle donne, cioè dal fondo della
chiesa. |
La ca la dürô
co la fónnô madürô |
La casa dura con la donna matura. |
La fónnô de ecunumìô
la 'à quazé mai
en becherìô |
La donna d'economia non va quasi mai in
macelleria.
Se la donna è buona amministratrice e buona cuoca sa fare in modo che non si butti via il
cibo e, se ci saranno avanzi, ne saprà trarre spunto per una nuova ricetta. |
La càren che crès
la màiô de spès
La fónnô funnìnô
la fa shô l let a la matìnô,
la fónnô isé isé
la 'l fa shö a mezdé,
la fónnô ciaculérô
la 'l fa shö a la shérô |
La carne che cresce mangia di spesso.
Il figlio in crescita ha sempre fame.
La donna donnina rifà il letto alla mattina, la donna così-così lo rifà a mezzodì,
la donna chiacchierona lo rifà alla sera.
Ecco come si potrebbe valutare il lavoro di una donna anche solo da una piccola parte
delle cose che ha da fare in casa. Oggi però, con le donne che vanno a lavorare in
fabbrica e fanno i turni più strani (ce n'è un bel campionario nel settore tessile, ad
es.: 6x6x4+2, 3x8x5+2 ecc.), credo che non sia più un metro di misura attuale. |
La fónnô pensàdô(*),
quan' che 'l piöf
la fa bügàdô |
La donna (*) quando piove fa il bucato.
(*pensàdô = che ci pensa, previdente).
È quella che non si preoccupa di chi la critica: «...Che laeràlô a fa pò... che l'è
ré che 'l piöf!» (perché laverà poi... che sta piovendo!). Appena uscirà il
sole, lei avrà già pronto il suo bucato da far asciugare.
Proverbio usato soprattutto nel periodo estivo. |
La fónnô
shènsô lòm lè n angilì,
lòm
shènsô la fónnô lè n diaulì |
La donna senza l'uomo è un angioletto,
l'uomo senza la donna è un diavoletto.
C'è anche chi la vede diversamente! |
La fónnô,
chel che la öl la uté |
La donna quel che vuole l'ottiene.
Non le serve comandare: in un modo o nell'altro l'avrà vinta. |
La gólô de la fónnô
lè malfà de cuntentà |
La gola della donna è difficile da
accontentare.
Sono troppe le cose che fanno gola ad una donna. |
La lènguô de le fónne
lè come la fùrbes del sertùr:
la tàiô de 'l fil e de la còstô |
La lingua della donna è come la
forbice del sarto: taglia sia dal filo che dalla costa.
La "costa" è il lato esterno ed opposto a quello affilato della lama. Si
dice che le forbici del sarto siano affilate, ma la lingua della donna è ancor più
tagliente perché funziona anche dalla parte dove non si incrociano le lame. |
La l dìs la
shàcrô scritürô...
de lashà laurà i vèci
che i gh'à la pèl dürô |
Lo dice la sacra scrittura... di
lasciar lavorare i vecchi che hanno la pelle dura.
Quando gli anziani vedono un giovane che non lavora dicono ironicamente: «el
gh'à 'mparàt l'artìcol de la shàcrô scritürô...» (ha imparato l'articolo
della sacra scrittura...). |
Làshel piànzer,
el riderà
quan che l sa spùzô |
Lascialo piangere, riderà quando si
sposa.
Non dargli peso, gli passerà. È un pianto da capriccioso. Oppure si sente dire: «Làshel piànzer che ga sha rinfórsô i pulmù» (Lascialo
piangere, gli si rafforzano i polmoni). Vedrai che si sfoga e gli farà bene. |
Le bùne fónne, le
ghà mai
gnè öcc gnè bócô |
Le buone donne non hanno mai né occhi
né bocca.
...su ciò che dice e fa il marito. |
Le fónne g'è come i
marù:
förô g'è bèi,
déter g'è marsù |
Le donne sono come i marroni: fuori
sono belli, ma dentro sono marci.
A guardarle sembrerebbe buone, ma vivendo insieme si scopre «el cagnù» (il verme). |
Le fónne
le fa alì la shò rezù
co la lènguô,
le önge e i lacrimù |
Le donne fanno valere la propria
ragione con la lingua, le unghie ed i lacrimoni.
Con tutti i mezzi a propria disposizione. |
Lè mei sta bé
n giü
che sta mal en du |
È meglio star bene in uno (da soli)
che star male in due.
...dice chi non si sposa. Tra gli sposati qualcuno dice... |
L'è mei sta bé 'n du
che sta mal en quàter |
È meglio star bene in due che star
male in quattro.
È la situazione di chi deve convivere coi suoceri. |
Lè ödô come
n calishù |
È vuota come un colascione.
Il colascione era uno strumento musicale a corde che ora non esiste più. Anche il detto
si è modificato in «...come 'na chitàrô» (...come una chitarra). |
Lòm che 'l gh'à
muér
lè n uzèl en gàbiô |
L'uomo che ha moglie è un uccello in
gabbia.
Da sposato è prigioniero. |
Na fónnô la
ghà fat
e lótrô la ghà desfàt |
Una donna ha fatto e l'altra ha
disfatto.
Si dice del matrimonio che va a rotoli a causa dell'altra donna. |
'Na óltô ògne tat
el la fa ac' el cüràt |
Una volta ogni tanto lo fa anche il
curato.
È un uomo anche lui... e giovane! |
O campànô a shunà
o treèrsô a dindunà |
O campana a suonare o gonna a
dondolare.
Le donne portavano vestiti lunghi e, quando la donna lavorava si muovevano qua e là
come le campane (dindonare). Perciò, finché non morrà (campana che suona),
inevitabilmente, «...fónnô a trambalà». (*«trambalà» =
essere sempre in movimento, non avere un attimo di pausa, essere indaffarati).
Le campane davano il ritmo alla giornata. Tutti riconoscevano il significato dei ritocchi:
«l'Ave Maria» del mattino; il primo suono per la messa, il secondo erano «i bòcc», il
terzo «i butì» poi il «Santus» e l'uscita alla fine della messa; a mezzogiorno c'era
«L'angelus» e alla sera nuovamente «l'Ave Maria». Si sentiva anche «L'ùrô de nòt»
che era suonata a Provaglio «a la Madónô del Córen».
Avevano anche una funzione sociale perché "segnavano" l'arrivo di un brutto
temporale con la tempesta e, in caso di incendio, la «campànô a martèl» (campana a
martello) lanciava l' S.O.S.
Ma le campane segnavano le grandi vicende della vita, dal battesimo, al matrimonio, alla
morte. Quando moriva un bambino, le campane suonavano «de ligrèshô».
Le campane di Colombaro, quando suonano a festa grande "dicono": «'n de
l'órt-del prét-gh'è déter-i póm-codóm-codóm-codóm. Chest'àn-l'è l'àn-dei pér e
dei póm-codóm-codóm-codóm» (nell'orto del prete ci son dentro le mele cotogne,
cotogne, cotogne. Quest'anno è l'anno delle pere e delle mele cotogne, cotogne, cotogne).
Quelle di Iseo: «Pì, Chèco, Martìnô, Pasquìnô, Giuànô, Mariànô, Marcantóne,
Bililóne» (Pino, Francesco, Martina, Pasquina, Giovanna, Marianna, Marcantonio,
"Bililóne"). |
Öcc négher e cheèl
biónt
lè la piö bèlô del mónt |
Occhi neri e capello biondo: è la più
bella del mondo.
Le bionde erano una rarità. |
Òm pelùs òm virtùs
(o schifùs) |
Uomo peloso, uomo virtuoso (o schifoso).
...De gustibus. Il detto varia a seconda dei gusti e delle esigenze di chi parla. |
Per aparì
bizògnô patì |
Per apparire bisogna patire.
Così dicevano le mamme quando sentivano le figlie a lamentarsi mentre stavano pettinando
i lunghi capelli. Era una frase quasi rituale anche prima di bucare il lobo per
l'orecchino. Quest'operazione si svolgeva pressappoco così: sopra una fiamma si
disinfettava un ago del tipo di quelli usati per rammendare gli indumenti di lana e,
mentre si attendeva che sparisse il rosso dell'incandescenza, si preparava dietro il lobo
dell'orecchio da bucare un tappo di sughero o un pezzo di patata che sarebbe servito da
appoggio e da riparo per il collo durante l'operazione. Una volta praticato il foro si
metteva subito l'orecchino per far vedere quanto stesse bene, dicendo alla bambina che non
era il caso di piangere «...per 'na piàdô de pülèc» (...per
una puntura come quella di una pulce).
Altro detto simile è: «Nì, nì... she ulì nì bèle gh'ìf de
patì» (Andate, andate, se volete divenire belle dovete patire). |
Pès del strubiù(*)
del sicér(**) |
Peggio dello (*) del (**)
(*)strubiù = cencio, straccio per «strubià» (sfregare con forza) per pulire
qualcosa col risultato di «strubiunà» (sgualcire, stropicciare) lo straccio che
si sta usando.
(**)Sicér = lavandino. Una volta il lavandino non aveva acqua corrente e perciò era il
posto dove c'erano sempre i secchi per l'acqua, un «secér» (secchiaio), un
acquaio.
Peggio del peggiore degli stracci. Così, spesso, si sentivano trattate le donne. |
«Piéro tóchem...
Màmô, Piero 'l ma tócô» |
«Piero toccami... Mamma, Piero mi
tocca».
Così si sintetizza il contrasto tra il desiderio ed il compromettersi nel
realizzarlo. |
Pò la bèlô rözô,
al sul,
la deèntô n brüzô-cül(*) |
Anche bella la rosa, al sole, diventa
un (*brüzô-cül = Frutto che la rosa lascia scoperto quando sono caduti i petali).
La tanto decantata gioventù un giorno diventerà solo un ricordo. Anche la più bella
donna è destinata ad avvizzire. È la vita. |
Purtàgô i öf al prét |
Portare le uova al prete.
Non si sa con precisione perché si dica così, ma certamente è un modo discreto per
dire che la bambina è diventata signorina.
Del ciclo mestruale, oggi se ne parla per televisione, si fanno pubblicità ecc., ma fino
a pochi anni fa era un segreto dell'intimità custodito «shótô shèt
ciàf» (sotto sette chiavi). |
Quan che le pöl
mìô
ciapà l tamàcol
lé sha tàcô al tabèrnàcol |
Quando non possono prendere il gonzo,
si attaccano al tabernacolo.
Si dice delle «Pöte» (zitelle) o, meglio, delle «Chitìne» (così venivano
chiamate le zitelle più vicine al prete). In italiano l'ho sentito tradotto così:
«Quando il mondo non mi vuole più, mi rivolgo al buon Gesù». |
Quan che sha
deèntô ècc,
o nà fò co le àche,
o tènder i s-cècc |
Quando si diventa vecchi, o uscire con
le mucche, o sorvegliare i bambini.
Questi erano i compiti degli anziani. È usato come battuta ironica quando si vede un
padre che accudisce i propri bambini.
Era frequente vedere i piccoli seguire incuriositi gli anziani intenti a fare i loro
«bizighì» (lavori di poca importanza). Erano attirati sia dalle tante cose che
sapevano fare, sia dalle storie che sapevano raccontare nel frattempo. Ciò rafforzava
l'intesa tra vecchi e bambini e permetteva il perpetuarsi di quel che la tradizione orale
è riuscita a far arrivare fino alla nostra generazione. Chi si ricorda, ad esempio, che
per "sollecitare" le mucche a bere si usava fischiettare? Era un
"fìo-fìo" con la stessa sonorità del "pìo-pìo" col quale si
chiamano i pulcini. Atri richiami erano: «póle-póle» per i tacchini; «àne-àne» e
«anì-anì» per anatre e anatroccoli; «lìlo-lìlo» per le oche; «cùre-cùre» e
«carì-carì» per galline e pulcini; «tö-tö» nel dar da mangiare a tutte le bestie
della stalla, ma soprattutto al il maiale; «üe!» e «üo!» per far partire il cavallo
e «lö!» per fermarlo.
Altra cosa che non troverete scritta da nessuna parte, ma che chi è stato ancora a far
pascolare le mucche sicuramante ricorderà è che per indurre a mangiare l'erba fino alle
radici bastava urinare e in quel punto la mucca avrebbe fatto "piazza pulita".
Era sicuramente un altro ritmo di vita nel quale il "tempo" era scandito dalle
stagioni e non era ancora considerato "orario". |
Trè fónne e tré
pulzì
shöl mercàt
i fa piö tat de n aucàt |
Tre donne e tre pulcini sul mercato
fanno più di un avvocato.
Le parole che usa un avvocato sono molte e quando parla sembra che non finiscano più, ma
quelle delle donne al mercato sono di gran lunga molto più numerose e chiassose.
Nel resto del bresciano è più famoso il detto: «trè fónne e tré
pulzì i fa 'l mercàt de Pralbuì». Da noi il mercato è quello di Iseo e perciò
si dice... |
Quàter fónne
le fa l mercàt de Izé |
Quattro donne fanno il mercato di Iseo.
Tutti i detti rendono molto bene l'idea della confusione e delle voci tipiche del
mercato che si mischiano ai "pìo-pìo" dei pulcini «...le pashàô 'n sö coi
pulzì apénô nashìcc déter en de n caagnì» (...passavano in su - a Iseo -
con i pulcini appena nati, dentro un cestino).
Nell'attuale piazza Statuto si trattava il pollame, gli animali da cortile. Vicino alla
chiesetta verso Via Mirolte, invece, si potevano trovare pecore, agnelli, capre e capretti
per la Pasqua. Tutti i Martedì e Venerdì intorno a Garibaldi c'erano le bancarelle dove
si potevano trovare frutta e verdura, pesci, formaggi, «i shüpèi» (gli zoccoli)
per tutti i giorni e «le shöbre» (le pianelle) di cuoio da mettere nei giorni di
festa, la biancheria, ma soprattutto i «bìgoi» (fili) di lana o di cotone
scartati dalle fabbriche di calze e maglieria che sarebbero poi serviti per fare la calza
e la «scarpètô» (parte sotto della calza che si consuma più facilmente).
Ovviamente anche gli uomini si recavano al mercato. Se dovevano vendere o acquistare
bestiame andavano il lunedì a Rovato e questa era l'occasione per far tappa alle varie
"santelle" (osterie) o «licinsì». Questi ultimi erano osterie di
campagna con licenza provvisoria di vendita del vino di produzione propria la cui insegna
era «la sghirlàndô de lìgô-bósc» (ghirlanda di edera) con al centro un
bicchiere o un fiasco.
Il Venerdì Santo, invece, era "obbligatorio" andare al mercato di Iseo per bere
«la gràs-ciô de Shan Pàol» (grazia di San Paolo) che altro non era se non del
vino bianco.
A questo proposito Gabriele rosa (Dialetti, costumi e tradizioni nelle provincie di
Bergamo e Brescia) scrive: «...che è una polvere recata dall'isola di Malta, ove
S. Paolo operò il miracolo della guarigione d'una morsicatura di vipera. A quella polvere
infusa nell'acquavite, si attribuisce la virtù di preservare dai morsi di rettili, cui
soggiaciono pecore e pastori». |
S-cècc e s-cète(*)
Diàol en mès |
(*) Diavolo in mezzo (*S-cècc e
s-cète = Ragazzi e ragazze anche se letteralmente è "schietti e schiette".
Schietto è il bambino o la persona senza malizia).
Anche con questo detto si contribuiva alla rigida distinzione e divisione tra maschi a
femmine. |
She de zùen
el ciàpô i véshe
a' de ècc lè l stès uféshe |
Se da giovane prende i vizi, da vecchio
è lo stesso ufficio.
Non li perde più. Sarà la stessa cosa per tutta la vita. |
She l zùen el
siarès...
she l vècc èl pudarès...
quàte ròbe che sha farès |
Se il giovane sapesse... se il vecchio
potesse... quante cose si farebbero.
Raramente la forza e la saggezza coabitano in un'unica persona. |
She ta gh'ét mìô 'l
murùs
al dé de l'Ashènsô
per töt l'àn
ta shét sènsô |
Se non hai il moroso per il giorno
dell'Ascensione, per tutto l'anno rimani senza.
Era detto alle signorine come "spintarella" a sfruttare l'occasione offerta
dalla bella stagione per trovarsi il moroso tra i tanti giovanotti che si vedono in giro.
|
Ta shét
come la shèrvô del prét |
Sei come la serva del prete.
Lingua lunga. Chi vuole avere l'ultima parola. «Èl prét èl ga dizìô: làshelô lé
de dì "Amen" de she no 'n finés piö de dì mèshô» (Il prete le diceva:
smettila di dire "Amen" se no non finiamo più di dire messa). |
Ta sha pèrdet piö gnè
té |
Non ti perdi più neanche tu.
Si dice affettuosamente ai bambini che si dimostrano svegli e capaci di farsi intendere
nonostante la tenerissima età, ...ma è fatto per compiacere i genitori. |
Tìrô de piö
n cheèl de 'na fónnô
che shènto bò |
Tira di più il capello di una donna
che cento buoi.
Cento buoi tirano dove vuoi tu, ma la donna ti tira dove vuole lei.
Solo qualche anziano per dire "donna" usa ancora dire «fómenô»,
i più dicono «fómnô».
Il termine latino «foemena», prima diventa «fómenô», poi «fómnô», quindi «fónnô» come lo diciamo oggi.
Se noi abbiamo tagliato una gamba alla "m" di «fómnô», quasi per legge di
compensazione, a Clusane, paese che confina con Colombaro, si dice ancora abbastanza
diffusamente «fómmô».
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