Giuseppe Zani
Pàrlô come t’à ’nsegnàt tò màder
Pubblicazione fuori commercio

 

 

 

Alcuni rimedi per la tutela della salute
sia degli uomini che delle bestie
scritti esattamente come li ho sentiti

 

Per curare la bronchite si versava dell'olio di ricino su della carta da zucchero calda che poi si sarebbe tenuta sullo stomaco, oppure si facevano delle polentine di lino. Per fare la polentina? Prendere la "farina" di lino, olio di ricino ed acqua, fare una pappa spessa e mettere sulla pezza già preparata sul posto da sanare debitamente coperto con un pezzo di stoffa onde evitare scottature.
Un altro metodo prevedeva di spalmare olio di ricino sul torace e quindi mettere sopra la carta da zucchero pre-riscaldata su di una piastra.
Alcuni Timolinesi ricordano che il rimedio usato da «Paulìnô d'i Bórge» (Paolina dei Bosio) consisteva nel coprirsi il torace con della lana e poi appoggiarvi sopra un mattone caldo.
Qualcuno preferisce intervenire dall'interno? Va bene del miele, meglio se di sambuco, sciolto nel latte.
Come medicamento contro i dolori reumatici o artritici si usava «el séf de àzen fat sö come 'n salàm» (sebo di asino imbudellato come un salame). Avvolto in una carta velina o imbudellato veniva conservato e fatto invecchiare in cantina, più era vecchio, più era buono.
Sempre contro i dolori reumatici: mettere l'alcool, il primo distillato della grappa, in una bottiglia col peperoncino e far invecchiare: più invecchia, più è efficace.
Per togliere un'infiammazione
si può prendere una foglia di pianta grassa, spellarla, spalmarla di burro fatto in casa ed appoggiarla sull'infiammazione. Si usava ad esempio dopo aver fatto «la erölô» (vaccinazione antivaiolosa).
Contro le ritenzioni di urina si facevano impacchi con cipolle cotte sulla pancia.
Collane di «spìghe de ài» (spighe di aglio) in numero dispari sono un ottimo vermifugo, ma anche la ruta era molto usata a questo scopo.
Contro «i bignù», cioè grossi foruncoli o ascessi, polentine di crusca di frumento «per trà fò 'l có» o «fa ègner a có 'l mal» (far maturare il male). Scoppiato il bubbone, mettere il retro di «fòe de lìgô-bósc o de 'mpiantànô» (foglie di edera e piantaggine).
Le «shinguète» (sanguisughe) venivano usate per dei salassi o contro l'alta pressione. Ce n'erano dappertutto nei fossi, ma chi non ne avesse trovate poteva rivolgersi in farmacia. Si mettevano dietro l'orecchio e non si toglievano più perché, quando erano sazie si staccavano da sole. A questo punto venivano messe in un catino pieno d'acqua perché "rimettessero" il sangue e fossero nuovamente pronte all'uso. Per mantenerle in vita senza alimentarle col sangue si metteva un po' di zucchero nell'acqua.
L'ulcera veniva affrontata mangiando una lumaca viva perché si diceva che il suo muco vi avrebbe posto rimedio, ma c'era anche chi mangiava addirittura una rana viva. "Barbe" di granoturco e «pécoi» (piccioli) di ciliegia o di amarena venivano conservati e, all'occorrenza, fatti bollire: erano un ottimo diuretico, indicato a chi aveva problemi alle vie renali. Altrettanto efficace, a questo scopo, era «la grèm» (gramigna) che doveva essere ben lavata, spezzettata e pestata prima di essere fatta bollire a lungo. Oltre che diuretica, quell'acqua era considerata utile anche contro la tosse
Sulle ferite, come medicamento: «caröl de bórô» (legno tarlato) e "fasciare" con «talamórô ömedô de cantìnô» (ragnatela umida di cantina)... E se capitava che la persona morisse, si concludeva «en sè mì
Le bestie ferite, attaccate dai pidocchi, venivano curate con «la shónzô» (sugna).
Questo "medicinale universale" veniva fatto invecchiare e si spalmava sulla parte dolorante in caso di distorsione. Se una mano o un piede andavano fuori posto si andava dal «medegòt» (guaritore) per farla sistemare.ô riàcc a ùrô» (non siamo arrivati in tempo).
Il «mal del peshù» che cominciando dai due speroni faceva marcire i piedi della vacca, si curava con «la shónzô» (grasso molle del maiale) misto a «buàshô» (sterco di mucca) applicato sulla parte malata che veniva poi fasciata. L'infezione all'unghia del cavallo poteva esserci quando l'animale non era ferrato ed era detta «el fil mórt» e si trattava di tetano. Non si poteva guarire e il destino del cavallo era segnato.
Noi diciamo «shupìnô» all'afta epizootica, una grave malattia dei bovini che si manifesta nelle forme più leggere con dolorose vesciche sulla bocca della bestia che le impediscono a mangiare e nelle forme più gravi con l'infezione delle unghie che se cadono portano a morte sicura l'animale. Durante la quarantena vengono curate con somministrazioni di vino caldo per sconfiggere la febbre, ma per il resto non restava altro che attendere.
Contro l'artrite, mettere «lànô de bós» (lana di pecora) appena tosata e non ancora trattata.
Per far maturare gli ascessi bisogna usare incenso e trementina con il rosso d'uovo fino a farne una crema da poter spalmare ovunque vi sia un ascesso, tranne che in bocca, e poi fasciare.
Le botte venivano curate con impacchi di acqua fredda fatti con la carta da zucchero
La crosta lattea «i la tignìô untàdô co l'òio de ulìô» (la tenevano unta con l'olio di oliva) finchè fosse sparita. Alle donne si raccomandava di non mangiare cose grasse o piccanti, ma soprattutto di bere molta acqua, specialmente prima di allattare il bambino.
Credo che ogni generazione abbia conosciuto il mal di denti e per combatterlo si sono fatti i tentativi più disparati. Nel dente cariato si metteva di tutto: un granello di sale grosso o di pepe, un chiodo di garofano o, addirittura del tabacco. C'era anche chi preferiva "addormentare" il male tenendo in bocca per qualche minuto della grappa in modo che ci fosse l'effetto anestesia; altri preferivano togliere il gonfiore o quanto meno dare un po' di sollievo e refrigerio appoggiando alla guancia dolorante delle fette di patata che cambiava non appena si fossero asciugate. Non erano infrequenti neanche i risciacqui fatti con acqua e aceto, ma, alla fine, il miglior rimedio era sempre il dentista che interveniva spesso solo estraendo il dente malato. Prima della grande diffusione dello spazzolino, la pulizia dei denti si faceva passando su denti e gengive le foglie di salvia. Questa operazione era utile soprattutto per chi aveva le gengive deboli o soffriva di stomatite.
Anche i rimedi contro la diarrea non sono pochi. Ricordo di aver sentito qualcuno dire che, come antidoto, usava bere chiare d'uovo sbattute; i più mangiavano riso in bianco o si facevano una buona spremuta di limone oppure tenevano sempre in bocca della liquirizia pura.
Senza avere la cassetta del pronto soccorso a portata di mano, le piccole ferite venivano disinfettate con la saliva o urinando sull'abrasione o sul piccolo taglio. In quest'ultimo caso la ferita veniva fasciata con «la scórsô de mùr che l'è piö bùnô amò de chèlô de shàles» (la scorza di gelso era più buona, migliore, di quella di salice).
Lo "zucchero amaro", o dulcamara, che si trovava in prossimità dei fossi, era una pianticella dalla quale frequentemente si toglieva un rametto, un bastoncino da tenere in bocca nonostante al momento fosse amara perché si era sicuri che avrebbe lasciato un sapore dolce, quasi fosse zucchero. Qualcuno diceva che fosse dissetante, ma, in mancanza d'altro c'era chi allontanava la sete tenendo in bocca un paio di sassolini.
Contro ogni tipo di emorragia, ma soprattutto per fermare il sangue che esce dal naso, servono impacchi di acqua fredda sul naso, sulla fronte e sulla nuca.
Non ho capito come funzionasse, ma contro la caduta dei capelli certi usavano il midollo di vitello.
Le emorroidi si combattevano con bagni o impacchi di malva e crusca.
Non so se si facesse davvero e con quale efficacia, ma ho sentito più di una persona dire che l'enuresi notturna (fare la pipì a letto) si curava facendo friggere dei topolini che poi venivano dati da mangiare alla persona affetta da questo disturbo
Per il fuoco di sant'Antonio si facevano impacchi di acqua fredda e sale. Quando si era colpiti da questa malattia o da altre gravi malattie, ai bambini si faceva indossare il «vestidì de Shant'Antóne», cioè un vestito color marrone o addirittura un sacco di iuta con un cordone bianco che cingeva i fianchi, al quale venivano fatti un certo numero di nodi da sciogliere, uno ad uno, mensilmente. Ciò per chiedere la guarigione per intercessione del Santo.
Il problema dei geloni, che noi chiamiamo «piuzèi», veniva affrontato in tanti modi. C'era chi pensava di risolverlo facendo corse a piedi nudi nella neve e chi, invece, li metteva a mollo in acqua quasi bollente. Altri lanciavano una piccola manciata di farina gialla sulle braci e poi si mettevano in modo che il fumo causato dalla combustione della farina arrivasse proprio sui piedi o sulle mani coi geloni. C'era anche chi pestava i gusci di lumaca oppure dei pezzi di carbone e li metteva in una pezza da applicare sulla parte dolorante. Per asciugare le piaghe come quelle dei «piuzèi» si usava la pelle di coniglio rovesciata e, ovviamente, non ancora conciata.
«Le piìde», che in italiano sono dette giradito, si curavano con foglia di «'mpiantànô» (piantaggine) e mollica di pane bagnata nel latte da mettere sul dito. Tutto questo serviva per «fa ègner a có 'l mal» (accelerare la "maturazione" del male).
Chi lavorava nei campi aveva spesso a che fare con le spine. Per togliere quelle che si insinuavano più profondamente si usava bagnare in acqua calda il punto in questione finchè la pelle non si fosse allentata e si potesse «rügàgô ré» (frugare) con un ago e far uscire la spina
Se la mucca non ruminava almeno 40 volte «shènsô mandà zó» (senza ingoiare), probabilmente era indigesta e si diceva che «ga màncô la ganàshô» (gli manca la ganascia, la mandibola). In questo caso era necessario "aiutarla" facendole ingerire del sale amaro (sale di soda) che, sciolto nell'acqua, è un buon purgante. Se invece aveva la febbre (sintomo era il tremore), in qualche modo la mucca doveva essere scaldata, ad esempio la si copriva con una coperta, le si passava sopra lo scaldaletto, le si faceva bere del vino caldo... Se aveva mal di pancia «la pestezàô, la speshadàô o la sbaràô» (scalpitava o scalciava) allora aveva bisogno di altre cure.
Il maiale colpito dal «mal del rushì», una malattia che prima fa sorgere macchie rosse sulla pelle che poi diventano piaghe, non c'erano molti rimedi efficaci, il più delle volte era destinato a morire nonostante si tentasse il tutto per tutto con acqua bollente o, più recentemente, con delle iniezioni da parte del veterinario.
Per curare il dolore all'orecchio bisognava prendere una cipolla intera, farla cuocere, estrarne il cuore, bagnarlo nell'olio appena scaldato e metterlo nell'orecchio.
Il latte col miele o con la grappa veniva usato per affrontare l'influenza, ma molte persone preferivano il "vin brulé", rimedio molto usato anche contro il malanno più comune in inverno: il raffreddore. Come variante, vino caldo accompagnato da bucce di arancio o di limone oppure di mela.
Le donne che dovevano allattare, evitavano il pericolo di restare senza latte se mangiavano la «panàdô col bröt de galìnô èciô» (panata col brodo di gallina vecchia) resa ancor più sostanziosa dall'aggiunta di un uovo sbattuto. Altro modo consigliato era quello di mangiare «i teedèi» (tagliatelle) oppure «i brufadèi» (farina fatta cuocere nell'acqua e condita con lardo ben pestato e fritto). Bisognava prestare attenzione a non usare il prezzemolo perché era controindicato, anzi era consigliato a quelle donne che, per qualche motivo, dovevano smettere di allattare. Certo si trattava di casi rari e quasi sempre determinati da motivi di salute, visto che l'allattamento poteva diventare anche una piccola fonte di reddito in un'epoca che non aveva ancora conosciuto l'allattamento artificiale. Ai nostri giorni però non esistono più i "fratelli di latte", anzi, questa terminologia è praticamente scomparsa dal nostro parlare quotidiano e proviamo meraviglia quando sentiamo dire che qualcuno possa avere altri fratelli non consanguinei.
Il rimedio consigliato contro «i ureciù» (la parotite) era quello di ungere bene la parte con olio di zucca appena scaldato.
Contro «l'urzöl» (orzaiolo) si faceva guardare con l'occhio malato dentro una bottiglia di olio.
I pidocchi si combattevano tagliando i capelli con «la machinètô» ad alzo zero e facendo pulizia strofinando il cuoio capelluto col petrolio o con l'aceto.
Il problema dei porri «i pòrc» (le verruche) veniva affrontato in vari modi. Per guarire, qualcuno metteva il latte di fico direttamente sul porro che, con diverse applicazioni, alla fine veniva "bruciato"; qualcun altro invece preferiva il latte dell'«èrbô melùnô» (euforbia?).
Altri due modi possibili per portare a soluzione il problema (non so con quale efficacia): fare su uno spago tanti nodi quanti erano i porri e buttarlo in acqua corrente, un rigagnolo, un torrentello ecc.; oppure prendere tanti chicchi di frumento quanti erano i porri da eliminare e gettarli, volgendogli le spalle, in un pozzo davanti al quale non si sarebbe più passati.
Chi veniva punto da «èspe o martinèi» (vespe e vespette francesi) per limitare il danno doveva prontamente appoggiare per qualche minuto, sulla puntura, un ferro freddo (una moneta, la lama di qualche attrezzo agricolo ecc.).
Soprattutto durante i cambi di stagione, un cucchiaio di olio di fegato di merluzzo era un ottimo ricostituente. C'è chi ricorda questo particolare abbinandolo al periodo della scuola perché nel periodo fascista la maestra lo somministrava ai bambini.
Altro olio famoso era quello di ricino, che nella memoria dei nostri vecchi, rimane il purgante per eccellenza in quanto nel periodo fascista è stato spesso usato in abbinamento o in alternativa al manganello per scopi tutt'altro che salutari.
La «ruzìpulô» (erisipela) è un foruncolino che si forma in punti delicati del viso come, ad esempio, sotto il naso e «la fa l'aivarèlô e la crüstilìnô» (fa l'acquarella e la crosticella). In questi casi si rende necessario applicare sulla parte delle fette di patata che hanno potere calmante sull'infiammazione).
La «rizètô» o «èrbô ris» è una pianta grassa dal fiore bianco e si poteva trovare facilmente in quanto cresceva spontanea a ridosso dei muri. Qualcuno la raccoglieva perché aveva poteri curativi che però non sono riuscito ad individuare
Quando ero piccolo, mia madre mi preparava "il calcio" con la seguente ricetta che ho scoperto essere un ricostituente molto comune.
Si mettono 12 uova in una «bàrgiô» (marmitta) o altro contenitore, si coprono di succo di limone e si lasciano «a marsentà» (macerare) al fresco per qualche giorno e cioè fino a quando il guscio non si è completamente sciolto. Si filtra il tutto con un «culì» (colino) in modo da eliminare i residui che non si sono sciolti. A questo punto si aggiunge un litro di marsala e un po' di zucchero e si conserva al fresco. Noi ne prendevamo «'n tashì» (un bicchierino) tutte le mattine nel periodo primaverile o autunnale.
La versione commerciale è più alcoolica ed ha fatto fortuna col nome "Vov" da «Vovi» che in dialetto veneto significa "uova". Infatti la ditta era di Padova.
Con malva e crusca si possono fare impacchi molto indicati contro la sciatica .
Per combattere le screpolature si usava molto il grasso di cavallo o di maiale che si spalmava sulla pelle e si faceva assorbire come si fa oggi con le varie creme. La screpolatura trascurata provocava taglietti più o meno fastidiosi e profondi che erano detti «le càgne». Se si arrivava a questo punto, si usava far colare una goccia di cera calda nella ferita.
A chi si scottava le mani si consigliava di mettersele subito nei capelli. Altri suggerimenti per trovare refrigerio dopo una scottatura: "lavarsi le mani" nella farina gialla in caso di scottatura con olio bollente, oppure semplicemente mettere le mani a bagno nell'acqua fredda. Le ustioni serie erano curate con le fette di patata e asciugate con la «pólver de cucàl» (polvere fatta di gusci di lumaca o di conchiglie lacustri pestate).
Far pigliare uno spavento a chi ha il singhiozzo è uno dei modi usati per combatterlo, ma ce n'erano altri come: bere un bicchiere d'acqua deglutendo almeno tre volte senza respirare; dire, sempre senza respirare, una filastrocca; prendere un cucchiaio di zucchero e limone o zucchero e aceto; bere un bicchiere d'acqua stando capovolti, ecc.
Il problema della slogatura si affrontava andando a "farsi mettere a posto" dai «medegòcc» e stando un po' a riposo, oppure si faceva «la stupàdô» che era un'ingessatura di tipo artigianale ottenuta così: preparare tanta «stópô» (canapa in fili) da idraulico quanto serve a fasciare la slogatura, spalmarvi delle chiare d'uovo sbattute e quindi applicare fasciando stretto la slogatura. Quando l'albume si secca si irrigidisce e ciò basta a tener ferma la fasciatura per i due o tre giorni generalmente prescritti.
Il mal di testa si affrontava col riposo e «ligà fò strèt el có» (legare stretta la testa), mentre per il torcicollo bastava il caldo di un fazzoletto o di una sciarpa.
Per guarire dalla «tós cagnìnô» bisognava cambiare aria (erano molto indicate Zone-BS e Vigolo-BG). La pertosse, però veniva curata anche con il pregiatissimo latte di asina oppure, in mancanza di questo, poteva andar bene anche quello di cagna. C'era anche chi pensava di curarsi facendosi leccare la bocca dal proprio cane o chi ricorreva al più classico latte e miele.
Per chi aveva lo stomaco in disordine o problemi di vomito era indicata una limonata calda
Chi era affetto da malattie che riteneva particolarmente difficili da sconfiggere si affidava al prete di Vello di Marone che «'l scünzüràô 'l diàol» (scongiurare il diavolo). A lui si rivogevano anche le persone «streàde de le stròleghe» (stregate dalle zingare). Il fai da te contro le fatture, invece, consisteva nel far bollire gli indumenti indossati dalla vittima di questi sortilegi. Ciò permetteva non solo di togliere la fattura, ma addirittura di scottare l'autore di queste malefatte o, addirittura di riversare su di lui gli effetti negativi previsti per la sua vittima.

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