Giuseppe Zani
Pàrlô come t’à ’nsegnàt tò màder
Pubblicazione fuori commercio

 

 

I Shancc e 'l tép
(I Santi e il tempo: mesi, stagioni, metereologia)

Per San Vitàl, redécc de riàl.gif (27638 byte)
Disegno di Luca Ferrari

Per San Vitàl
redécc de riàl

 

A cupà i pülèc marsaröi
sha còpô la màmô
e pò a' i fiöi

Ad uccidere le pulci marzaiole si uccidono la mamma ed anche i figlioli.
Marzo è il periodo nel quale le pulci non hanno ancora depositato le uova.

A piantà le shöche
'n de ‘l més de Mars
le ‘é gròshe come ‘n tinàs,
a piantàle ‘n de ‘l més de Bril
le ‘è gròshe come ‘n barìl

A piantare le zucche nel mese di marzo vengono grosse come una tinozza, piantarle nel mese di aprile vengono grosse come un barile.
Aprile è il mese ideale. Se si dovessero piantare in marzo bisogna tenerle riparate sotto un cellophane, se no c'è il rischio che vadano a male.

A piantà ‘l ruaiòt de Zenér
ta fét en bel ruaér(*)

Piantando i piselli di gennaio fai un bel (*ruaér = Cespuglio di piante di «ruaiòt»).
Molti piantano questo ortaggio a cerchio e mettono al centro dei pali in modo che la pianta rampicante possa trovare un sostegno al quale aggrapparsi.

àrgiô breshànô,
l'àivô l'è mìô tat luntànô

Aria bresciana, l'acqua non è tanto lontana.
L'aria che viene da est porta pioggia. Spesso si sente dire «Sha shént la liturìnô, 'l ségnô 'l tép» (Si sente la littorina, segna il tempo).
La littorina è il treno della ex SNFT(*) passa anche a Corte Franca, ma solo sul territorio di Borgonato. Per gli abitanti di Timoline, Colombaro e Nigoline, non è proprio normale sentire il fischio di questo treno che collega Brescia e la Valle Camonica. Solo il vento da est lo può portare. Questo detto ha poco più di un secolo di vita perché la linea ferroviaria Brescia - Iseo venne inaugurata il 21 giugno 1885.
(*SNFT = Società Nazionale Ferrovie e Tramvie, detta «La Nasiunàl» (la Nazionale). Nell'interpretare la sigla SNFT, la fantasia ha suggerito molte simpatiche definizioni come le più famose: «Senza Nessuna Fretta Trasportiamo» e «Signorine Non Fatevi Toccare»)

A Pàsquô ‘l piöf
shö l’ulìô o shö l’öf

A Pasqua piove sull'ulivo o sull'uovo.
La tradizione dice che sicuramente pioverà, se non la domenica delle palme, sicuramente il giorno di Pasqua o il lunedì dell'Angelo. Era tradizione passare il secondo giorno di Pasqua in compagnia di amici in campagna o sul Monte Alto, meta preferita era Sant'Onofrio a Capriolo per mangiare «öf, salàm e redicì» (uova, salame e radicchio. La primavera ed il contatto con la natura prestano il destro ad ironie sul doppio senso che nasce da una rappresentazione fallica dell'insieme di queste cibarie.
La domenica delle palme, invece è tradizione benedire l'ulivo. Fino a pochi anni fa era facile vedere in questo giorno chi si recava alla funzione religiosa con molti rametti che sarebbero stati benedetti e poi messi almeno uno per stanza dietro il crocifisso. Qualcuno li argentava o dorava, altri ci mettevano le «culumbìne» fatte col «mòl» del fico selvatico.
A proposito dell'ulivo Gabriele rosa, (Dialetti, costumi e tradizioni nelle provincie di Bergamo e Brescia), dice: «I Fenici prima, indi i Greci, recavano ai popoli sparsi sulle coste occidentali del Mediterraneo tra l'altre cose olio d'olivo in cambio di bestiami, di pelli, e d'altri prodotti. Sbarcati, per mostrare che non erano pirati, ma che venivano con olio, mandavano avanti araldi mostranti un ramo d'ulivo. Però divenne rituale usare l'ulivo per simbolo di pace, e come talismano per addurre la pace, per calmare le ire. Quell'ordine di idee è rammentato dai nostri villici, che alle minacce di grandine escono a cielo scoperto, e fanno salire a Giove irato l'odore dell'ulivo benedetto nel dì delle Palme, abbruciandolo».

A Shan Benedèt
la rundinìnô l’è shótô ‘l tet

A San Benedetto la rondinella è sotto il tetto.
È il 21 marzo, le rondini accompagnano l'arrivo del primo giorno di primavera. Il loro gradito ritorno è considerato di ottimo auspicio. I contadini concedono solo a questi uccelli, che chiamano «rundinìnô», «rundù», «dàrder», il privilegio di poter usare la propria casa per costruirvi il nido. Erano considerate uccelli sacri, intoccabili come, tra i rettili, lo era il ramarro.

A Shan Biàs
sha benedés la gólô e ‘l nas

A San Biagio si benedice la gola e il naso.
È il 3 febbraio. San Biagio protegge naso e gola.

A Shan Faüstì
l'è a mèsh el finilì

A San Faustino è a mezzo il fienilino.
È arrivata a metà «la médô», la scorta di fieno, ma, sempre in questo giorno «...g'è a metà pa e 'ì» (...sono a metà pane e vino).

A Shan Faüstì
pìcö ‘l sul sö töcc i arzilì

A San Faustino picchia il sole su tutti i (*arzilì = canaletto di acqua che corre in una valletta).
Da S. Faustino (15 febbraio) il sole incomincia a fare una parabola più alta in cielo e riesce a mandare i suoi raggi anche nei punti più nascosti. Altre volte si sente dire «...en töcc i cantunsì» (...in tutti i cantoncini), oppure «...shö töcc i albarì» (...su tutti gli alberelli). Sta arrivando la bella stagione.

A Shan Giuàn,
a guià(*) i bò sha fa guadàgn

A San Giovanni a (*) i buoi si fa guadagno.
(*guià = pungolare, spingere, stimolare. «La gói», il pungolo, era un lungo bastone acuminato o con una punta di ferro che veniva usato per stimolare i buoi al lavoro)
È il tempo della mietitura del frumento e dell'aratura per il «quarantì» (quarantino). Il nome richiama una qualità di granoturco che matura in quaranta giorni, ma quella seminata in questo periodo maturerà in 90 - 100 giorni. Siamo al 24 giugno.

A Shan Lurèns
l'óô la sha tèns

A San Lorenzo l'uva si tinge.
È il 10 agosto e cominciano a farsi vedere i primi acini scuri, segno di imminente maturazione del grappolo.

A Shan Martì
el móst el deèntô 'ì

A San Martino il mosto diventa vino.
È l'11 novembre. La fermentazione è a buon punto.

A Shan Michél
la marèndô la ùlô ‘n cél

A San Michele la merenda vola in cielo
Le giornate si accorciano e la distanza tra l'ora del pranzo e quella della cena è meno lunga perciò si salta la merenda: è il 29 settembre.

A Shan Pàol cunvèrs...
el fa töcc i èrs

A San Paolo convertito... fa tutti i versi.
Nella giornata del 25 gennaio, giorno in cui si ricorda la conversione di S. Paolo, il tempo è estremamente variabile. Non deve far meraviglia se, nella stessa giornata, ci saranno sole, pioggia, neve o altro. Ne farà di tutti i colori.

A Shan Ròc
la nus la ‘é zó de ‘l bròc

A San Rocco la noce viene giù dal ramo.
Siamo al 16 agosto e dall'albero cominciano a cadere le prime noci.

A Shan Zórs
la spìgô ‘n de ‘l gós

A San Giorgio la spiga (è) nel gozzo.
Quando hai qualcosa da dire a qualcuno dici che ce l'hai sul gozzo; ebbene, il 23 aprile anche la spiga è pronta a manifestarsi.

A Shant’Agnés
la lüzèrtô la é fò de la shés

A Sant'Agnese la lucertola viene fuori dalla siepe.
Il tepore del primo sole di gennaio, siamo al 21, riscalda i muri e fa uscire le prime lucertole... ma non sono ancora arrivati i famosi tre giorni della merla!

A Shant’ànô
sha ‘mpignés la funtànô

A Sant'Anna si riempie la fontana.
Il 26 luglio è giorno piovoso. Sempre in questo giorno si sente dire: «A Shant’ànô madürô l’argiànô(*)» (A Sant'Anna matura (*l’argiànô = letteralmente: ariana. È l'uva bianca detta anche lugliana). A proposito di uva e di primizie si dice...

A Shan Giàcom gh'è i tirù(*) che a Shant'ànô g'è za bu

A San Giacomo ci sono i (*) che a Sant'Anna sono già buoni (*«tirù» sono detti i primi acini neri, ma non maturi, del grappolo).
Qui è espressa tutta la voglia di primizie: il 25 luglio si vedono i primi segnali dell'imminente maturazione ed il 26 luglio, maturi o non maturi, si assaggiano i primi acini di uva.

Shant’ànô
e Shàntô Shüzànô,
giönô che ma deshèdô
e l’ótrô che ma ciàmô

Sant'Anna e Santa Susanna, una che mi sveglia e l'altra che mi chiama.
È sempre S. Anna che, in abbinamento con Santa Susanna, è invocata la sera prima di addormentarsi quando si vuole essere sicuri di svegliarsi il mattino dopo ad un certo orario, soprattutto se anticipato rispetto al solito.

A Shant’ànô, i érs
i ga öl en piànô

A Sant'Anna le verza debbono essere nella piana (seminate).
È il periodo giusto per piantare le verza.

A Shàntô Terezìnô
sha ‘mpìô la candilìnô

A Santa Teresina si accende la candelina.
La sera viene sempre più presto: è il 15 ottobre, ma questo è anche il periodo della semina del frumento, infatti si dice: «A Shàntô Terézô sha ‘nsùlnô la distézô» (A Santa Teresa si semina la distesa).

A Shàntô Catirìnô
‘n stàlô ‘l bò e la achìnô

A Santa Caterina in stalla il bue e la vacchina.
Al 25 novembre ormai fa troppo freddo e le mucche non si portano più al pascolo; resteranno in stalla fino al ritorno della bella stagione.

A Shant’Andrèô
ciàpô ‘l pòrc per la bréô

A Sant'Andrea prendi il porco per la briglia.
La «bréô» (briglia) è un "indumento" del cavallo formato da due strisce di cuoio attaccate alle estremità del morso e serve per guidarlo. Anche se questo detto è molto usato, nessuno ricorda che qualcosa di simile venisse messo al maiale, ma per tutti il significato è chiaro: dal 30 novembre in poi è la stagione buona per uccidere il maiale.

A Shant’Antóne
‘n ùrô e ‘n cóne(*)

A Sant'Antonio un'ora e un (*cóne = cuneo o cono).
Al 17 gennaio le giornate si sono allungate di un'ora e un pezzo.

Shant'Antóne
de la bàrbô biàncô,
fam truà
chel che ma màncô

Sant'Antonio dalla barba bianca fammi trovare quel che mi manca.
È al Santo del 13 giugno che si chiede aiuto mentre si ripercorre la strada fatta alla ricerca di quel che si è perso e non si riesce a ritrovare. Fra i detti su Sant'Antonio c'è anche questo: «Shant'Antóne del campanèl... o che 'l piöf o che 'l fa bèl» (Sant'Antonio del campanello... o che piove o che fa bello) che però ha il solo scopo di mettere in rima la variabilità delle condizioni atmosferiche.

Shant’Antóne del föc
protetùr d'i animài

Sant'Antonio del fuoco protettore degli animali.
È il 17 gennaio. L'immagine di questo Santo era appesa alla porta di quasi tutte le stalle.
La benedizione delle bestie veniva fatta il 9 agosto, a «Shan Fìrem» (San Firmo). Si portavano le bestie sul sagrato della chiesa e con queste si faceva benedire anche del sale grosso da cucina che si sarebbe usato per le bestie ammalate o da sparso sul fieno.
«I "Cuminècc" (così sono chiamati i Parzani) i gh'ìô fat 'na diusiù a Shant’Antóne, prutetùr cùtrô i dizàstri del föc e chel dé lé i lauràô mìô, per ricurdàs che i gh'ìô brüzàt... La ma 'l dizìô la mé màmô(*)... che l'ìô amò pishènô lé! ...e la mé puòerô nónô l'ìô d'i "Cuminècc"...» (I Parzani avevano fatto una devozione a sant'Antonio, protettore contro i disastri del fuoco, e in quel giorno non lavoravano, per ricordarsi che avevano subito un incendio. Me lo diceva mia mamma (*Zani Teresa del 1888)... che era successo quando lei era ancora piccola... E la mia povera nonna era dei Parzani...).
La testimonianza è di mio padre, Zani Vittorio.

Bril el ga n’à trèntô,
ma she ‘l ga n’arès trèntü
‘l ga farès mal a nishü

Aprile ne ha trenta, ma se ne avesse trentuno non farebbe male a nessuno.
Sia la pioggia che il clima di questo mese sono ideali per le colture.

Cél en lànô,
o ‘l piöf èncö o ‘n setimànô
(...o che ‘l engànô)

Cielo in lana, o piove oggi o in settimana (...o che inganna) Quando in cielo ci sono le nuvole, il tempo... fa ciò che vuole. La meteorologia non è una scienza esatta.

Che bào!

«Bào» è la figura fantasiosa e terribile che nelle storie raccontate ai bambini, popolava le tenebre, l'oscurità. Il buio.
Si usa questo termine quando il cielo è oscurato dalle nubi cariche di pioggia.

Chi che öl en bu aiér
i la piànte de Zènér

Chi vuole un buon "agliaio" lo pianti a gennaio.

Chi che öl fa mörèr la muér
èl la mànde al sul de febrér

Chi vuol far morire la moglie la mandi al sole di febbraio.
A febbraio c'è il primo segnale di cambiamento della stagione. Il primo sole è traditore. Altrettanto chiaro è il seguente:

Chi che öl la bèlô galètô(*)
a Shan Zórs i l’àbe mètô

Chi vuole il bel bozzolo a San Giorgio abbia messo i piccoli bachi.
I piccoli bachi erano detti «fuméshô» (semenza) perché appena nati sono neri e più piccoli dei semi di «ladì» (trifoglio) ed entro S. Giorgio bisognava averli già messi.
Ecco a grandi linee come avveniva il ciclo.
Dalle «galète che nàô 'n barbèlô» (bozzoli bucati dall'uscita della farfalla "bombix mori") si prendevano le uova bianche e si conservavano per tutto l'anno su appositi fogli di carta; a San Giorgio (23 aprile) venivano messi vicino alle stufe per la schiusa, infatti si dice: «Per San Zórs le stüe per i caalér» (Per San Giorgio le stufe per i bachi da seta) ed entro Santa Croce, il 3 maggio, nascevano i piccoli bachi. Nella nostra zona si potevano acquistare dagli Anessi a Colombaro, nell'attuale Via Veneto, o da Ferlinghetti a Provaglio; venivano acquistati a «ónse» (once) e portati nelle «ca d'i caalér». Queste erano stanze grandi (spesso non erano altro che la cucina o le camere dei contadini) col fuoco sempre acceso per mantenere una temperatura costante di circa 18-20 gradi centigradi: un abbassamento della temperatura avrebbe fatto morire i bachi. Qui venivano disposti su tavole fatte da «canèi de làmô» (canne di torbiera) dette «arèle» (graticci) ai lati delle quali venivano messe delle sponde di assi. Le «arèle» erano disposte una sopra l'altra «a scalérô» (a scala, a castello) da 6 a 8 piani, il primo dei quali doveva essere alto da terra almeno un metro per evitare che i bachi prendessero freddo e morissero; ogni piano distanziava dall'altro circa 30-40 «ghèi» (centimetri). Si mettevano dei fogli di carta (tipo carta-paglia) per evitare che la «fuméshô» passasse tra «i canèi» e per 12-15 giorni «le fòe de mùr» (le foglie di gelso), di cui i bachi si nutrono, si tritavano molto sottili fino alla «prümô durmìdô» (prima dormita). Questa fase durava un paio di giorni nell'arco dei quali c'era molta cura nel pulire e "rifare il letto" dei bachi.
La "nurse" dei bachi da seta era «la bigatìnô» che aveva il compito di controllare la nascita e la prima fase della crescita dei bachi. Era in questa fase che avveniva la prima muta e, da allora in poi, il baco appariva bianco. Man mano che questi crescevano, la foglia di gelso veniva sempre meno sminuzzata e, nella fase finale, si dava addirittura l'intera «àmpulô» (ramoscello). Nell'arco dei 30-40 giorni del ciclo completo ci sarebbero state altre 3 dormite, l'ultima delle quali era più lunga delle altre (durava 3 giorni). Il detto: «Ta dórmet de la quàrtô» (dormi della quarta), che significa dormire alla grande, viene da qui.
Quando era giunta l'ora di fare il bozzolo il baco cercava un posto dove poter attaccare i fili di seta per iniziarne la costruzione usando ogni ramo o ogni altro appiglio che gli desse l'occasione di distaccarsi dal letto sul quale si era nutrito. Per favorire ciò i contadini mettevano i «fuaròcc» (rametti di rovere seccati all'ombra) oppure si facevano dei «Bughècc» (mazzetti di «àmpule» molto sottili) che venivano legati al letto in modo da formare un arco sul quale poi il baco sarebbe salito per fare il suo bozzolo. Dopo una decina di giorni «le galète» venivano raccolte e pulite e si controllava che non ci fossero «falòpe» (letteralmente "sbagli": erano i bozzoli incompleti, schiacciati o con altri difetti). Questi venivano tenuti dai contadini. Li avrebbero messi in bagno «a marsentà» (a marcire) fino a che fossero diventati malleabili al punto di riuscire a tirar fuori il «cagnù», cioè il baco morto. A questo punto la «baèlô» (bava) veniva usata per imbottire «prepónte e prepuntì» (trapunte e trapuntine) per il letto.
Gli altri venivano portati all'ammasso e quindi fatti passare negli appositi essiccatoi e da lì, dopo un'ulteriore cernita che serviva ad individuare i «dópe» (i bozzoli doppi sarebbero finiti in un'apposita filanda ad Ospitaletto), il bozzolo era pronto per affrontare il ciclo della filatura.
La bachicoltura era un'attività riservata alle donne. Nelle famiglie dove scarseggiava la manodopera femminile era facile trovare donne di Vigolo o di Zone che venivano a lavorare durante la «stagiù d'i caalér» (stagione dei bachi da seta).
Per farvi una cultura anche visiva sui modi di lavorare e sui mezzi di produzione, dovreste fare un giretto alla Madonna della Neve di Adro dove Padre Mansueto Girotto dal 1983 ha allestito un piccolo museo, un campionario che mostra tutti i passaggi dall'uovo fino ai pregiatissimi vestiti in seta. La sua passione verso questo mondo, mi diceva, è scattata quando qualcuno gli ricordò che il soprannome di sua madre era «la tesséra» (la tessitrice, in dialetto veneto). Quando si dice che basta poco a far nascere le imprese più impensate! Il suo museo è composto da macchine, attrezzi e oggetti che, tiene a sottolineare, ho avuto gratis da persone alle quali «...ho precisato che quello che mi stavano dando sarebbe stato "per niente e per sempre"».
Quando si dice «frà shercòt...» (frate questuante).

Chi ledàmô a Shan Martì
el coiónô ‘l sò vizì

Chi letama a S. Martino, cogliona il suo vicino.
Il letame tiene caldo il terreno e deve essere messo prima che sopraggiunga il gelo che potrebbe bloccare o ritardare la nascita del frumento. I nomi delle qualità di frumento più diffuse qui da noi in questo secolo: Mentana, Barbô, Ros gentile, Villa Gloria, Damiano.

Chi che pùdô a Shan Martì
‘l guadégnô pa e 'ì

Chi pota a S. Martino guadagna pane e vino.
Non si intende esattamente il giorno 11 novembre, ma il periodo, la cosiddetta «‘stazölô» ("estaticella"), ossia i giorni caldi che solitamente cadono intorno a questa data.

Dopo Shan Martì
l’èrbô l’è per el bushì(*)

Dopo San Martino l'erba è per il (*«bós» o «beshòt» = ariete, montone, maschio della pecora e «bushì», in questo caso significa il giovane ovino, la pecorella).
Ormai, non si portano più le mucche al pascolo, ma in questo periodo è facile vedere nei campi i pastori coi loro greggi.

Per i Shàncc
sha istés sö i grancc,
per San Martì,
grancc e pishinì

Per i Santi si vestono i grandi, per San Martino grandi e piccolini.
Dal primo, Ognissanti, all'11 di novembre, San Martino, la temperatura si riduce abbastanza sensibilmente e in poco tempo tutti devono essere coperti per affrontare la stagione fredda che è alle porte.

I Shàncc i cumìnciô ‘l més
e Shant’Andrèô ‘l la finés

(Tutti) i Santi cominciano il mese e Sant'Andrea lo finisce.
È novembre.

Chi piàntô de Bril
strèpô de Màgio

Chi pianta di aprile strappa di maggio.
L'acqua ed il tepore di aprile sono ideali per una maturazione veloce dei prodotti dell'orto.

Du ga ó
e giü ‘l permüdaró;
biancô ta shét,
négrô ta dientarét

Due li ho e uno lo permuterò; bianca sei, nera diventerai.
Il 30 e il 31 gennaio e il 1° febbraio sono i cosiddetti "giorni della merla", cioè i tre giorni più freddi dell'anno. Questo detto raccoglie la frase centrale della storiella che raccontavano i nostri vecchi per spiegare come il merlo da bianco sia diventato nero quando, per difendersi dal freddo che pensava fosse finito con la fine di gennaio, si è dovuto rifugiare con i piccoli, il primo febbraio, nella cappa del camino.

el s'è ‘nquaciàt zó

Si è accosciato.
È la posizione di quando si fanno i proprio bisogni. Stando «‘nquaciàt zó» può succedere di «‘nfurmigàs le gàmbe» (informicarsi le gambe) e «‘nfurmigàt» descrive la sensazione di chi ha l'arto anchilosato.
Applicato alla situazione meteorologica significa che non si intravedono cambiamenti a breve: la pioggia continuerà (il cielo è basso, sembra seduto).

el sul de febrér
el mèt l’òm en de ‘l carnér(*)

Il sole di febbraio mette l'uomo nel (*carnér = il carniere è una rete che serve ai cacciatori per contenere la cacciagione).

el vét
el mör mìô de shét

Il vento non muore di sete.
Il vento forte porta acqua.

Febrér l’è cürt,
ma l’è pès de ‘n türc

Febbraio è corto, ma è peggio di un turco.

Gh'è la shés bàshô:
dumà 'l piöf

C'è la siepe bassa: domani piove.
"La siepe bassa": così sono definite le nuvole che si vedono basse all'orizzonte sud mentre il resto del cielo è limpido.
È il segnale che, sicuramente, domani pioverà.

Gh'è le spiaröle(*)

(*Spiarölô = feritoia, spioncino).
In questo caso la «spiarölô» è la pozzanghera d'acqua piovana che rimane nonostante il terreno intorno sia asciutto: la sua presenza è una spia, un segno che sembra dire: «pioverà ancora».

Gh'è sha la èciô Shàlvô

C'è qua la vecchia Shàlvô (o Shàlvi).
Così si dice quando la cima del nostro Monte Alto è avvolta dalla nebbia o dalle nubi bianche che si addensano nei periodi di pioggia intensa primaverile o autunnale. Sull'originale modo di dire ci sono un paio di versioni.
Una parla di una vecchia signora minacciosa verso la quale si nutriva un timore riverenziale per il potere che credevano esercitasse sugli elementi naturali. Quando la pioggia era imminente la «èciô Shàlvi» saliva sul monte. Si attribuiva quindi a lei la pioggia che sarebbe caduta poco dopo. Un'altra dice che il nome «Shàlvô» non sarebbe che la contrazione di «Shàlve Regìnô» soprannome che, suo malgrado, era stato dato ad una signora di Clusane molto alta di statura (più alta ancora di «ànemô lóngô» (Anima lunga) di Clusane il cui soprannome spiegava inequivocabilmente quale fosse la sua statura). I suoi capelli bianchi e la sua statura sono stati associati nell'immaginario collettivo al Monte Alto coperto di nuvole. In famiglia erano tutti alti. Il figlio Giovanni Pellizzari era pressoché sconosciuto a Clusane, ma bastava chiedere di «Shàlve Regìnô» e tutti ti sapevano indicare dove trovarlo.
Don Pierino ferrari nel suo libro "I dodici di Clusane", lo descrive come «...cacciatore coi fiocchi, nato col fucile in ispalla» ma, a proposito della sua altezza, dice: «...data la sua interminabile statura, hanno pensato di chiamarlo con quella preghiera Mariana che ha, pur nella sua carica di emozionante invocazione, una rispettabile lunghezza».

Gh'è zèlàt a' 'n àzen

È gelato anche un asino.
Si usa per prendere in giro chi si lamenta dicendo di avere tanto freddo... «che si gela!». Quando fa veramente freddo diciamo di essere «'nzechìcc» (intirizziti, raggrinziti).

Gnè ‘l fret gnè ‘l calt
èl g'à a màiô mìô ‘l luf

Né il freddo né il caldo non li mangia il lupo.
Non illuderti! Il freddo o il caldo arriveranno.

La néf de febrér
la ‘mpignés el granér

La neve di febbraio riempie il granaio.
È ancora buona per la campagna.

La néf dizimbrìnô
per tré més la cunfìnô

La neve dicembrina per tre mesi confina.
La stagione fredda mantiene la neve per molto tempo, impedendo il lavoro in campagna. In questa stagione si stava in casa. La stalla, col suo tepore, era «...il salotto dei poveri: odor di fieno e di paglia, di sterco e di latte; muggiti, ragli; interminabili partite a tombola, a oca, a carte; storie di spiriti; racconti di tradizioni antiche e di favole. Le donne sferruzzavano; gli uomini impagliavano sedie o costruivano cestelli di vimini; i ragazzi facevano i loro compiti o giocavano disturbando ora gli uni ora gli altri.» (Don Pierino ferrari, "I dodici di Clusane").

La néf marsulìnô
la dürô
de la shérô a la matìnô

La neve marzolina dura dalla sera alla mattina.
Durerà poco perché la stagione non è più molto fredda. Infatti si dice anche: «L’öltemô néf la làshô mai el giàs» (L'ultima neve non lascia mai il ghiaccio).

La prümô àivô de óst
la rinfrèscô ‘l bósc

La prima acqua di agosto rinfresca il bosco.
Se piove in agosto subito si avverte una sensibile diminuzione della temperatura. Ci si avvia verso la fine dell'estate.

La màmô de shan Piéro
la fa bügàdô

La mamma di San Pietro fa il bucato.
Si dice soprattutto in estate quando, durante un temporale, piove e contemporaneamente c'è il sole. Altro modo di dire che rappresenta l'apparente contraddizione della situazione è: «Le sha pètinô le stròleghe» (Si pettinano le zingare). Le zingare hanno poca cura del loro aspetto esteriore e quando succede è una cosa memorabile.
La leggenda dice che la mamma di San Pietro fosse cattiva ed avesse compiuto una sola opera buona durante tutta la sua vita. Per questo il 29 giugno le era permesso di uscire dall'inferno. Il temporale che ogni anno, secondo la tradizione, viene il giorno di San Pietro, sarebbe il riscontro di questa "libera uscita".
I nostri contadini scongiuravano i temporali incrociando sull'aia falci e bastoni e bruciando rami di ulivo benedetto il giorno delle palme. Se il temporale era molto brutto interveniva anche il prete con l'acqua santa. Se fosse poi iniziato a tempestare, ad ogni lampo si faceva il segno della croce e si iniziava a recitare le litanie. Per tranquillizzare i bambini impauriti dai tuoni si diceva che gli Angeli «...i la fa a bóce» (giocavano a bocce).

(Le ràne) Lé càntô:
«A let, a let,
shènsô scàldô-let»

(Le rane) Cantano: «A letto, a letto, senza scaldaletto».
Siamo a fine aprile, primi di maggio.
Questo detto riproduce in qualche modo il suono onomatopeico del canto delle rane. La "dotta" traduzione dice che è giunto il bel tempo, perciò si va a letto senza scaldaletto. In inverno, molti scaldavano il letto con «mònegô è scaldìnô». La «scaldìnô» (scaldina) era un piccolo braciere senza coperchio che veniva messo nella «mònegô» (monaca), cioè quell'arnese di legno che serve a tener alzate le coperte impedendo il contatto con le braci e permettendo contemporaneamente il crearsi, nel letto di una camera d'aria calda. Lo scaldaletto, invece (qualcuno lo chiama «la scaldalìnô»), era un braciere di rame delle dimensioni di una pentola, chiuso da un coperchio forato, che veniva passato sulle lenzuola prima di andare a dormire.
Oggi le rane si sentono meno di una volta perché molti fossi non ci sono più, ma dalle nostre parti, prestando attenzione, sul far della sera si può ancora sentire il loro concerto con tanto di previsione del tempo. Le rane venivano cacciate, per essere mangiate, col «Furù» (una specie di fiocina con molte punte in un diametro di pochi centimetri). Solo quelle marron e verdi maculate sono buone da mangiare. Quelle più rossicce sono «i campér» (rane campagnole) mentre quelle verdissime e piccole, che cantano sulle piante, sono le «Ràne Shan Martìne». Queste ultime sono più piccole e si lasciano facilmente catturare, ma... bisognava far attenzione perché si diceva che, se questa rana urinava sulle mani di un bambino, questi sarebbe rimasto piccolo. Si credeva infatti che la sua urina contenesse una sostanza che bloccava lo sviluppo e la crescita.

L’epifanìô
töte lé fèste i-a pórtô vìô

L'Epifania tutte le feste le porta via.
Con l'arrivo dei Re Magi, il 6 gennaio, si concludono le feste di Natale.
Ai bambini si diceva che la notte precedente l'Epifania bisognava andare a dormire presto per non sentir parlare i buoi.
Per incutere più paura di quanta già ne avessero si raccontava loro la storia di quel tale che, per mostrarsi coraggioso, si fermò in stalla, quella sera, dicendo che era impossibile, che i buoi parlassero. Allo scoccare della mezzanotte sentì il primo bue chiedere all'altro: «Dove devi andare domani?». Con il cuore in gola e pensò ad uno scherzo, ma sentì l'altro rispondere: «A prendere un carro di legna». Mentre è bloccato dallo spavento, sentì il primo continuare: «A cosa serve quel carro di legna?». A questo punto cominciò a tremare e a cercare la porta della stalla per fuggire, ma non potè evitare di sentire: «Per fare la cassa da morto per il mio padrone!». Terrorizzato riuscì a fuggire senza sapere dove stesse andando e si perse. Quando lo trovarono il giorno dopo pareva invecchiato di molti anni perché i capelli gli erano improvvisamente diventati bianchi.

Le mósche le pìô:
el càmbiô ‘l tép

Le mosche pungono: cambia il tempo.
Quando le mosche sono molto fastidiose ed insistenti è certo che il tempo cambierà.

Lünô ‘n sércol,
cül en mìshô

La luna in un cerchio, culo in bagna.
La luna circondata da un alone luminoso annuncia l'arrivo della pioggia per il giorno dopo. Ma in inverno si dice:

Quan' che la lünô
la fa la curùnô,
la néf la sha 'nmuntùnô

Quando la luna fa la corona, la neve si ammucchia.
Ci sarà un'abbondante nevicata.

Mas
'mpignés el tinàs(*)

Maggio riempie il (*tinàs = grosso tino da 10 o 15 quintali).
In questo mese fiorisce la vite.
Nella primavera della vita si mettono le basi per l'età adulta.

L’àivô cucalérô(*)
la dürô ‘n fìnô a shérô

L'acqua (*) dura fino a sera.
(*Cucalérô. Le bolle d'aria che si formano quando piove forte sul bagnato sono chiamate «bucàle» o «cucàle» o «cucài» e l'effetto «Cucalérô» significa che fa le «cucàle». A puro titolo di curiosità, «cucàle» significa anche prender botte).
Quando piove così non si tratta di un temporale passeggero, ma è un segnale che vi è molta acqua in serbo ancora.

L’àivô de Bril
la ‘mpignés el barìl

L'acqua di aprile riempie il barile.
Aprile è il mese della pioggia.

L’öltèm dé de carneàl
töcc i còpô ‘n animàl,
o gròs o picinì,
o shalàm o cudighì

L'ultimo giorno di carnevale tutti uccidono un animale, o grosso o piccolino, o salame o cotechino.
Il carnevale, giorno di divertimento, era festeggiato anche a tavola. I dolci preparati per «i màscher» erano frittelle e «chishöl» o «bushulà». Quest'ultimo non si fa praticamente più, ma si usava fare così: farina bianca, più farina gialla, zucchero e limone e un po' di strutto di maiale; si spostavano le braci in un angolo del focolare e nella «burnìs» (cenere) calda, ossia «la màder del föc» (la madre del fuoco) si metteva l'impasto avvolto in carta da zucchero e si ricopriva. Qualche volta la carta bruciava e l'impasto si sporcava di cenere.

Mà shèche e mal de cài:
l’àivô la màncô mai

Mani secche e mal di calli: l'acqua non manca mai.
Segnali certi di pioggia in arrivo.

Madónô candelórô:
de l’invéren en s'è förô
Mars de óre(*)
Bril de póre

Madonna candelora: dall'inverno siamo fuori.
È il 2 febbraio.
Marzo (*) aprile di paure (*de óre = termine generico che significa ventoso).
Se marzo è ventoso, è probabile che aprile sia burrascoso (temporale o tempesta).
La distinzione tra i venti però è più precisa: «el vét» soffia da Nord a Sud fino a metà mattina; «l'órô» è il vento che soffia in senso inverso fino a metà del pomeriggio. Quando l'aria soffia da Sarnico cioè da Ovest-Sud/Ovest verso Est-Nord/Est è chiamato «el vét a treèrs», portatore di maltempo; sul lago è ben visibile: provoca un'increspatura dell'acqua tale da far pensare che si sia invertito il flusso dell'acqua.
Ma l'osservazione del moto dei venti fa dire anche: «Shè l’àrgiô la shópiô ‘n sö förô uràre, la ‘mbràtô» (Se l'aria soffia in su fuori orario, imbratta).

Mars marsènt(*)
tàtô pàiô e póc furmènt

Marzo (*) tanta paglia e poco frumento.
(*marsènt = Molto marcio. La particella «ènt» che diventa un tutt'uno con la parola ripetuta diventa un rafforzativo della stessa (ad esempio «mórt murtènt» per "morto stecchito").
«Mars» significa sia marzo che marcio. Sfruttando il doppio significato si fa capire che quando marzo è molto piovoso, da marcire nell'acqua, il raccolto sarà scarso perché questo è il periodo nel quale il frumento si predispone a mettere la spiga e «el patés» (patisce, soffre). Per completare l'informazione c'è anche...

Mars pulverét,
pócô pàiô e tat furmét

Marzo polveroso, poca paglia e tanto frumento.
È la stagione ideale.

Mars söt e bril bagnàt,
beàt chel cuntadì
che ‘l gh'à ‘nsurnàt

Marzo asciutto e aprile bagnato, beato quel contadino che ha seminato.

‘n de ‘l més de mars
g'è bu töcc i erbàs

Nel mese di marzo sono buoni tutti i tipi di erba.
Tutte le erbette sono novelle e tenere, buone per essere colte e mangiate.


‘n de ‘l més de bril
ògne góshô l’è ‘n barìl

Nel mese di aprile ogni goccia è un barile.
Pioggia abbondante.

‘n de ‘l més de bril
tàcô a' ‘l mànec del badìl

Nel mese di aprile attecchisce anche il manico del badile.
È il periodo giusto per piantare o innestare le piante: se lo conficchi nel terreno, qualsiasi pezzo di legno mette le radici.

‘n de ‘l més de óst
la marèndô
l’è ‘n de ‘l bós-c

Nel mese di agosto la merenda è nel bosco.
Non occorre prenderne da casa: nel bosco e nei campi puoi trovare frutta a volontà per far merenda.

‘n de ‘l més de óst,
'n de 'l nà zó 'l sul l'è a fós-c

Nel mese di agosto, nel tramontare il sole è già fosco.
Dopo il tramonto è subito buio.

Nèbiô bàshô
come la tróô la làshô

Nebbia bassa come trova lascia.
La nebbia non varia le condizioni del tempo.

Nedàl al föc,
Pàsquô al zöc

Natale al fuoco, Pasqua al gioco.
A Natale c'è freddo, a Pasqua si può star fuori.

òiô o mìô òiô
a Shan Marc gh'è la fòiô

Voglia o mica voglia a San Marco c'è la foglia.
In ogni caso, al 25 aprile, i rami saranno frondosi. Tagliare i rami del gelso per il baco da seta si diceva «nà a fa la fòiô».

Pa, 'ì e shòche(*):
she ‘l völ fiucà...
che ‘l fiòche!

Pane vino e (*): se vuol nevicare (lascia) che nevichi!
(*shòche: grossi ceppi di legna secca da ardere).
In casa non mi manca niente, fuori... faccia un po' come vuole...

Pàsquô nó gh'è
she lünô piénô de Mars nó l’è

Pasqua non c'è se luna piena di marzo non è.
Come si fa a stabilire in che giorno dell'anno viene Pasqua? Il meccanismo di calcolo ha come base la luna piena di marzo.
Pasqua, oltre ai riti religiosi, era vissuta anche attraverso atteggiamenti preparatori come ad esempio:
1) Per i contadini il Venerdì Santo e il giorno dei morti erano giorni di assoluto rispetto e, per lavorare, non usavano gli animali: in quel giorno dovevano riposare anche loro. Se il venerdì era giorno di magro, quello della settimana santa lo era per eccellenza con l'aggiunta del digiuno;
2) Le uova raccolte in questo giorno, che si diceva avessero la proprietà di non far cadere le persone dalle piante e dovevano essere bevute la domenica di Pasqua, mentre raccolte durante la Settimana Santa venivano conservate per il secondo giorno di pasqua e fatte colorare dai bambini;
3) I pescatori di Clusane, dopo aver aperto la testa del luccio, con le sue parti erano capaci di costruire la scritta INRI, una croce, una scala e una corona di spine;
4) Al Sabato Santo, si usava benedire i quattro angoli di ogni stanza, ed ogni altro posto ritenuto pericoloso, e il materasso per immunizzarlo dall'infestazione delle «shümèghe» (cimici); l'acqua Santa rimasta si versava nell'aia segnando una croce per scongiurare il maligno;
5) Al "Gloria", mentre le campane suonavano a distesa, la gente si lavava gli occhi con l'acqua Santa o, in mancanza di questa, con acqua corrente (reminiscenza di antichi riti purificatori) e buttava sassi alle ortiche per preservarsi dai morsi dei serpenti.
Dopo la funzione del Sabato Santo si tornava a casa con una bottiglia di acqua benedetta e con un pezzo di legno o qualche brace del falò acceso sul sagrato della chiesa da usare per «el sòc de Nedàl» (il ceppo di Natale).

Per S. Vitàl
redécc de riàl(*)

Per S. Vitale radicchio di (*riàl = striscia di terreno non coltivato che si trova, al margine del campo ed era usato come passaggio e per farvi pascolare le mucche).
A Borgonato, il 28 aprile è festa del patrono ed era tradizione che i Borgonatesi festeggiassero quel giorno invitando a pranzo i parenti. Tra le cose preparate per l'ospite, sulla tavola c'era anche il radicchio. Il detto, indica il periodo buono per la sua raccolta e lo fissa in un giorno che, anche nei paesi vicini, era difficile dimenticare. La sagra di paese era occasione per un ballo o "una balla" straordinaria. Non mancavano gli attaccabrighe che, per far arrabbiare i borgonatesi, arrivavano con qualche foglia di radicchio nella «rédô» (nastro) del cappello. Anche se non ho capito il perché, quest'atteggiamento era ritenuto offensivo e provocava facilmente delle risse, esattamente come succedeva, ad esempio, mostrando un «böt de ài» (germoglio di aglio) durante la festa di S. Faustino a Chiari o a Torbiato.

Pórtô i Us-ciöi(*)
a la rugasiù de Shan Marc

Porta gli (*) alla rogazione di San Marco.
(*us-ciöi = uscioli della botte, la porticina anteriore).
In questo giorno era tradizione partecipare alla processione di San Marco che si faceva per le vie del paese, ma nessuno ricorda di aver visto qualcuno andarci con quella parte della botte. Probabilmente era un rito più antico di cui ai nostri vecchi è rimasto solo il modo di dire e la preghiera «...che la purtàô bé, per mìô fa nà 'n malùrô 'l vì» (...che portava bene per non far andare in malora il vino).

Primaérô tardìdô
l’è mai falìdô

Primavera tardiva non è mai fallita.
È benefica anche quando è in ritardo.

Quan’ che Bril l’è fret,
sperà póc ashé
tacàt al palèt

Quando aprile è freddo, c'è poco da sperare (per quello che rimarrà) attaccato al paletto.
Si dice "attaccato al paletto" perché i filari sono sostenuti da pali di legno. Se dovesse brinare in aprile sarebbe molto dannoso per la vite perché gelerebbero sul nascere «i böcc» (gemme, germogli). Insieme a questo detto si sente parlare del temuto «velöm», una nebbia notturna «gheàrdô» (forte, gagliarda) che fa ammalare le foglie dell'erba e del frumento. Si dice che «el strìnô le fòe» (bruciacchia le foglie) perché, toccandole, restano le mani nere.

Quan’ che bàlô la èciô,
dàghen ‘na shéciô

Quando balla la vecchia, dagliene una secchia.
È l'effetto visivo di quando, nei periodi di calura, vedi ballare le immagini all'orizzonte: la terra ha sete.
È detta «la èciô» un'immagine instabile, che balla, come ad esempio quella del sole riflesso dall'acqua di un recipiente e rappresenta lo spirito della strega sempre in agguato in ogni specchio d'acqua. Fino a S. Pietro, 29 giugno, ad esempio, andare a fare il bagno nel lago d'Iseo era pericoloso perché: «La èciô Madalénô la ta tìrô zó» (la vecchia Maddalena ti tira giù). «La èciô» era lo spauracchio anche per i bambini che si avvicinavano al pozzo: se si fossero sporti troppo, la vecchia li avrebbe tirati giù.
A far paura non era solo la «èciô» del pozzo. Nei campi, ad esempio, oltre ai serpenti si aveva timore del «Ràspero sórgo», un animale che nessuno sa descrivere, ma si dice che avesse una testa di rospo grossa come quella di un bambino.
Della paura dei fantasmi, poi, erano pieni i racconti fatti nelle stalle. Il povero «Fùsco» (Fausto Baroni) di Timoline diceva che una notte li avevano sentiti sul solaio del castello di Timoline, dove c'era il frumento, mentre contavano «le quàrte» ("la quarta" è un'unità di misura, un recipiente di metallo con un barra trasversale) «giönô, dói, trèi, quàter...» (una, due, tre, quattro...), ma nessuno aveva avuto il coraggio di andare a vedere perché si sapeva che erano dispettosi. Al sorgere del sole, dopo una notte insonne trascorsa ad ascoltare questa rumorosa presenza, presero il coraggio di andare a vedere ciò che era successo e non gli rimase che constatare che, effettivamente, avevano spostato «la médô» (il mucchio) dall'altra parte del solaio.
A proposito di vecchia... «Brüzóm la èciô!» si diceva a metà quaresima. Con il rogo delle ramaglie della potatura i contadini si lasciavano alle spalle la vecchia stagione (inverno), ma la storia di questa tradizione affonda le sue radici in un passato più remoto.

Quan’ che càntô la ranèlô
sha ‘mpignés la funtanèlô

Quando canta la raganella si riempie la fontanella.
I vecchi dicono che col loro gracidare «le ciàmô àivô» (chiamano acqua).

Quan’ che la ocór,
'na piüìdô la ‘al tat ór

Quando occorre, una piovuta vale tanto oro.
Spesso sprechiamo l'acqua e comprendiamo il suo valore solo quando comincia a scarseggiare.

Quan’ che le galìne
le cor al tet,
e che ‘l piöf e che ‘l fa fret

Quando le galline corrono al tetto, o che piove o che fa freddo.
Tra gli animali domestici le galline ed i tacchini sono i primi a segnalare i cambiamenti di tempo.
Quando sono più quiete del solito (fine febbraio - primi di marzo) e fanno quel tipico verso «Clò-clò», delle galline si dice che «le sclòshô» o «le sclushégnô» (chiocciano) e questo è il segnale che devono covare. Alcune nonne indossavano un cappello maschile mentre aggiungevano uova da covare perché pensavano che così sarebbero nati molti più galli che poi sarebbero diventati capponi. Dopo una settimana di cova, per vedere se erano gallati o no, «i-a spiràô» cioè venivano guardati in controluce «de spüs a l’ös» (da dietro l’uscio) o frapponendo tra la mano e l’uovo la luce di una candela. Se il contenuto «el calàô zó» (era diminuito) significava che l’uovo era gallato, se no doveva essere scartato perché era un «gnal» (uovo marcio). Questo avveniva per la cova non solo delle galline, ma anche «de le póle e dei nedròcc möcc» (tacchini e anatre). Un altro gesto scaramantico per indurre le galline alla cova era quello di dire ai bambini, ai primi tuoni dell’anno: «S-cècc, tirì shö i balòcc söi cóp che isé le sta shö a cuà!» (ragazzi, lanciate i sassi sul tetto così stanno su a covare!) ...e così si finiva per intasare gronde e canali.

Quan’ che ‘l fiòcô shö la fòiô
la 'n càô la òiô(*)

Quando nevica sulla foglia ne cava la voglia.
Se nevica presto, quando le foglie non sono ancora cadute dalle piante, è probabile che la neve resti per molto tempo perché l'inverno, con la sua temperatura, la conserverà a lungo, anzi ne aggiungerà dell'altra.

Quan’ che ‘l gal el càntô
de strezùrô,
she l’è shèré ‘l sa ‘n nigùlô

Quando il gallo canta fuori orario, se è sereno si annuvola.
Normalmente, il gallo canta al mattino; se dovesse cantare in altri momenti della giornata segnala il cambiamento del tempo.

Quan’ che ‘l mut
el gh'à ‘l capèl,
e che ‘l piöf e che ‘l fa bel

Quando il monte ha il cappello, o piove o fa bello.
Il tempo fa quello che vuole. Le nuvole che fanno da cappello al monte sono segno di tempo variabile.

Quan’ che ‘l sul
el tùrnô ‘ndré,
el dé che 'é
l’è ‘n bel dé

Quando il sole torna indietro, il giorno che viene è un bel giorno
Si dice che il sole torna indietro quando ricompare dopo un temporale pomeridiano o serale. Questo segnalerebbe bel tempo per il giorno dopo, ma la cosa è controversa perché qualcuno dice «...el fa chel che 'l n'à òiô el dé che 'é» (fa quel che ne ha voglia il dì che viene).

Quan’ che ‘l tempuràl
l’è bèrgamàsc,
o che l’è 'ènt
o che g'è shas

Quando il temporale è bergamasco, o è vento o sono sassi.
Il temporale che viene da Ovest porta grande vento o tempesta: è la temibile «Sharneghérô» (Sarnico è ad Ovest rispetto a noi). Altro modo di dire con lo stesso significato è «Gh'è sha chei de Gandòs: o che l'è 'ènt e che g'è òs» (sono qui quelli di Gandosso (BG): o che è vento o che sono ossi). Gli "ossi" (scheletri) rappresentano molto bene le piante senza foglie e le viti spoglie dopo la tempesta. Dei contadini e del raccolto toccati da questa disgrazia si dice che «I ga n'à ciapàt 'na gratàdô...» (ne hanno preso una grattata...).
I contadini usavano "affrontare" il temporale in vari modi: qualcuno andava sull'aia ad incrociare due bastoni, altri bruciavano alcuni rami di ulivo benedetto; le donne recitavano litanie e giaculatorie con l'invocazione «libera nos Domine!» e il «Gesù mio misericordia!» dopo ogni lampo.
Quando si parla di tempesta spesso si sente raccontare che il Sagrestano di Cremignane, detto «Caagnöl», in mancanza del prete, prendeva «el Signùr» dal tabernacolo per "benedire la tempesta" e farla cadere tutta sul sagrato della chiesa. Si dice che fosse uno «striù» (stregone) e, a conferma di questa tesi si raccontano tanti altri episodi oltre ai due che seguono:
- i «Salìne» (Ferrari di Cremignane) quell'anno avevano deciso di rivolgersi ad un altro «mashadùr» (norcino), ma il «peröl» (paiolo) con l'acqua per pelare il maiale non bolliva mai. Solo quando si sono rivolti al povero «Caagnöl», l'acqua ha cominciato a bollire;
- ad un contadino di Clusane che era passato sul suo terreno senza chiedergli il permesso si è azzoppato il cavallo ed ha continuato a zoppicare fino a quando qual contadino non è andato a chiedergli scusa.

Quan’ che ‘l fiòcô
shö la spìgô
sha ‘n fa póc o mìgô

Quando nevica sulla spiga se ne fa poco o niente.
Quando nevica tardi, è vero che durerà poco, ma può fermare lo sviluppo della spiga in un momento molto delicato.

Shan Bas-cià
co la viölô ‘n mà

San Sebastiano con la viola in mano.
Questo proverbio ante-Gregoriano dice che al 20 gennaio è già il tempo delle viole.

Shan Faüstì
öltem mercànt de néf

San Faustino ultimo mercante di neve.
Sono molti i mercanti di neve, ad esempio si dice: «Shan Màuro mercànt de néf» (15 gennaio). Ora siamo al 15 febbraio e questa sarebbe l'ultima occasione per un'abbondante nevicata.

Shan Giuàn
de la camamèlô

San Giovanni della camomilla.
Il 24 giugno è il giorno in cui si deve raccogliere il fiore della camomilla che poi verrà fatto essiccare all'ombra e messo in vasi, pronto per essere usato tutto l'anno. Se ne faranno tisane calmanti, «perföm» (suffumigi) o clisteri.
Alla "Niggeler & Küpfer" di Capriolo, in questo giorno, alle donne si concedeva mezza giornata libera per poter raccogliere la camomilla di cui i prati vicini alla fabbrica erano pieni.

Shan Martì èscof,
Shan Martì pàpô,
Shan Martì scàpô!

San Martino vescovo, San Martino papa, San Martino scappa!
Già a settembre il nuovo affittuario cominciava a portare le sue bestie nella stalla e per lui dovevano essere liberate almeno una o due «ca» (stanze). Il giorno di San Martino, 11 novembre, era il giorno fissato per la scadenza del contratto d'affitto. Qualora non fosse stato rinnovato, da questo giorno si avevano altri due giorni di tempo per lasciare libera la casa o il terreno: S. Martino vescovo è il giorno di scadenza; S. Martino papa «...ti lascio un giorno di agio»; S. Martino scappa «...devi aver sgomberato tutto».
Alcuni vecchi hanno sentito i loro genitori raccontare di come, in questo giorno, anche i gruppi familiari che abitavano in affitto o a mezzadria in un certo posto da cento anni, pur non dovevano traslocare, avessero l'obbligo di caricare la loro roba sul carro, fare un giro prima di ritornare a prenderne possesso (per evitare il rischio dell'usucapione?).
Anche oggi «Fa Shan Martì» significa traslocare, ma «el scòmio» (così era detta la disdetta del contratto d'affitto) non è più così facile da attuare.

Shan Màuro
de le bilìne(*)

San Mauro delle (*bilìne = castagne secche, sbucciate).
Era tradizione mangiarle, non importa se crude o cotte, per devozione contro il mal di denti. È il 15 gennaio.

Shan Vincèns
de la gran fredürö,
Shan Lurèns
de la gran calürô
Shan Tumàs
el ga pìcô ‘l nas

San Vincenzo della gran freddura, San Lorenzo della gran calura.
Se rilevassimo le temperature, secondo questo detto, registreremmo la punta estrema del freddo il 22 gennaio e quella del caldo il 10 agosto.
San Tommaso vi picchia il naso.
Sul calendario troviamo San Tommaso il 3 luglio. È famosa la sua incredulità sulla Resurrezione al punto che, per credere, volle mettere personalmente le dita nei buchi dei chiodi e la mano nel costato del Cristo risorto.
Si dice rivolgendosi con tono di ripicca a chi non ha voluto crederci e sta per: «Hai visto? ...Te l'avevo detto!»

She i mórcc
i rìö coi pè shöcc
i va vià coi pè bagnàcc,
she i rìô coi pè bagnàcc
i va vià coi pè shöcc

Se i morti arrivano con i piedi asciutti vanno via coi piedi bagnati, se arrivano con i piedi bagnati vanno via coi piedi asciutti.
Questa giornata, il 2 novembre, segnerebbe il cambiamento delle condizioni meteorologiche.

She le róndini
le sha ‘nròshô(*)
gh'è shefóc,
she le ùlô bàshe
le ciàmô àivô

Se le rondini si mettono in stormo è afoso, se volano basse chiamano acqua.
L'osservazione del volo delle rondini rivela afa quando volano alte, in stormo e «le fa 'l turnèl» (girano in tondo), ma segnala pioggia in arrivo quando volano raso terra o battono il petto sull'acqua. La rondine è un animale utile perché si nutre di insetti ed i nostri vecchi lo ritenevano sacro alla Madonna come pure erano protetti «i lüzertù» (i ramarri).

She ‘l béf, el gat
el ciàmô àivô

Se beve, il gatto chiama acqua.
È uno dei tanti segnali di pioggia imminente scaturiti dall'osservazione del comportamento degli animali.

She Pàsquô
la Shan-Marcherà(*)
töt el mónt
el tremerà

Se Pasqua si (*) tutto il mondo tremerà (*Shan-Marcherà = verrà il giorno di S. Marco).
È il ricordo di una terribile Pasqua, quella venuta nel 1943, durante la seconda guerra mondiale. Il suo ricordo suona come minaccia e, al tempo stesso, augurio a sperare che non si ripeta questa tragedia. Il calendario però annuncia che la Pasqua del 2038 sarà di nouvo un 25 aprile...

She ‘l piöf a shant’ànô
l’è tàtô mànô

Se piove a Sant'Anna è tanta manna.
Il 27 luglio: l'acqua serve.

Stèle spèshe
‘l càmbiô ‘l tép,
stèle ràre
‘l tìrô rét

Stelle spesse cambia il tempo, stelle rare tira dritto.
Anche l'osservazione del cielo stellato aiuta nel fare le previsioni meteorologiche.
A questo proposito ecco un interessante scritto che un fattore mantovano, Angelo Majoli, ha steso tra il 1842 e il 1847 insieme ad altri consigli, istruzioni e rimedi per le malattie di bovini e cavalli: un vero e proprio manuale delle buone regole della condotta agraria. «Il ciel sereno rosseggiante mostra Venti; il Sole pallido d'estate mostra Tempesta; nel levar del Sole correndo le Nuvole a tramontana mostra sereno; ma levando a tramontana con foschi colori nottifica Venti; la Luna pallida mostra pioggia; Rossa Venti; Bianca sereno.
La Luna nuova non apparendo doppo il quarto giorno mostra assai pioggia, ma se nel quarto giorno si vedrà bella, spera Sereno, e se nel voltar sarà bella s'aspetti bel tempo, ma se è Rossa dinotta Venti, e se è nera dinotta Pioggia.
Due Archi in cielo ad un medesimo tempo danno pioggia, ed ancor vento, quando questi sono rivoli verso l'Occidente pioggia e quando sono verso Levante Sereno; o quando il Sole risplende solo all'Occidente mostra acqua.
Quando la fiamma del fuoco è pallida , e che tremola d'estate mostra Gragnuola e le Brace coperte di cenere dinotta pioggia, anche quando la Lucerna gettano quelle Scintille, o che sulla cima del stoppino, ovvero Lucignolo, V'ha quel Funghetto; o quando la pignata abbrucia di fuori è segno di pioggia.
Quando le pietre a tetto sono molto bagnate, che il muro suda, od il Sale sia bagnato o la carne d'ogni sorta gocciola, o che gli Bovi coricati siano tutti da una parte, o che i Bovi stessi con la loro Lingua si leccano il corpo, e quando si mordano i piedi, dinottano veramente segno di pioggia.
È segno di pioggia ancora quando gl'Uccelli acquatici guizzano per le Acque, quando le Rondini volando sopra l'acqua la battono col petto e con le ale, quando le Mosche e le Zanzale, Tavani, e Pulci pungono più del solito, quando le Formiche trasportano le sue Uova da una tana bassa ad una più alta, e che le Talpe più del solito forano la terra; e che le capre e le Pecore pascolano più avvidamente del solito; e che il Gallo canta di più e fuori d'ora, e che si spolverizza con le Galline e le Rane granchiano alla strangolata, e che l'Asino crolla il Capo così con l'Orrecchione, e che le Passere strillano tutte unite, e che il Cane si rivolge per terra, e poi con le sue satte fa per cavar la terra; e che il cesso puzza più del solito, e che gli piedi sudano molto, e che gli membri del Uomo, massime dei podagrosi Franciosati, e de' Vecchij dolgono, non che le Gionture, e che la Gatta si lava il cappo dalla Orecchie in su; gli Fiori ed Acque oddoriffere mandano più odori e che li nostre mani sono più ruvide del solito, e che il suono della campana è più accuto, e la corda del carro non la si può ben distendere; ogn'una di queste cose è segno di Mutazione di Tempo da buono in pioggia, od in nuvolo e tutte queste cose le deve osservare il buon Contadino pretico nella sua Villa, acciò facia le sue cose e faccende più accomodamente, e con solecitudine acciò non si lascia sopragiungere dal cativo tempo».
(Gianni Bosio "Il trattore ad Acquanegra").

Tempuràl de muntàgnô
‘l bàgnô mìô la campàgnô

Temporale di montagna non bagna la campagna.
Il più delle volte la montagna ferma l'aria che porta il temporale da nord dandogli sfogo prima che arrivi in pianura. Il temporale primaverile che arriva improvviso è detto «el sinquàl», termine che rappresenta bene la situazione perché «sinquàl» sono dette le cinque dita dello schiaffo che colpiscono senza preavviso.

Zenér el fa ‘l pónt,
Febrér el la rómp

Gennaio fa il ponte, febbraio lo rompe.
Alcuni dicono che se gennaio fa il ponte, ossia salta la sua parte di freddo, a febbraio... Altri affermano che il ponte di gennaio è il ghiaccio che si forma in questo mese e che febbraio, col suo primo sole provvede a rompere...
Sicuramente ci saranno altre interpretazioni che sarebbe interessante ed utile conoscere, sia su questo come su tutti gli altri detti, proverbi e modi di dire di questa raccolta. In fondo si tratta solo di imparare ad ascoltare.

She ‘l piöf
el dé de l'Ashènsô
per quaràntô dé
en s'è piö shènsô

Se piove il giorno dell'Ascensione, per quaranta giorni non siamo più senza.
L'Ascensione non ha un giorno fisso sul calendario, ma viene quaranta giorni dopo la Pasqua. Se dovesse piovere in questo giorno, pioverà ancora per altri quaranta. Stesso discorso vale per il 3 maggio, infatti si dice: «She ‘l piöf el dé de Shàntô Crus, per quaràntô dé l’è piüiznùs» (Se piove il giorno di Santa Croce, per quaranta giorni è piovigginoso).
Tre giorni prima dell’Ascensione si facevano le rogazioni.
A Timoline si svolgevano così:
1° giorno si partiva da via Conicchio per passare dietro il cimitero ai «Ciarighì» e la «Ciaregàdô» fino «a la Bucalérô» cioè fino ai campi dove ora sorgono le ditte "L'Edile" e "Cementegola" e si tornava sulla strada provinciale (Via Roma) per benedire dopo «la Shimpatìô», «el San Damià e i Cap»;
2° giorno si partiva dalla «Bià del Paradìs» e si percorreva il tragitto che toccava «...el Cap Lónc, i ciós del Mancalègn, la Sheradìnô, la büzô, el bröl del Cunécc»;
3° giorno si partiva davanti all’attuale monumento ai caduti si passava dal «Pós» verso «'l Süpèlô» passando il «Naéle» e le «Buschète» e si tornava dall’attuale via Brescia, davanti «ai Cazògn, ai Peshòcc e ai Balarì» (le famiglie: Turelli, Pezzotti e Ferrari).
Sarebbe interessante costruire un'araldica dei soprannomi che individuano interi nuclei familiari, soprannomi che forse possono dire qualcosa di più sulle origini di quanto possa fare il cognome che già dice molto in questo senso.
Su questo argomento l'araldica ufficiale ci fa sapere, ad esempio, che i Fenaroli sarebbero originari di Vigolo e Tavernola-BG, gente che si è arricchita col commercio del fieno, ma non ci dice perché da noi sono detti «i Trüà»;
gli Scalvi sono originari della Val di Scalve, ma da noi sono detti «i Ruatì» perché vengono da Rovato.
Archetti è un cognome diffuso a Iseo e nei paesi che si affacciano sulle sponde a Sud del Lago, ma perché a Colombaro sono detti «i Baète», a Borgonato sono «i Màgher» e «i Pü»? Di questi ultimi si sa che vengono da Provezze dove «i ga fàô i mashér al prét» e anche qui sono venuti per fare i mezzadri al prete, ma l'origine del soprannome starebbe nel fatto che in ogni nucleo familiare e in ogni generazione, c'era sempre chi non si sposava e quindi, come diciamo noi, restava «pöt». Da qui «i pöcc» o «i pücc» e quindi «Pü»;
i Pezzotti sono «Peshòcc, Peshutì e Peshutù», ma anche «Castègne».
Il cognome Faifer ci dice l'origine tedesca (in tedesco si scriverebbe Pfeipfer) confermata anche dal nome Sigfrido di uno dei loro antenati da cui derivano «i Shìfridi», soprannome di una parte di questa discendenza. Un Giovanni Faifer risulta essere residente a Timoline già nel 1810.
I Cadei sono detti «ìgol» perché vengono da Vigolo-BG, i Reccagni «Shù» perché vengono da Zone-BS e gli Assoni «Bagós» perché vengono da Bagolino-BS.
Sappiamo che i Danesi sono detti «Parzanèc» perché vengono da Parzaniza (BG), ma dei Parzani non sappiamo perché siano chiamati «i Cuminècc». Buio anche sui Turelli: perché sono detti «Cazògn»?
E i Lazzaroni, perché sono detti i «Prudènse»?
Gli Zanini sono «Mafeshù»; i Bosio «Bórge» e «Burgì».
I Riva vengono da Sale Marasino e sono detti «Riulì» o «Rishulì».
Degli Econimo di Borgonato ho saputo da «Bèpi» che sono detti «i Rìchi» non per i soldi, come si potrebbe pensare andando ad orecchio, ma perché uno dei loro antenati si chiamava Enrico, detto «Rìco». Finchè c'era lui si diceva «...va da Rìco a prendere il tal arnese». Morto lui, gli arnesi si andavano a prendere dai «fiöi de Rìco», «i Rìchi». (Mi è stato molto prezioso il povero «Bèpi» che oltre alla sua collaborazione nella ricostruzione del nome che i contadini davano ai campi che lavoravano, tra le altre cose, mi ha manifestato il suo il rammarico per non aver pensato in tempo a scrivere i nomi usati in agricoltura. «...Ci saranno almeno un milione di nomi!» mi ha detto più di una volta, e chi lo ha conosciuto sa che non parlava mai a sproposito.)
I Del Barba sono «Capècc», i Fumagalli vengono da Cazzago San Martino e sono detti «Büshachì» («böshàche» o «büshàche» erano detti i sacchi di doppia grandezza ci sarà qualche rapporto?). Sull'attuale mappa catastale (1960 circa) la cascina di Borgonato dove abitavano i Fumagalli è detta «Busachìn», su quella napoleonica (1810 circa) la località era chiamata «Castegna rotonda».
I Gotti sono «Picòti» e i Ghitti sono «Sghécc» forse per una storpiatura del cognome come lo è sicuramente «Gàmber» per i Gambarini.
Gli Uberti erano «i Frér» dall'attività che faceva il loro antenato venuto a Borgonato dallo Zocco (o dalla Spina) di Erbusco.
I Borghesi di Borgonato sono detti «Spinèlô» dal nome della cascina "delle Spinelle" che si trova a Nord-Est del paese.
I Bracchi sono un cognome storico perché sulle mappe napoleoniche l'abitato vicino alle fornaci di Borgonato è detto «Brachi». Per noi sono quasi sempre genericamente «i Brac», ma in alcuni casi sono detti «Bréô», «Strüshi» (a Clusane sono «i Pignàte») e in altri modi più "recenti".
I Corsini sono «Bràzi», i Drera sono «Scalmàne», i Colosio di Borgonato, originari di Provaglio d'Iseo e erano detti «i Cìne» e i Cotelli sono «Cutèi», «Cüshücc» e «Gère».
Gli Zilberti vengono dalla località "Zuccone" di Clusane e sono detti «Cròpe» e i Bonardi di Colombaro sono «i Sià».
I Boglioni sono detti «i Pólver» perché il povero Geremia, 3 generazioni fa, preparava la polvere da sparo per il cannone anti tempesta collocato sul monte di Colombaro, dietro Santa Maria in Zenighe.
I Gatti sono anche «Gatì», «Svangàcc», «Feràndi», «Formènti», «Péne» e «Galì»; i Belussi sono detti «i Manghècc».
I Ferrari, cognome più diffuso a Corte Franca, si dividono in «Bée» (si dice che loro antenato si fosse un certo "Berzabeo"), «Balarì», «Salìne» (vengono da Cremignane) e «Sgàie» ma ci sono altri gruppi più "recenti" come: «i Pelàcc», «i Castignöle» (dal nome del luogo dove abitavano, dove ora c'è il "golf"), «i Zògn», «i Farìne», «i Remìgi», «i Butù», «chei del Bàgô», «chei del Cazòt», «i Gnèle», «i Cazèle»...
I Marini sono di Colombaro e, pur essendo un cognome molto diffuso, generalmente sono detti «i Marì», ma ci sono anche «i Maringù», «i Nüti» (da Benvenuto)... ma qui siamo già al passato più prossimo. I Marini di Timoline, invece, sono detti «del Reàl» probabilmente perché un loro antenato, Giuseppe, era carabiniere nei "Regi" (reali) Carabinieri.
Tra le quattro frazioni di Corte Franca, Colombaro è il paese dove i soprannomi personali abbondano, individuando più nettamente la persona rispetto al nucleo familiare di provenienza. Questa ghiotta occasione, rappresentata da una grande quantità di nomi pescati sia dal quotidiano che dalla fantasia o da una particolare situazione, ha scatenato l'estro compositore di alcune persone che ne hanno attinto a piene mani per comporre gustosissimi racconti che sarebbe bello se rivedessero la luce.

 

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