A fàlô töte le
matìne
ta tègnet a mà le medizìne |
A farla tutte le mattine risparmi le
medicine.
Salute è... andare regolarmente di corpo. Più terra-terra è: «Cül
che càgô, gh'è mìô ór che 'l la pàgô» (Culo che caga, non c'è oro che
lo paga). |
A tö ògne matìnô
òt gra de zeèrni(o zenèster),
ta còpèt el dutùr
e pò 'l spis-cér |
A prendere ogni mattina otto grani di
ginepro, uccidi il dottore e anche il farmacista.
Le proprietà salutari del ginepro! Un altro detto (che non ho fatto in tempo a scrivere)
lo consiglia come particolarmente indicato per pulire i bronchi dalla catramina (fumo).
Al fumo dei rami verdi di ginepro, bruciati nelle «ca d'i caalér» (stanze dei bachi
da seta), si attribuiva potere di disinfezione. |
àrdel le chel bröt
zaldù,
el gh'à l culùr de
la màlvô còtô |
Guardalo lì quel brutto giallone, ha
il colore della malva cotta.
Non è bianco e rosso come chi è in salute, ma il suo colorito è verdognolo o
giallognolo. Ha una cera da ammalato. |
Bràs al còl
e gàmbô a let |
Braccio al collo e gamba a letto.
Si dice discutendo di chi ha problemi agli arti. Si osserva che il braccio si può mettere
al collo e mantenere una certa indipendenza, ma per la gamba... |
Bröt de galìnô
e decòt de cantìnô |
Brodo di gallina e decotto di cantina.
Brodo di gallina e vino erano considerati i migliori ricostituenti. Qualcuno beveva il
primo allungato con il secondo o viceversa (che gusto avrà?). |
Che Shàntô Lüshìô
la ta cunsèrvé la vìstô,
che lapetìt el ta màncô mìô |
Che Santa Lucia ti conservi la vista,
che l'appetito non ti manca.
Lo si dice a chi mangia voracemente un pasto abbondante.
Come dire: salute! |
Chi che té de cönt
la shô pèl,
té de cönt 'n gran castèl |
Chi cura la sua pelle, cura un gran
castello.
Abbi cura del tuo corpo, ha un immenso valore. |
Chi màiô bé e càgô
fórt
i gà mìô pórô de la mórt |
Chi mangia bene e caga forte non ha paura della morte.
È la salute in persona.
|
Chi màiô prèst
i mör tàrde |
Chi mangia presto muore tardi.
Bisogna cenare ed andare a dormire presto. |
De edèi
en na 'à tacc en becherìô,
ma de bò 'n na scàmpô mìô |
Di vitelli ne van tanti in macelleria,
ma di buoi non ne campano mica.
Si parla di buoi e vitelli per dire che, è vero, muoiono molti giovani, magari in maniera
cruenta, ma di vecchi non se ne salva neanche uno. |
Dopo diznàt pulsà,
dopo shénô caminà |
Dopo pranzo riposare, dopo cena
camminare.
Sono abitudini dimenticate dall'attuale organizzazione del tempo spezzettato in orari. |
Dopo i quaràntô
el tìrô... ma 'l sa ncàntô |
Dopo i quaranta tira, ma si incanta.
Si dice della virilità. Sempre a proposito di inconvenienti degli... anta: «Dopo i quaràntô-tré, she ta döl mìô denàcc, ta döl deré» (Dopo
i quarantatrè, se non ti duole davanti ti duole dietro). |
Dulùr cunfidàt
mès medegàt |
Dolore confidato mezzo medicato.
Meglio non essere soli ad affrontare il dolore (fisico o morale che sia). |
el gh'à l'antezù(*)
'n d'i décc |
Ha (*) nei denti (*antezù = è
detto il ritiro e il rigonfiamento delle gengive, manifestazione della loro debolezza).
Se vi è capitato ancora di mangiare una prugna non troppo matura, quella sensazione di
disagio e di "legatura" dei denti che «fa dientà i décc lónc» (fa
diventare i denti lunghi) è l'«antezù». La stessa cosa si manifesta tra le bestie
nella stalla quando si smette l'alimentazione a base di fieno e si comincia a dare l'erba. |
el gh'à trat sö 'na
còstô |
Ha tirato su una costola.
Comincia ad avere qualche sollievo. Sta meglio. |
el mal che pèrt la bèndô
lè ré a guarì
|
Il male che perde la benda sta
guarendo.
Perché cala il gonfiore. |
el mal el fa prèst a
ègner,
ma ga öl el sò tép a ndà vià |
Il male fa presto a venire, ma ha
bisogno del suo tempo per andare via
Più poeticamente... |
el mal el vé a caàl
e l và vià a pè |
Il male viene a cavallo e va via a
piedi.
La malattia capita in fretta, ma, per guarire, serve molto più tempo. Porta pazienza! |
el na còpô piö tacc
la pènô del dutùr
che l s-ciòp de n cashadùr |
Ne uccide più la penna del dottore che
il fucile di un cacciatore.
Sulle morti del primo cala il silenzio, sugli uccisi dal secondo si esagera in numero e
clamore. |
Le capèle(*) dei dutùr
sha a shótrô shènsô rumùr |
(*) dei dottori si sotterrano senza
rumori.
(*)«Le capèle» sono errori madornali. Quando qualcuno sbaglia si dice: «ti prendo
a «capelàde» di cui «capèle» è una contrazione.
Eventuali errori dei dottori non sono mai accertati fino in fondo perché è medico anche
chi dovrebbe accertarli e, quand'anche ci fossero, sarebbero ben mascherati. Morale: è
meglio mettersi il cuore in pace e non pensarci più.
|
Gh'è che chei de
Predùr |
Ci sono qui quelli di Predore - BG.
Ha lo stesso significato del seguente: «Ghè ché chèi dè Pisògne che riporto da
"brixia" del 25.10.1914.
Bresciana di zecca, questa è una frase che viene sulle labbra quando si vede qualcuno
che accenna ad addormentarsi:
"Ghè ché chèi dè Pisògne".
I naviganti di Pisogne trasportavano sulle loro barche i prodotti dalla Valle Camonica che
dovevano essere venduti sul mercato di Iseo e, per avere laria in favore, partivano
verso mezzanotte,scendendo rapidamente per il lago ed arrivando di
buon mattino a destinazione . Ora, siccome le imbarcazioni erano a vela, bastava che, a
turno, uno solo degli uomini restasse sveglio: gli altri, appoggiato il braccio sulla
sponda del barcone, vi posavano sopra il capo e dormivano alla grossa.
Quando erano in vista del porto di Iseo, i presenti li annunciavano col "Ghè
ché chèi dè Pisògne"...
Il motto, raccolto e contraffatto dal primitivo senso del paese, giunse anche a Brescia, e
viene ripetuto nelle famiglie come sottolineatura di un accenno ad un principio di sonno e
di riposo dei bambini».
Altro detto simile è: «el pézô i póm» (pesa le mele)
riferito al movimento della testa mentre ci stiamo addormentando da seduti senza un
adeguato appoggio.
«el sòcô» (dorme alla grande) si diceva di chi aveva il sonno più pesante.
«Shucà» infatti significa dormire di un sonno pesante nel quale si resta inanimati come
un «sòc» (ceppo di legno). |
el tìrô piö
gnè cópe gnè bastù |
Non tira più né coppe né bastoni.
Si dice di chi è inanimato, senza forze, sfinito, moribondo.
Di chi è gravemente ammalato si dice anche: «L'è piö de là che de
ché» (è più di là che di qua), più morto che vivo. |
entàt che l
dutùr el pènsô,
l malàt el crèpô |
Intanto che il dottore pensa, il malato
crepa.
Non sempre c'è tempestività di intervento, ecco perché si dice: |
el prüm dutùr
bizògnô fàshel de shè stès |
Il primo dottore bisogna farlo da sè.
Sappi controllare e tutelare da solo la tua salute. |
el sul de edriàdô
lè pès de na s-ciupetàdô |
Il sole di vetrata è peggio di una
fucilata.
Fa male. Si fa capire che una fucilata può sbagliare bersaglio, ma in questo caso non ci
si scappa. Altro detto è: «Shul de edriàdô e àrgiô de sfeshadürô
i ta pórtô a la shepoltürô» (Sole di vetrata e aria di fessura ti portano
alla sepoltura).
Il sole di vetrata, l'aria corrente (contraria) e gli spifferi sono molto pericolosi. |
el sè ultàt e
pirlàt
en de l let |
Si è voltato e rigirato nel letto.
Sono notti insonni. |
el só mìô
come 'l la 'mpaerà |
Non lo so come la impaglierà.
Non so come risolverà quel problema. Si dice nelle situazioni dove trovare una via
d'uscita pare impossibile e non ci si augura di essere al posto di chi dovrà risolvere da
solo quella situazione. Il detto trae origine dalla oggettiva difficoltà che incontra chi
impaglia le sedie. |
el vero malàt
el gh'à de mörer |
Il vero ammalato deve morire.
Non sei un vero ammalato. Tipica frase con intento sdrammatizzante detta a chi è
ammalato o è appena guarito. |
en de le ca
che gh'à àrgiô e shul
ga 'à mìô déter el dutùr
|
Nelle case che hanno aria e sole non ci
entra il dottore.
Stanze ariose, spaziose, ben illuminate, dove non c'è umidità, non c'è muffa. In
ambienti sani non si prendono malattie. |
I Shólcc e i dulùr:
chi che i ga à
i sa a tègne lur |
I soldi ed i dolori: chi li ha se li
tenga.
Tanto nessuno ti darà mai né i suoi soldi (chi li ha se li tiene stretti) né i suoi
dolori (non potrebbe neanche se volesse). Qui, però, sono associate in modo da far
intendere che chi ha i primi avrà certamente anche i secondi. Non sono da invidiare. |
La ga 'é fò
culùr marù a rìghe |
Gli viene fuori marrone a righe.
Riferendosi soprattutto allo stato di salute, questa espressione ed altre come «la sha fa spèshô» (si fa spessa) o «'n s'è 'n mèrdô» (siamo
in merda) si usa per dire che la situazione si complica e volge al peggio. |
La mórt la sta shöi
tècc
e la ga àrdô miô
she g'è zùegn o she g'è ècc |
La morte sta sui tetti e non guarda se
sono giovani o se sono vecchi.
È sempre in agguato. |
La shalüte
e pò piö |
La salute e nulla più.
Basta la salute, niente è più importante. |
La shalüte
lè mai pagàdô ashé |
La salute non è mai pagata abbastanza.
Prevenire o curare per tempo è un ottimo investimento. La salute è tanto preziosa
che non ha prezzo. |
Lè mei àzen vìf
che dutùr mórt |
È meglio un asino vivo che un dottore
morto.
Meglio ignoranti vivi che sapienti morti. Si dice a chi vorrebbe studiare rimettendoci la
salute. |
Lè mei nà del
furnér
che del spis-cér |
È meglio andare dal fornaio che dal
farmacista.
Nel primo caso godi di buona salute, nel secondo no. |
L'è mei südà che
tremà |
È meglio sudare che tremare.
Si trema per il freddo, la febbre o la paura e si suda quando si lavora e c'è la salute o
quando fa caldo e c'è la bella stagione. |
Lè mìô shö la
shò |
Non è sulla sua.
Si dice quando qualcuno non è al meglio della salute oppure quando è giù di morale,
anche se in quest'ultimo caso sarebbe più appropriato dire: «L'è zó
d'i bàshec» (è giù dai cardini). |
L'è 'n giànde |
è conciato male. Si dice della sua
condizione fisica o economica.
«Giànde» sono i noccioli del frutto spolpato detti anche «àrme» o «armì».
A questo proposito si racconta che, durante i rastrellamenti, i tedeschi in ritirata
cercavano armi nascoste nei casolari o nei fienili. Sentita la domanda, incurante del
diniego dei suoi genitori, un bambino disse che lui sapeva dove fossero perché
ci andava
sempre a giocare: «El só mé 'n do che g'è lè àrme». "La voce
dell'innocenza", pensarono. Seguirono il piccolo fino alla cassapanca dove erano
state messe «le àrme» e grande fu la loro sorpresa quando videro una grande quantità
di noccioli di pesca. Fu difficile far comprendere agli arrabbiatissimi tedeschi che non
era una presa in giro, ma solo un malinteso causato dalla loro imperfetta dizione abbinata
ad un termine dialettale che aveva altro significato e che in quella situazione nessuno
avrebbe osato mentire. Quei noccioli venivano conservati per essere successivamente usati
in cucina e il bambino ne usava alcuni per giocare. |
L'è sténc(*) |
È (*sténc = rigido, congelato).
Si dice di chi è ubriaco fradicio, talmente ubriaco da non riuscire a stare in piedi,
come morto. Di chi muore infatti si dice anche che «l'è stencàt fò» perché
con la
morte c'è un progressivo abbassamento della temperatura corporea fino all'irrigidimento.
Di chi ha freddo alle mani o ai piedi si dice che ha «le ma sténche» o «i pè
sténc». |
L'è töt sacagnàt sö |
È tutto pieno di botte.
Ferito. Pieno di lividi. Acciaccato. Ammaccato. Anche nell'antico provenzale
"saccagno" stava ad indicare pugnale, coltello. |
Ma bóndô
la shalìô 'n bócô |
Mi abbonda la saliva in bocca.
Mi viene da vomitare. |
Nó ghè n'è giönô
gròshô
she nó ghè n'è giönô
amò piö gròshô |
Non ce n'è una grossa se non ce n'è
una ancora più grossa
Non credere che non ci sia di peggio. |
Per staóltô
ló purtàdô förô |
Per stavolta l'ho portata fuori.
Ho superato le difficoltà. Guarito da una malattia piuttosto preoccupante. E
l'interlocutore si affretta a dire: «Ta shét pròpe nit belvéder»
(Sei proprio venuto "bel vedere").
Di chi si è appena ristabilito ho sentito dire: |
el s'è rèpulàt(*) sö
mìô mal |
Si è (*) mica male (*«repulàt»,
da «pólec» = cardine, ganghero: «repulàs» significa rimettersi in cardine, in
sesto).
Si è ripreso. Ma se la persona ammalata è dimagrita e ancora sofferente la lingua non sa
frenare un sommesso «...ma 'l ma sha 'nsümèô 'n scartushì de òs» (...ma mi
sembra un cartoccio, un sacchetto, di ossa) cioè ossa tenute insieme da un'involucro
sottile. |
Pìô l nas:
nutìsie n viàs |
Prude il naso: notizie in viaggio.
Pare che il prurito sia un messaggero. Giustificazione in rima come: «She
shübiô l'urèciô 'ndrétô l'è 'na paròlô mal fidétô, she shübiô l'urèciô
mansìnô l'è 'na paròlô mulzìnô» (Se fischia l'orecchio destro è una
parola di malafede, se fischia l'orecchio sinistro è una parola soffice, dolce). |
Shàlviô shàlvô,
màlvô màl-và |
Salvia salva, malva mal-va.
Questo detto descrive sinteticamente i poteri di queste due erbe molto usate nella
medicina popolare. |
Sha pöl giüstà töt
förô che lòs del còl |
Si può aggiustare tutto fuorché
l'osso del collo.
A tutto c'è rimedio tranne che alla morte. |
She nó ta càghet
ta cagherét,
she nó ta pìshet
ta creperét |
Se non cachi cacherai, se non pisci
creperai.
La stessa cosa vale per il mangiare ed il bere. Bisogna ingerire ed espellere con
regolarità i liquidi. |
She ta öt restà sha,
té nèt le mà |
Se vuoi restare sano, tieni pulite le
mani.
È norma di igiene. Le mani, che portano il cibo alla bocca, toccano di tutto e
dappertutto.
Mentre ci si lavava era facile sentir dire «chè rüc!» (che sporcizia!) e per
togliere lo sporco bisognava «sgürà» (pulire a fondo, sfregando). Quest'ultimo
vocabolo è frutto di una delle tante curiose inversioni dovute alla necessità di un
linguaggio più scorrevole. Togliere il «rüc» si dovrebbe dire «srügà», ma
«sgürà» è più scorrevole. |
She töcc i purtarès
la crus en piàshô,
ògnü i turnarès endré
a tö shö amò la shò |
Se tutti portassero la (propria) croce
in piazza, ognuno tornerebbe indietro a prendersi ancora la sua.
Alla tua croce (malattia, dispiacere) hai già fatto una certa abitudine e poi c'è di
peggio al mondo. |
She l puarèt
el màiô la galìnô,
o che lè malàt lü,
o che l'è malàdô la galìnô |
Se il poveretto mangia la gallina, o è
ammalato lui o è ammalata la gallina.
Per chi è ammalato è ottimo, leggero e medicinale il brodo di gallina e la sua carne è
nutriente. Di solito si tenevano le galline solo per poter avere le uova da mangiare e da
vendere. All'occorrenza le galline venivano vendute per ricavarne qualche soldo. Si
uccidevano solo quando apparivano i primi sintomi di deperimento per inappetenza, quando
«le fàô 'l puarì» o «le fàô 'l pióc» dicono i nostri vecchi oppure quando «le
sha sbugiàô 'n de 'n fa l'öf» (si rompevano nel fare l'uovo). |
Shegnà i vérem |
"Segnare" i vermi.
Quando il bambino è indisposto e si nota che, per esempio, ha un orecchio o una guancia
rossa e l'altra pallida, oppure si sveglia «stremìt» (spaventato), oppure ha la
febbre alta e l'alito cattivo, per sapere se il bambino ha i vermi (acetone), si va
dal «setimì» (settimino) il quale prende un filo «de réf» (filo di
refe-cotone o di lana), lo avvolge sulle tre dita centrali della mano in modo che,
tagliandolo sotto l'anulare e sopra l'indice, i «bìgoi» (pezzi di filo), da
mettere in un bicchiere o una tazza vuota, rimangano in numero dispari (tre, cinque,
sette, nove...). A questo punto si riempie la tazza di acqua.
Quando suonano le campane a mezzogiorno o l'Ave Maria del mattino e della sera, si fa un
segno della croce sulla tazzina e si devono dire tanti "pater-ave-gloria" quanti
sono i «bìgoi». Le preghiere devono essere recitate sia dal «setimì» che
dall'ammalato o dai familiari. Finchè il bambino ha i vermi, i fili stanno a galla e
bisogna «spaternà» (pregare senza stancarsi) fino a quando non vanno a fondo.
Oltre a questo, al collo del bambino viene messa una «curùnô de spìghe de ài» (collana
di spicchi di aglio sbucciati) che devono essere, anche questi, in numero dispari.
L'aglio è un perfetto vermifugo. In quei giorni ai bambini è assolutamente vietato
mangiare cose dolci, uova, salumi, ecc..
Per segnare i vermi non è necessaria la presenza dell'ammalato: l'operazione è guidata
dall'intenzione e dalla mediazione del «setimì». Le persone che "segnano" i
vermi, pur essendo persone semplici e schive sono molto conosciute e godono della stima e
della riconoscenza della gente. |
Shìc ai zùegn,
shés ai vècc,
shèt ai s-cècc,
òt al còrp,
nöf al pòrc |
Cinque ai giovani, sei ai vecchi, sette
ai bambini, otto al corpo, nove al porco.
Sono le ore di sonno indispensabili. |
Sha l sà come sha
nàs,
ma sha l sà mìô
come sha mör |
Si sa come si nasce, ma non si sa come
si muore.
Sii prudente nello spendere i tuoi soldi, non si sa come va a finire. Ne potresti aver
bisogno in vecchiaia.
Non criticare gli altri, perché potrebbe capitare anche a te. |
Tós tushètô
ciàmô cashètô |
Tosse tossetta chiama cassetta.
Non trascurare tosse e raffreddore. Sono sintomo di irritazione delle vie respiratorie. La
cassetta è un modo gentile di dire bara. Per riderci sopra si dice: «La
tós l'è shànô, ma i pulmù g'è malàcc» (La tosse è sana, ma i polmoni
sono malati).
È ripetuto (vanamente) ai fumatori. |
Và a dórmer prèst
e lèô shö a bunùrô:
tôcc i dutùr
i narà n malùrô |
Và a dormire presto ed alzati a
buonora: tutti i dottori andranno in malora.
Andare e letto presto si dice «...nà a dórmer co le galìne» (andare a dormire con
le galline).
|