Ai macc
bizògnô lashàgô fa
i sò acc |
Ai matti bisogna lasciar fare i loro
atti.
Non insistere, tanto è inutile. |
A le spùze e ai
fünerài
sha conós la parentélô |
Alle nozze e ai funerali si conosce la
parentela.
E a questo si aggiunge... |
Nó gh'è
gnè spùzô gnè füneràl
che la zét nó la murmùre
o la pàrle mal |
Non c'è né sposalizio né funerale
dove la gente non mormori o parli male.
Sono le due grandi occasioni nelle quali si ritrovano tutti i parenti e ci sono sempre le
novità o le "pecche" da raccontare. |
Amicìsiô
ricunciliàdô,
minèstrô riscaldàdô |
Amicizia riconciliata, minestra
riscaldata.
In alcuni casi significa che è buona ancora, anzi, certe volte ci guadagna; in altri
significa che ha perso buona parte del sapore, ha perso genuinità. |
A taiàs el nas
sha nsànguenô la bócô |
A tagliarsi il naso si insanguina la
bocca.
Attenzione! Parli male del vicino, ma anche per te potrebbe essere pronta una bella
sorpresa. Non esporti troppo, certi giudizi possono ritorcersi contro di te. |
àule(*) de Predùr
nó sté a fidéshen |
(*) di Predore (BG) non stare a
fidarsene.
(*àule = Alborelle, pesci del lago d'Iseo detti anche «óe»).
In questo caso «l'àulô» è la fidanzata. Quel giorno a Predore il pescatore ha trovato
qualcosa che, dice, avrebbe fatto meglio non portare a casa. |
Chei de Faét
i fa shö l let
n de n saltà dét,
chei de Shant'ànô
i la fa shö
quan' ch'i và a nànô |
Quelli di Favento rifanno il letto nel
saltar dentro, quelli di Sant'Anna lo rifanno quando vanno a nanna.
«Faét» e «Shant'ànô» sono due vecchi borghi di Adro. Sul significato del
toponimo «Faét» l'ipotesi più accreditata dagli studiosi e dai residenti è
"fa-vento" (posto ventilato), ma ce ne sono altre due: una lo traduce in
"faveto" (il posto dove si possono trovare le fave) e l'altra in
"faggeto". Dicendo a qualcuno che era come quelli di «Faét» o di
«Sant'ànô» significava quanto meno dargli del disordinato o scansafatiche.
Fino agli anni quaranta erano ancora abbastanza usati i «paiù» di «scarfòi» (giacigli
di tela riempiti di brattee, i cartocci delle pannocchie di granoturco) o di piume.
Avevano un buco centrale o due per ogni lato del "materasso" per poter «rügà
shö» (mescolare) il contenuto quando si rifaceva il letto. I «scarfòi», di
norma, venivano cambiati una volta all'anno.
Sono interessanti le spiegazioni del termine «stremàs» o «stramàs» che noi usiamo
per dire materasso. Una dice che indica il posto dove si va a riposare
"stremati"; un'altra fa derivare il vocabolo da "strame" usato come
giaciglio degli animali; un'altra ancora fa l'ipotesi derivi dal latino "extrema
dies", cioè l'ultima parte della giornata, ipotesi rafforzata da ciò che scrive
Oberto ameraldi (Modi di dire che scompaiono): «...in alta Valcamonica i
vecchi, quando vanno a passare la serata in istalla o in casa altrui, dicono: «An va a
stremadis», cioè a passare l'ultima parte del giorno...» |
Chei de Palashöl
i cöntô shö chel ch'ì öl |
Quelli di Palazzolo raccontano quello
che vogliono.
È un detto riferito originariamente al mercato di Palazzolo dove, come in tutti i
mercati, si doveva trattare per spuntare un prezzo più conveniente. |
Chei de Palósc
i sta al fósc |
Quelli di Palosco (BG) stanno al fosco.
Perché l'abitato è in una conca. |
Chei de Shalò
i spàshô de dét
è i sbròfô de fò |
Quelli di Salò spazzano dentro e
spruzzano di fuori.
Fare come quelli è fare in modo sbagliato.
La rivalità tra paesi o frazioni era molto alta e si identificava anche nei modi di dire
che spesso venivano usati come pretesto per offendere da chi voleva attaccar briga. Eccone
alcuni... |
Chei de Cremignàne
i màiô le ràne
(e le légor de tet) |
Quelli di Cremignane
mangiano le rane e i gatti.
Erano famosi per essere capaci di cacciare, cucinare e mangiare rane e gatti. |
Chei de Crüzàne
i màiô pèsh a shpeshegòcc |
Quelli di Clusane mangiano il pesce a
pizzicotti.
I Clusanesi sono famosi come pescatori, ma il detto li vuole dipingere come
zoticoni e maleducati che mangiano il pesce con le mani, a pizzicotti, e parlano ancora
con le "s" aspirate, esattamente al contrario de «I sé-sé
de Izé» che non ne aspirano neanche una e si considerano di rango più elevato;
«I runcaì de Pruài», si dice, fossero degli attaccabrighe; in
tasca avevano sempre una piccola roncola e, si dice, quella "della domenica",
avesse il manico rosso. Ho provato una volta a chiedere perché venissero chiamati «i
runcaì»; chi mi ha risposto mi ha detto, molto offeso, che «i runcaì» sono quelli di
Provezze, ma dando la stessa spiegazione sull'uso di questo strumento agricolo come arma e
attribuendo la storia ai Provezzesi;
«Le ulòshe de Pruài» le donne di Provaglio erano considerate
"furbe", «piasharöle» (piazzaiole);
«I shüpelù de Timulìne» perché erano poveri e avevano solo
gli zoccoli;
«I cuntrabandér de Traaiàt»;
«I vulpér de Culumbér» perché erano sempre sul monte;
«I bò de Burgunàt».
Si racconta che alcuni decenni fa, in occasione dell'avvicinarsi della festa del loro
patrono S. Vitale (28-4), notarono che sopra il campanile era cresciuta dell'erba che
stava proprio male. Dopo aver pensato al modo meno pericoloso per risolvere il problema
decisero di prendere un bue dei «Cìne» (Colosio) e di tirarlo su direttamente sulla
cima a mangiare l'erba. Gli misero una corda al collo e cominciarono a tirare. E più
tiravano, più notavano che anche il bue non vedeva l'ora di arrivare in cima e
manifestava la sua impazienza scalciando e cacciando fuori la lingua alla vista di quel
ben di dio;
«I tòr de Palashöl» hanno preso questo titolo dal mercato che
vi si svolgeva;
«I bò de Ruàt» anche per loro la motivazione è il mercato
del lunedì, ma, si voleva far capire, "il bue è cornuto e castrato";
«I làder de àder» erano associati a Capriolo dal detto: «àder l'è 'l pàder, Cavriöl l'è 'l fiöl».
Quelli di Capriolo erano presi in giro per il loro particolare modo di parlare che non
disgiunge la "s-c". Di loro si diceva «scècc e scète,
sciòp e sciào» (ragazzi e ragazze, fucili e basta). Interessante e
davvero singolare questa parlata che non ha riscontro nei comuni confinanti. |
I strigòs(*) de ìgol |
Gli (*) di Vigolo (BG) (*strigòs =
stracci, cenci a lembi. In questo caso sta per "straccioni",
"pezzenti". Con lo stesso significato è più usato «sbindù»).
Per prendere in giro i Vigolesi da noi si usava questa filastrocca:
«ìgol o nó ìgol - l'è cumpàgn gnè de dìgol; palpàgol e nó
shintìgol l'è cumpàgn de nó ìgol». «ìgol» è
Vigolo (BG), ma per i Vigolesi «ìgol» significa anche "averlo". La traduzione
letterale farebbe perdere molta carica a questo detto che si era soliti ripetere, a mo' di
battuta, alle donne di Vigolo che, oltre a fare la stagione nel periodo dei bachi da seta,
da noi venivano per vendere o scambiare con del granoturco i loro «pumilì e castègne» (mele
e castagne) in concorrenza di quelle con Paspardo (BS).
«Parzanègô» (Parzanica - BG) è una località vicina a «ìgol»,
ed è con questa storiella che si era soliti "esaltare" l'ingegno e la forza dei
suoi abitanti. Si narrava infatti che il prete, predica dopo predica, sollecitasse
l'allargamento della chiesa, ormai troppo piccola per le esigenze domenicali della
comunità, dicendo che bisognava mettersi di buona volontà e tirar fuori un po' di
«palànche» (soldi) per sistemare la cosa.
I fedeli, stanchi delle continue lagnanze, una domenica mattina si riunirono sul sagrato
per pensare al da farsi e dopo una breve consultazione decisero di accettare la proposta
del più saggio dei presenti. Come d'accordo, entrarono tutti in chiesa e, per evitare di
scivolare con le scarpe «co le bruchète» (chiodate), misero i mantelli sotto i
piedi: appoggiate le spalle al muro, si misero a spingere verso l'esterno le due pareti
laterali dell'edificio.
Ad ogni "ooh-issa!" sentivano che la loro forza era veramente grande dato che,
effettivamente, di tanto in tanto dovevano riavvicinare il mantello sotto i piedi vicino
alla parete che si era allontanata.
Quando, dopo tanto sforzo, valutarono sufficientemente ampliata la loro chiesa, andarono a
casa per il pranzo soddisfatti del loro lavoro e lamentandosi del fatto che il prete, che
pure aveva studiato, non ci avesse pensato prima. |
Che pél! |
Che pelo!
Che coraggio. Che faccia tosta. Si dice, sia in positivo che in negativo, di chi non ha
paura ad esporsi. |
Chi che fa del bé
i la tróô fat |
Chi fa del bene lo trova fatto.
Prima o poi il bene fatto te lo ritrovi, se non sulla terra certamente nell'aldilà. |
Chi che pìshô mìô
n cumpagnìô,
o lè n làder o l'è 'na spìô |
Chi non piscia in compagnia, o è un
ladro o è una spia.
È l'innocente sfida che si lancia tra amici per verificare la complicità e la
compattezza del gruppo nel momento della trasgressione. |
Chi nó öl sbaglià,
el mizüré l sò parlà |
Chi non vuol sbagliare, misuri il suo
parlare.
La quantità delle parole, spesso, è inversamente proporzionale ai contenuti. |
Ciamà cézô |
Chiamar chiesa.
Arrendersi, cedere riconoscendo di non potercela fare. L'origine di questo detto,
probabilmente è da far risalire al "diritto d'asilo" che in altri tempi veniva
concesso a chi riusciva a rifugiarsi in chiesa o in convento. Questo diritto,
generalmente, veniva rispettato dall'autorità costituita perché questi luoghi
beneficiavano di particolari franchigie.
L'espressione è molto usata nel gergo dei giochi dei bambini insieme ad altre come
«pàto», «àrimus» o «ànimus», ecc. esercitando il diritto di chiedere una
sospensione del gioco.
Per non usare di questo diritto bisognava dichiarare, allinizio del gioco: «Mìô bu Pàto» (Non è valido invocare il patto). |
Co la lènguô n
bócô
sha 'à n có al mónt |
Con la lingua in bocca si va in capo al
mondo.
Se chiedi informazioni puoi arrivare dappertutto. |
Coi vizì
o sha brüzô
o sha shént de stri |
Coi vicini o si brucia o si sente odor
di bruciato.
Se non sono litigi sono tensioni e quindi grande rispetto, ma poca confidenza. |
Dopo la nòt el vé 'l
dé
e dopo 'l nìgol
el vé tùrnô 'l seré |
Dopo la notte viene il giorno e dopo le
nuvole ritorna il sereno.
Si dice per consolare chi sta passando un periodo non troppo felice, incoraggiandolo
ad avere pazienza. «Ora va male, ma...»
In questa occasione si raccontava come Bertoldo (o Gioppino) fosse, incomprensibilmente,
contento quando pioveva e triste quando c'era il sole e a chi gli chiedeva il
perché rispondeva, a seconda dei casi, "perché dopo la pioggia viene il sole" o
"perché dopo il sole viene la pioggia". |
el bel tép e la bràô
zét
i stöfô mai |
Il bel tempo e la brava gente non
stufano mai.
Si dice quando ci si trova bene in compagnia. Altro detto è... |
el föc el fa alegrìô
e bùnô cumpagnìô |
Il fuoco fa allegria e buona compagnia.
Era al centro dell'attenzione nelle serate in casa, come oggi succede con la televisione,
ma senza atteggiamento passivo. |
el ca scutàt de
làivô càldô
el gh'à pórô a' de chèlô frèdô |
Il cane scottato dall'acqua calda ha
paura anche di quella fredda.
L'esperienza di una fregatura induce a stare sempre sul chi va là. |
el gh'à fat en
cin-cèn(*) |
Ha fatto un (*cin-cèn = Suono
onomatopeico del rumore).
Di solito si dice lamentandosi del vicino di casa del quale si ha più occasione di
sentire i rumori e col quale lamentarsi.
Si dice anche di ogni discussione animata e di ogni reazione esagerata, ma più
appropriato è: «el gh'à mitìt en pé 'n scuì(*)...» (ha
messo in piedi uno (*)scuì = letteralmente è "scopino", ma significa sollevare
un polverone come quando si usa lo scopino).
Oppure il più antico «...el gh'à fat en cazì de mìlô lìre»
(ha fatto un casino da mille lire), cioè una cosa esagerata come le mille lire che
nessuno aveva mai visto. |
el gh'à pórô
a' del föm d'i gnòc |
Ha paura anche del fumo degli gnocchi.
Si dice della persona paurosa che vede pericoli dovunque, che ha una visione esagerata
e negativa della realtà. |
el ga pórtô
làivô
co le urèce |
Gli porta l'acqua con le orecchie.
Immagine che rende bene l'atteggiamento di profonda deferenza. Si dice anche di chi è
eccessivamente servizievole. Un leccapiedi. |
el tö e l dà
l manté l frà |
Il prendere ed il dare mantengono il
frate.
L'amicizia si mantiene quando, ad esempio, colui che è un vero amico è capace di
scegliere di volta in volta l'atteggiamento giusto per il tuo bene. Più in generale
significa mantenere buoni rapporti, scambiarsi favori, cioè saper convivere. |
el pès gròs
el màiô chel pishèn |
Il pesce grosso mangia quello piccolo.
Il più debole è destinato a sottomettersi o a soccombere. |
el sta shöi
desmentegàcc |
Stare sui dimenticati.
Si dice di chi dimentica volutamente le promesse o gli impegni solennemente assunti. |
el val piö tant
en piàt de bùnô cèrô
che n bu diznà |
Vale di più un piatto di "buona
cera" che un buon desinare.
Il concetto di accoglienza non sta solo nell'avere la casa in ordine e una tavola con ogni
ben di dio. |
el zöc lè bel
quan che lè cürt |
Il gioco è bello quando che è corto.
Non esagerare. Non approfittare. Non tirare troppo la corda. |
Fét el siòr? |
Fai il signore?
In un gioco (es. carte, bocce), «el siòr» (letteralmente "il signore")
è l'arbitro. Più generalmente è colui che sta a guardare e non vuol sporcarsi le mani. |
el ga l'à fat dì
a l'aucàt bócô |
L'ha fatto dire dall'avvocato bocca.
Ecco com'era spiegata l'origine del detto su "brixia" del 10-11-'14.
«Il nostro popolino, chè, per chi ben lo conosce, dei più arguti e satirici,
conserva certe espressioni umoristiche di cui spesso non conosce lorigine, ma del
cui valore esso sa opportunamente servirsi nel suo discorso sempre figurato.
"El ghè lha fat dì da l-aocàt Bóca", per esempio, è una
metafora per significare che uno ha detto ad un altro il parer suo senza reticenze e senza
intermediari, cioè col mezzo direttissimo della propria bocca.
"L'aocat Ganassa", "l'aocat Ganassù", "Buna Boca e
Ganassù" sono espressioni di uguale provenienza, con cui il popolino giocondamente
bolla lingordigia di certi avvocati o daltri professionisti non meno voraci,
nel quale ultimo caso modifica, per precisione, la frase così: "L' ha desser
parènt del aocat Ganassa", sostituendo talora (metafora nella metafora) al semplice
vocabolo "parènt" , lequivalente "pèl e braga" che ha il suo
significato nellaffinità o contiguità tra la pelle delle gambe e la stoffa dei
calzoni.
Lorigine delle suaccennate espressioni dialettali si può trovare in un tradizionale
racconto che è ricordato dal Fè.
"Nel 1799 - egli scrive - il nostro Consiglio Municipale, dovendo spedire a
Venezia, secondo lusato, una ambasceria per fare omaggio al nuovo doge Paolo Reiner,
scelse a comporla, tre nobili cittadini, che furono Carlo Bocca, Girolamo Bona ed Ettore
Ganassoni, avo del sopradetto, le discendenze maschili dei quali ora sono tutte estinte.
Presentaronsi dunque ai nostri patrizî nellanticamera della gran sala ove il Doge
doveva riceverli, ed il fante li annunciò dicendo: "I signori Bona Bocca e
Ganassoni." Il doge Renier, che dicesi non mancasse di quello spirito gioviale che
si ammira nei Veneziani, rispose allannunciatore: "Féli vegnìr e
subito"; indi rivoltosi ad alcuni del consiglio dei X che lo attorniavano: "Go
dìto subito, altrimenti ghe xè pericolo che i ne magna tuti" alludendo ai
cognomi dei tre ambasciatori Bona Bocca e Ganassoni."
La famiglia Ganassoni abitava in Via Cittadella Vecchia al n°230 ora Via Veronica
Gambara, n° 4». |
Gh'ét maiàt pulèntô? |
Hai mangiato polenta?
È così che, molto frequentemente, ci si salutava dopo pranzo! |
Gnè i prüèrbe
i và mìô decórde |
Neanche i proverbi vanno d'accordo.
Ognuno interpreta gli avvenimenti alla propria maniera, spesso contrapposta. |
Gnè i vilànc gnè i ca
i shérô i ös de ca |
Né i villani né i cani chiudono gli
usci di casa.
Maleducati. A loro si dice anche : «Gh'ét la cùô?» (Hai la coda?) |
I gh'à tacàt ensèmô
'l bìgol |
Hanno (ri) attaccato l'ombelico
Il loro legame è forte e intenso come quello della madre con il figlio che porta in
grembo. Un'amicizia inseparabile. |
I shòci sha a conós
en de l bizògn |
Gli amici si riconoscono nel momento
del bisogno.
I veri amici sono pochi, infatti si dice: «Shólcc e amìs gè
demànc de chel chi dis» (Soldi e amici sono di meno di quelli che si
dicono). |
I pöl mìô usmàs |
Non possono annusarsi.
Sono due persone assolutamente incompatibili. Dell'altro, non vogliono sentire neanche
l'odore. |
I sha fa le fìche(*) |
Si fanno le (*fìche = corna,
scongiuri, maledizioni).
Si dice quando si sa che due persone, reciprocamente, si fanno i dispetti o parlano
male una dell'altra. Si dice anche che «i sha a càshô» (se le cacciano). |
Istìt come 'n
sénguen(*)
(o sénghen) |
Vestito come uno zingaro.
(*«shénguen» o "shénghen" = parola di origine greca che vale
"athinganos", da cui Zigano, cioè zingaro, nomade. Noi li chiamiamo
genericamente «stròlec» dimenticando che questa parola viene da "astrologo"
ossia colui che riesce a leggere gli astri e, per estensione, i "segni" come
quelli della mano).
Vestito male, in modo strano, scombinato. Pezzente. |
I parécc piö strècc
gè i vizì de ca |
I parenti più stretti sono i vicini di
casa.
Sono i primi a cui ci si rivolge in caso di bisogno. È sicuramente appartenente al
periodo di convivenza pre-condominiale. A proposito di vicini... |
I và decórde
come le rishète d'i dutùr |
Vanno d'accordo come le ricette dei
dottori.
Il detto è un arguto, e molto bresciano, modo proverbiale per indicare una discordia.
A questo proposito è interessante il ricordo di un particolare riferito dal Cazzago nel
suo Diario sotto l'anno 1728: «...dove parla di una grave malattia del famoso vescovo
nostro cardinal Quirini, nella quale i parecchi medici avvicendatisi intorno all'infermo
diedero tal saggio della loro tradizionale discordia, che il popolo bresciano li fece
oggetto di viva collera e di atroci beffe. Il Cazzago chiude la descrizione della malattia
del cardinale con queste parole: «Dicono alcuni, che beffeggiavano sopra la discordia dei
medici, di doversi scrivere a Roma per impetrare di potere cantarsi nelle Litanie dei
Santi la seguente Rogazione: - Ut medicos nostros illuminare et concordare digneris, te
rogamus, audi nos-» ("affinchè tu possa illuminare e mettere d'accordo i nostri
medici, ti preghiamo, ascoltaci") "brixia" dell'8-11-1914.
. |
Lè n
flàber(*) |
è un (*flàber = fanfarone, mangia
a ufo).
Inaffidabile, approfittatore, ciarlatano |
Ölegô bé al tò izì,
ma spòstô mìô l cunfì |
Cerca di voler bene al tuo vicino, ma
non spostare il confine.
Anche i rapporti positivi e di buon vicinato non sono eterni. Non esagerare con il
voler bene ...al vicino. |
L'aucàt de le càuze
pèrse |
L'avvocato delle cause perse.
Così sono chiamati i chiacchieroni e le persone inaffidabili. |
La cumpagnìô del fil
de fèr |
La compagnia del fil di ferro.
È la giusta definizione per un legame sottile, instabile, provvisorio e improvvisato come
quello di una compagnia di amici che si forma in occasioni come quella della festa dei
coscritti, dei "tre giorni" e simili. |
La maraèô
la sta de spüs(*) a lös |
La meraviglia sta (*«de spüs» =
dietro) all'uscio.
Non meravigliarti di ciò che sta capitando agli altri. Guarda un po' dietro l'uscio di
casa tua e troverai... Non erigerti a giudice. |
La ràbiô:
she prèst la sha móntô,
prèst la sha desmóntô |
La rabbia: se presto si monta, presto
si smonta.
Chi si adira velocemente, altrettanto velocemente si calma. Non c'entra niente, ma a
proposito di monta e smonta, una curiosità: la panna montata era detta «el mès menàt»
(il mezzo menato). |
La tròpô cunfidànsô
la fa pèrder la creànsô |
La troppa confidenza fa perdere la
creanza (educazione).
Amicizia, ma rispettando le distanze. |
Laùr... de ìgô
ergògnô |
È cosa da avere vergogna.
Lo si dice commentando il comportamento di chi fa qualcosa di sconveniente. |
Lè l fiöl
de n s-ciòr |
È il figlio di un signore.
Si diceva ironicamente di chi si vestiva «de la fèstô» (coi
vestiti della festa) anche nei «dé de laùr» (giorni
feriali). Sentirsi dire: «Paezà istìt a fèstô» (Paesano
vestito a festa), era un'offesa. |
L'è 'n cudér(*) |
È un (*cudér = portacote).
Duro di comprendonio e al tempo stesso vuoto dentro.
I contadini usavano appendere alla cintura un corno di bue svuotato nel quale tenevano la
cote sempre immersa nell'acqua, pronta per affilare la falce. |
L'è 'ndat vià
co le shò pìe 'n de 'l sac |
È andato via con le sue pive nel
sacco.
Si dice di chi non ha concluso niente o di chi, dopo aver insistito, accampando pretese,
ne esce mortificato; oggi diremmo «...con la coda tra le gambe». |
L'è 'n fròznô(*) |
È sempre in (*fròznô = fiocina
per anguilla, luccio e rane).
È sempre in giro di notte. È un donnaiolo. |
L'è shèmper en viólô |
È sempre in viola.
Si dice di chi è sempre in movimento, dell'irrequieto o della persona che lavora
continuamente, senza grandi pause. Il modo di dire, probabilmente, fa riferimento
all'attività del suonatore ambulante che, per vivere, strimpellava col suo strumento da
un paese all'altro per qualche lira o per un pezzo di pane.
Anche: chi va in giro senza lavorare. Con lo stesso significato di essere sempre in giro
si dice: «L'è shèmper en nàndô». |
Màiô òs-ce |
Mangia ostie.
Si dice del bigotto impostore. |
Màiô shaù |
Mangia sapone.
Si diceva dei Siciliani. Si raccontava che Garibaldi, arrivato in Sicilia avesse offerto
del sapone alla gente di quella terra perché, a suo parere, aveva bisogno di lavarsi.
Quelle persone, invece di usarlo per lavarsi, se lo sono mangiato. Chi vuole sottolineare
che si tratta di persone sporche, dice: «Non avevano mai visto il sapone!». Chi non
accetta l'etichetta di sudicione risponde: «Non avevano bisogno di lavarsi, ma di
mangiare!». |
Mei vìgô a che fa
con de 'n brigànt
che con giü 'gnurànt |
Meglio avere a che fare con un brigante
che con uno ignorante.
Con un brigante puoi ancora trovare un accordo, ma con un ignorante non puoi neanche
ragionare. |
Nóm a fa 'l filòs(*) |
Andiamo a fare il (*«filòs» è
lo spazio libero e piano della stalla: per favorirne la pulizia, la "lettiera",
posto riservato ai bovini e agli altri animali, era in leggera pendenza verso il canale di
scolo).
Durante l'inverno «...raccolgonsi nelle varie stalle dei bovi le Villane ove il giorno
e buona parte della notte se ne stanno filando in circolo per godere in questa del
chiarore di una lucernetta posta al centro. I Villici tornati dalla Campagna accorrono
anch'essi e vi trovano la loro conversazione.
La stalla era il luogo più proprio e più naturale, tra quelli non artificiosi, del
conversare tra molte e diverse persone: un luogo di aggiornamento, di contrasto o
discussione, di creazione del senso comune, dei modi di dire, di pensare, dove si
raccontavano i casi della vita, dell'uomo, della natura, dove si perpetuavano, come
elemento di legame, proverbi, indovinelli, favole, racconti mitici, veri, miticizzati, si
giocava a carte e tombola, e ci si spiegava l'attività più tipica dell'economia
familiare, la filatura della lana, della seta. Nelle giornate veramente impossibili, gli
uomini, in qualche angolo, preparavano punte ai pali, intrecciavano vimini, (impagliavano
o) riparavano seggiole e attrezzi o, sotto il porticato, segavano la legna.
Altri luoghi erano meno durevoli, nella stagione nel tempo, meno raccolti: "èl
filòs" sulla porta di casa a prender fresco; (...) «èl scarfuià» nelle corti al
tempo del granoturco.
La stalla era il club, il salotto, il circolo contadino, il "filòs" per
eccellenza. Il parlare era ciò che univa: ciò che si trasmetteva, legava. Un
ripensamento collettivo della vita avveniva nella stalla.
Per i ragazzi la stalla era un luogo dove potevano sfogare le loro energie: capriole
(cürmartèi), lotta libera, costruzione di tane, con la paglia, case,
"casutì", ponti. (...) Col passare dei giorni e delle settimane la stalla
diventava per i bambini la prima scuola di addestramento alla vita.» (Gianni bosio
"Il trattore ad Acquanegra"). |
'n tra lü
e niènt de shénô... |
Tra lui e niente di cena...
Proprio zero. |
Müs de fan amò
e mai pentìs |
(Hai un) muso da farne ancora e mai
pentirsi.
Si dice bonariamente a chi ne combina di tutti i colori. |
Nà a Pifiù a ferà i
óc
col martilì de pàiô
e i ciudilì de stópô |
Andare a Piffione a ferrare le oche col
martellino di paglia e con i chiodi di stoppa.
Si dice di chi si organizza per fare cose inutili.
Piffione, frazione di Borgosatollo, è famoso per questo detto che imputa ai suoi abitanti
la fama di persone che non fanno le cose come si dovrebbe. Però si narra anche che un
signore, pensando di fare dell'ironia, sia entrato in un'osteria del paese e abbia detto:
«...el ché che i fèrô i óc col martilì de pàiô e i ciudilì de stópô?».
«Sé, ma apénô chei de pasàgio» gli ha prontamente risposto uno dei presenti.
(«...è qui che ferrano le oche col martellino di paglia ed i chiodi di stoppa?». «Sì,
ma solo quelle di passaggio»). |
ògne paés
el gh'à la shô üzànsô
e chi che i la schèrsô
l'è shènsô creànsô |
Ogni paese ha la propria usanza e chi
la scherza è senza creanza.
Rispetta le usanze altrui.
A questo proposito voglio citare ciò che scrive negli anni '30 il nigolinese Sandro Torri
(*) per valorizzare, a modo suo, le tradizioni dei luoghi della provincia di Brescia che
conosceva: |
Pashènciô a bràche |
(*Il documento è custodito da Luigi Barcella di Corte Franca).
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Per carneàl
töcc i schèrs i val |
Pazienza a manciate.
Ci vuole tanta pazienza, a piene mani. Chi vuole esagerare dice «a brashöi», cioè
usando come misura le braccia anzichè le mani.
Per carnevale tutti gli scherzi valgono.
La goliardia di questo giorno non era commerciale come lo è ai nostri giorni. Per «nà a
fa i màscher» (girare mascherati) bastava travestirsi da maschio se donna o
viceversa e prendere un cestino nel quale mettere le frittelle che si sarebbero ricevute,
andando in ogni casa, innaffiate con un buon bicchiere di vino. Era anche il momento della
trasgressione che si manifestava nei modi più diversi anche da queste parti. Sarebbe
interessante raccogliere un po' di avventure carnevalesche, no? |
Per conósher 'na
persùnô
bizògnô ìgô
maiàt fò i fazöi ensèmô |
Per conoscere una persona bisogna
avergli mangiato insieme i fagioli.
Se non ho mangiato con te non ho alcuna confidenza, nessuna conoscenza e perciò nulla da
condividere. Non fermarti alle apparenze. |
Per la cumpagnìô
el töl muèr a' 'l frà |
Per la compagnia prende moglie anche il
frate.
Stando in compagnia si fa di tutto. |
Scùltô töcc,
ma fa a tò möt |
Ascolta tutti, ma fa a modo tuo.
Devi ascoltare ogni consiglio, ma devi anche saperlo valutare. |
Shòcio de la bìrô |
Socio della birra.
Il tono minaccioso con cui viene detta questa frase dà un significato di avvertimento a
non oltrepassare il limite del buon gusto. |
Tö shö i tò tàter(*) |
Prendi i tuoi (*tàter = così, in
origine, erano detti gli utensili di casa; più recentemente il termine ha preso il
significato di stracci, cenci, cose inutili, gingilli, cianfrusaglie).
Prendi le tue cose e vattene. |
Spàrter i cügià |
Dividere i cucchiai.
Rompere i rapporti con qualcuno. Dividere le sostanze.
Il suo esatto contrario è «ésher mèrdô e màelô» (essere
merda e mangiala), cioè avere grande affiatamento e tanta confidenza al punto di
dirsi tutto senza rischiare l'offesa. |
Tabacù(*) |
(*«tabacù» letteralmente è
"tabaccone", ossia colui che fa uso di tabacco da fiuto, ma l'uso che se ne fa
lo rende simile a «macarù» (maccherone) o «shübiòt» che ha lo stesso
significato di "vuoto dentro").
Molti, sia uomini che donne, fiutavano il "Santa Giustina", tabacco che veniva
acquistato a «ónse» (once). Nella scatola, col tabacco, qualcuno metteva dei
fagioli per mantenerlo sempre asciutto, altri mettevano perfino «le lügris-cìne»,
insetti simili alla «móscô sparpaiùzô»(*) ma con le antenne simili a quelle del
grillo che si trovavano sulle piante di salice: avevano la proprietà di emanare un
gradevole profumo come di liquirizia.
(*móscô o furmìgô sparpaiùzô = cervo volante).
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Tacc có tàte cràpe(*) |
Tante teste tante (*cràpe = teste,
ma nel senso più dispregiativo di zucche e crani).
Ognuno la pensa alla propria maniera. Si manifesta il disagio e l'impotenza nell'aver a
che fare con persone che, avendo pareri diversi dai nostri, non vogliono starci a sentire.
Tant'è che spesso si sente aggiungere: «...Tacc cüi... dópe
cülàte, el dizìô Giupì» (...Tanti culi... doppie natiche, diceva Gioppino).
E Gioppino è l'eroe dalla battuta facile, dall'intelligenza senza diplomi o titoli di
studio al quale tutti danno fiducia e comprensione. |
Ta dó i póncc |
Ti dò i punti.
È la dichiarazione di superiorità in una sfida al gioco delle carte o della «mùrô»
(morra). Lo dice chi si sente sicuro al punto di voler concedere un vantaggio
all'avversario. Chi si sente suo pari, o addirittura più forte, gli risponde: «àrdô
che chi che dà förô i póncc g'è apénô i shertùr e i scarpulì» (Guarda che chi
dà i punti sono appena i sarti ed i calzolai). |
Ta tàchet
come la pìgulô
(o la ràzô) |
Sei appiccicoso come la pece (o
la resina).
Si dice ai bambini che sono sporchi e sudati, ma anche delle persone appiccicose,
assillanti, pedanti. |
Töcc i macc en piàshô
nishü i shò |
Tutti i matti in piazza, nessuno porta
i suoi.
Ognuno parla diffusamente dei difetti, dei mali delle situazioni chiacchierate quando
sono quelle degli altri e se ne ha di simili non vi si riconosce. A commento spesso si
sente aggiungere: |
ògne pórtô
la gh'à 'l sò batiröl(*) |
Ogni porta ha il suo (*batiröl,
baciòcol o batòcol = battaglio infisso sulla porta per la chiamata).
In ogni casa c'è qualche guaio; non esiste famiglia che ne sia immune. |
Vilansù quàder(*),
té e tò pàder |
Villanzone(*), tu e tuo padre.
(*quàder = quadro, tutto d'un pezzo).
Maleducato. Zoticone fatto e finito... di generazione in generazione. Offensivo. |
Zöc de mà,
zöc de vilà |
Gioco di mano, gioco da villano.
Sottolinea la maleducazione e l'irrispettosità dei tipi maneschi, spesso si riferisce ai
giochi (lotta) e ai dispetti (solletico, pizzicotti ecc.) tra bambini e viene usato come
rimprovero.
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