A bàter i pagn
cumparés la stréô |
A battere i panni compare la strega.
Ha lo stesso significato di «làshô sta i ca che dórmô» (lascia
stare i cani che dormono) vale a dire non insistere, non continuare a fare la tal cosa
perché poi potresti pentirtene amaramente. Non risvegliare, non ravvivare una situazione
che potrebbe diventare imprevedibile, incontrollabile.
È usato anche col significato di «lupus in fabula». |
A chi che gh'à del
defà
Cristo l ga n dà |
A chi ha del "da fare" Cristo
ne dà.
Chi lavora bene non resterà senza clienti. È anche l'esclamazione della persona che,
a dispetto dalla sua fretta di finire un lavoro, non vede mai avvicinarsi il termine. Non
disperare, la Provvidenza ti aiuterà. |
A caàl dunàt
sha ga àrdô mìô n bócô |
A cavallo donato non si guarda in
bocca.
In un regalo, ciò che conta è il pensiero. |
àmbiô fò nishü
scuì(*) |
Non avviare nessuno (*scuì =
letteralmete è "scopino", piccola scopa, arnese che viene usato per riuscire a
scovare lo sporco negli angoli più remoti).
Non cercare rogne; non inventare questioni; non andare troppo per il sottile, ecc.
Per il termine «àmbiô», coniugazione di «ambià» è interessante vedere come sia
composto da due termini oggi in disuso:
«Am», andare (ad esempio, per dire "andiamo?" e "dove andiamo?" si
diceva «àmei?» e «am enduè?») e «bià», via.
Insieme significano avviare, partire, iniziare. |
A cambià mulinér
sha càmbiô àzen |
A cambiare mugnaio si cambia asino.
I mugnai sono tutti uguali, non ce n'è uno che rubi meno dell'altro. Si dice che anche: «A cambià padrù sha càmbiô àzen» (A cambiare padrone si
cambia asino) ossia: «uno vale l'altro». |
A fabricà la ca n
piàshô,
chi che la öl àltô,
chi che la öl bàshô |
A fabbricare la casa in piazza, (c'è)
chi la vuole alta, chi la vuole bassa.
Se rendi pubblica una situazione o un progetto, tutti hanno qualcosa da dire, chi in
un senso, chi nel senso opposto. Se li ascolti tutti va a finire che non ti deciderai più
perché ognuno, dal suo punto di vista, ha ragione. |
Alà redàbol(*) |
Valà (*redàbol = attrezzo di
legno a forma di "T" usato per mescolare il frumento
messo ad essiccare sull'aia o il granoturco nell'essiccatoio. È di ferro quello usato per
«cürà fò» (pulire) il fondo dei fossi e dei pozzi o per mescolare le braci nei
forni a legna e ripulirli).
Si dice di persona da poco. Antiquato. |
A sta col luf
sha mpàrô a ürlà |
A stare col lupo si impara ad urlare
(ululare).
Adeguarsi ad ogni situazione (in questo caso negativa). Si dice di chi, da persona per
bene, cambia atteggiamento a causa delle persone che frequenta. |
àivô tróbiô
fa mìô spècc |
L'acqua torbida non fa da specchio.
Confrontati sempre col meglio. |
A la prümô sha
perdùnô
a la shegóndô sha s-ciafùnô |
La prima volta si perdona, la seconda
si prende a schiaffi.
A questo proposito qualcuno ricorda che nel vangelo c'è scritto di porgere l'altra
guancia, ma lo dice una volta sola! |
àntet caàgn
che l mànec lè rót |
Vantati cesto che il manico è rotto.
Si dice di chi vanta capacità che non ha. Le persone incapaci e presuntuose non sanno
dare il giusto valore alle cose. Molto più chiaramente si dice: «Chi
gh'à mìô antadùr i sa àntô de per lur» (Chi non ha vantatori si vanta da
solo) ossia: chi va spopolando e dicendo ogni bene di se stesso, quand'anche fosse
vero, denuncia poca modestia. |
Bèle e finìt prèdicô |
È già finita la predica.
Fine del discorso. Non c'è altro da aggiungere. Si usa quando in una determinata
situazione si chiude ogni possibilità di azione. |
Bócô sheràdô
nó bècô gnòc |
La bocca chiusa non becca gnocchi.
Parlando ci si intende. "Chiedi e ti sarà dato". |
Cashadùr de bàle |
Cacciatore di balle.
Chi racconta bugie. È proverbialmente vasto il repertorio di bugie dei cacciatori che
devono reggere la concorrenza di quello dei pescatori. Più palesemente si dice: «Cashadùr e pescadùr i cöntô bàle de shaùr» (Cacciatori e
pescatori raccontan balle saporite). |
Chei che gh'à pórô
del pecàt(e del Diàol)
i rèstô col cül pelàt |
Quelli che hanno paura del peccato (o
del Diavolo) restano col culo pelato.
Se, ad esempio, vuoi rubare, ma hai paura, non devi farlo: verresti sicuramente scoperto.
Non sei scaltro, anzi, sei proprio ingenuo. Ti tradiresti perché non è roba per te. |
Chel che Dio öl
lè mai trop |
Quello che Dio vuole non è mai troppo.
Accetta ciò che Dio ha disposto e non lamentartene. Se ti guardi attorno ti accorgerai
che c'è anche di peggio. |
Chel che 'l gh'à 'n
cör
el gh'à a' 'n bócô |
Quello che ha nel cuore l'ha anche in
bocca.
È l'esaltazione della schiettezza, della sincerità più genuina. Si usa anche per
indicare il «sinceròt» (bonaccione, sprovveduto). |
Chi che fa, i fàlô,
chi nó fa, i sfarfàlô |
Chi fa, falla, chi non fa, sfarfalla.
Detto per giustificare chi, alle parole ha fatto seguire le opere. Lo possibilità di
sbagliare appartiene a chi agisce.
Il detto sembra affermare che solo chi non fa mai niente non sbaglia, ma fa del sarcasmo
per dire che chi chiacchiera senza agire è inattendibile perché, non solo non è
riuscito a fare qualcosa, ma non ci ha neanche provato. |
Chi che gh'à mìô có
i gh'àbe gàmbe |
Chi non ha testa abbia gambe.
Spesso, sopra pensiero, ci si dimentica di fare la tal cosa. Per rimediare non resta che
tornare indietro. |
Co la tumpèstô,
la shötô e la brìnô
i ta nségnô a ndà
a mèshô e a dutrìnô |
Con la tempesta, la siccità e la brina
ti insegnano ad andare a messa e a dottrina.
Ti ricorderai di pregare... Le devozioni, le invocazioni e le preghiere erano assidue. Il
detto è quasi un'intimazione a non aspettare il castigo perché quando capitano queste
calamità è già troppo tardi. |
Cöntemen tànte |
Raccontamene tante.
Un «Cöntemen tànte» è un bugiardo, ma in certi casi significa burlone. |
De i cop en sö
sha cumàndô piö |
Dai coppi in su non si comanda più.
Il tuo potere è molto limitato. Detto sia in senso meteorologico che religioso. |
De le ólte dürô piö
tat
en bicér sgrapàt(*)
che giü nöf |
Delle volte dura più un bicchiere (*)
che uno nuovo.
(*sgrapàt: graffiato, sbeccato, segnato, rovinato esteticamente.)
Succede che una persona piena di acciacchi campi più a lungo di una più giovane e in
buona salute. |
De 'n santantóne
shàltô dét
gnè 'n santantunì |
Da un santantonio non salta dentro (non
riesci a fare) neanche un santantonino.
Si dice a chi sbaglia a prendere le misure. Per esempio se hai un pezzo di stoffa per
fare un vestito e sbagli a tagliarla rischi di non riuscire ad utilizzarla neanche per un
vestito più piccolo. |
De nòt i-a pènsô
e del dé i-a fa |
Di notte le pensano e di giorno le
fanno.
Si dice di chi ne combina di tutti i colori. |
De l cantà sha
conós luzèl,
ma a parlà ga öl servèl |
Dal (modo di) cantare si conosce
l'uccello, ma per parlare ci vuol cervello.
Da ciò che dici ti posso riconoscere e giudicare. |
Dio 'l dà l fiöl
e l sò caagnöl |
Dio dà il figlio ed il suo cestello.
La provvidenza ti aiuterà. Le ceste di vimini o le «cüne» (culle) di legno
nelle quali venivano messi i neonati erano simbolo della provvidenza di Dio. |
el cönt shènsô
lustér
sha 'l fa dò ólte |
Il conto senza l'oste si fa due volte.
Per una valutazione attendibile bisogna tener presente tutto e tutti. |
el còrp a la tèrô,
lànemô a Dio
e la ròbô a chi che la ga 'à |
Il corpo alla terra, l'anima a Dio e la
roba a chi spetta.
Quando morirai non potrai portare niente nell'aldilà. Anche a te succederà
esattamente come a tutti gli altri. |
el gh'à mìô òiô de
piegàlô |
Non ha voglia di piegarla.
Del lazzarone si dice che non ha voglia di piegare la schiena. Non ha voglia di
lavorare. |
el gh'à la
biligòrniô(*) |
Ha la (*biligòrniô = malavoglia,
sonnolenza, malinconia).
Il termine lascia intendere un'origine lunatica di queste "patologie". Non è
chiara l'origine del termine, ma fa molto pensare ad un altro simile usato in Valle
Camonica, «Bidigàna», che trae la sua origine dal termine «bizigà» (fare lavori
di poco conto, lavoricchiare, giocherellare). |
el m'è bèle rampàt
sö
ré a 'na gàmbô |
Mi si è già arrampicato su per una
gamba.
In questo modo si vuole manifestare la propria irritazione, il fastidio che si prova
verso un certo atteggiamento della tal persona. È insopportabile! |
el Signùr el dìs
àidet che ta aideró |
Il Signore dice: «Aiutati che ti
aiuterò».
Non star lì con le mani in mano in attesa che altri risolvano ciò che tu non stai
cercando di risolvere. Si dice per dare conforto Ad un ammalato, per esempio si dice: «Tu
pensa a curarti e vedrai che la provvidenza...». |
el Signùr el làshô
fa,
ma mìô strefà |
Il Signore lascia fare, ma non
strafare.
Ci sarà la giusta punizione per i prepotenti. |
el Signùr el màndô 'l
fret
a shegónt d'i pagn(o del let) |
Il Signore manda il freddo a seconda
dei panni (o del letto).
Il Signore manda le disgrazie in proporzione alla capacità di sopportare. Bisogna
accontentarsi di quel poco che si ha...
Se questa è la Sua volontà... |
el Signùr
el völ nishü cuntécc |
Il Signore non vuole nessuno contento.
Non riposare sugli allori. Quando pensi di essere tranquillo, che tutto sia rose e fiori,
ti capiterà di inciampare in qualche spina, in qualche disgrazia.
Si diceva, di solito, anche a commento delle disgrazie proprie o altrui. |
en de l paés d'i
òrp
i la fa bé a i sguèrs |
Nel paese degli orbi la fanno bene
anche i guerci.
Gli orbi sono più svantaggiati dei guerci che a loro volta sono più svantaggiati di chi
ci vede bene. Si dice di chi emerge, pur essendo poco dotato (guerci), quando si trova a
confrontarsi con un gruppo di persone più svantaggiate.
È usato più raramente, in tutt'altro contesto, col significato di fingere di non vedere
per dare una scappatoia o una via d'uscita a chi è in difetto. |
el gh'à 'n pó de
pólver |
Ha un po' di polvere.
Si dice dell'omosessuale. Una volta il detto era accompagnato anche dal gesto delle
dita della mano che colpiscono l'orecchio come per scrollarne la povere. Il gesto era
fatto per richiamare alla mente «i ureciù» (la parotite) che, nei maschi, può
portare all'infertilità come non fertile è il rapporto omosessuale.
Oggi la moda impone l'orecchino anche ai ragazzi che lo mettono sulla sinistra
perché dicono che sulla destra lo portano gli omosessuali. Perché? Forse ritorniamo al vecchio:
«urèciô mansìnô, paròlô mulzìnô - urèciô 'ndrétô, paròlô malfidétô!» |
en paradìs
sha 'à mìö n caròshô |
In Paradiso non si va in carrozza.
La via della salvezza è stretta e piena di tentazioni e di difficoltà. |
en tép de guèrô
piö bàle che tèrô |
In tempo di guerra più balle che
terra.
In tempo di guerra le notizie su morti, conquiste, ritirate strategiche ecc., sono quasi
sempre bugie. Per valutare le parole devi tener conto del contesto in cui si dicono. |
Frà mudèst
lè mai deentàt priùr |
Fra modesto non è mai diventato
priore.
Chi non mira al potere. L'onesto non diventa ricco. |
Gh'è l Signùr
a' per i ciòc |
C'è il Signore anche per gli ubriachi.
Quando vedi un ubriaco che procede zigzagando sulla strada senza che venga investito,
nonostante l'evidente pericolo, ti viene da pensare che, per forza,
«gh'è ergü che àrdô zó» (c'è Qualcuno che guarda giù). |
Gh'è piö tép che
étô |
C'è più tempo che vita.
Fai con calma. Si dice anche ironicamente a chi sa di non stare nei tempi previsti e
non si dà da fare per cercar di ricuperare. |
gh'è rimedio a töt
förô che a la mórt |
C'è rimedio a tutto fuor che alla
morte.
Per consolare in situazioni difficili. |
Gh'ét el mal de la
nónô? |
Hai il male della nonna? (Encefalite).
È ora di svegliarsi! Datti una mossa! Dormi? Si dice a chi è poco spigliato, chi se la
prende comoda. |
Ghè n'è mìô de
gioedé |
Non ce ne sono di giovedì.
È certamente così; non ci sono discussioni da fare. Questo detto e tutti quelli che
fanno riferimento al giovedì, come «Ghe n'è amò de gioedé?» (Ce
ne sono ancora di giovedì?) o «Ta màncô na quac gioedé?»
(Ti manca un qualche giovedì?) ed altri simili, fanno riferimento a qualcosa di
scocciante.
I detti, probabilmente, si riferiscono «...a quando i ragazzi non andavano a scuola il
giovedì e passavano la loro giornata per strada, di fronte a botteghe, laboratori o altre
attività lavorative, giocando e facendo gazzarra.» (Angelo albrici, "Sentènse
dè 'na ólta").
Equivale a: «Ti manca una rotella», cioè non sei troppo equilibrato. |
Gnè tat, gnè póc,
gnè mìô |
Né tanto, né poco, né niente.
Drasticamente negativo. Irremovibile. «Gnè shè ta piànzet cinés»
(neanche se piangi in cinese). Assolutamente no. |
Gròs come 'na bórô(*) |
Essere grosso come una (*)Bórô è
il tronco di una grossa pianta, ma comunemente significa trave di legno. Con la stessa
radice, parole come «burèlô» (rotula) e «borelà» o «birulà» (rotolare)
richiamano la forma rotonda.
Ignorante. Grossolano, poco raffinato. Tanto volume, ma niente cervello. |
I la sha
a' i ca de la Mandalòshô |
Lo sanno anche i cani della Mandolossa
(Bs).
È di dominio pubblico come per il "segreto di Pulcinella". |
I n'à fat...
de ènder e de spènder |
Ne hanno fatte... da vendere e da
spendere
Ne hanno combinate di tutti i colori. Si dice dei tipi famosi per la loro
avventurosità o intraprendenza non sempre a lieto fine. In altri casi si usa «i n'à fat de òrbe» (ne hanno fatte... da orbi). |
Istés en pal
che l par en cardinàl |
Vesti un palo e vedrai che pare un
cardinale.
L'apparenza. Quando l'abito fa il monaco. |
La catìô laandérô
la tróô mai la bùnô prédô |
La cattiva lavandaia non trova mai la
buona pietra.
Una volta i panni si lavavano a mano e nell'acqua della fontana. Nella maggior parte dei
casi, la fontana non era altro che un posto dove c'era acqua corrente (quasi sempre
sorgiva) vicino al cui limitare si posavano delle pietre che servivano da lavatoio. La
cattiva lavandaia non riesce mai a trovare la pietra giusta per il suo bucato. |
La mèshô lè
lóngô,
la diusiù lè cürtô |
La messa è lunga, la devozione è
corta.
È una specie di botta e risposta detta tutta d'un fiato. La funzione religiosa è lunga
quando c'è poca devozione. Si dice a chi pensa che la messa non finisca mai
perché si
stufa presto. |
L'àzen de natürô
el conós mìô la shò scritürô |
L'asino di natura non conosce la
propria scrittura.
Così si dice alle persone, ma soprattutto agli scolari, che hanno una calligrafia
incomprensibile per gli altri e che loro stessi hanno difficoltà a riconoscere. «I scrìf co la ràspô de galìnô» (Scrivono
con la zampa di gallina). |
Mèter al sicür la
mèshô |
Mettere al sicuro la messa.
Con questa espressione si esprimeva la preoccupazione di osservare il precetto
festivo. A volte il lavoro nei campi riservava imprevisti che rendevano impossibile la
partecipazione alla messa (quella "alta" era cantata e durava anche un'ora e
mezza). La chiesa «...ben lontana dal proibire... raccomandava di non falciare il
prato di sabato per non dover raccogliere il fieno di domenica» (Oberto ameraldi, "Modi
di dire che scompaiono").
Per dire che non si era andati a messa si diceva: «Gh'ó tacàt vià la
mèshô» (Ho appeso la messa). |
La ràbiô de la shérô
tègnelô a mà per la matìnô |
La rabbia della sera, conservala per la
mattina.
Ragiona a mente fredda. Non agire d'impulso. |
L'è màgrô la càvrô! |
È magra la capra!
Sconsolante affermazione per indicare una ristrettezza economica che non vede
prospettive di miglioramento. |
Lè n
tórcol! |
È un torchio.
Insopportabilmente insistente. |
Lè bu
gnè per i cài |
Non è buono neanche per i calli.
Buono a nulla. |
Lè 'na
büzeràdô |
È uno sproposito.
Cosa palesemente sbagliata. «Bóziô» o «bórgiô» è il truciolo fatto dalla pialla
del falegname, ma significa anche bugia. |
Lè 'na gran
vacàdô |
È una gran vaccata.
Un errore madornale, uno sproposito. |
Lè 'na schénô
falàdô |
È una schiena fallata.
Fannullone. Ironicamente si dice anche: «el gh'à la cànô de édre»
(Ha la canna di vetro) cioè la colonna vertebrale fragile e che non si può
piegare: si romperebbe. Oppure, sempre in tema, si chiede: «Shét
pashàt deànti a la becherìô?» (Sei passato davanti alla macelleria?) insinuando
che il macellaio gli avrebbe dato un osso da mettere al posto della colonna vertebrale che
pertanto non può piegarsi. |
L'è 'n càô-décc |
È un cavadenti.
Colui che sa di farti male, ma lo fa lo stesso, «...el ta shemèntô
ashé» (ti tormenta abbastanza). Un tiranno.
Indica anche l'avaro o lo strozzino che ti tormenta e ti toglie la possibilità di
mangiare. |
L'è 'n pàpô e nànô |
È un pappa e nanna.
Uno che ha due sole attività: mangiare e dormire. Uno tranquillo. Lo si dice, con un
tono di compiacimento, soprattutto del bambino piccolo. Si usa anche per gli adulti, ma
per loro l'appellativo più frequente è: «Padre Pacifico». |
L'ó mai vést...
gnè shöl lünàre! |
Non l'ho mai visto... neanche sul
lunario.
Per dire: «Incredibile!» o «Ma che novità è mai questa?». |
Lòsio lè
l pàder de töcc i éshe |
L'ozio è il padre di tutti i vizi
Chi non ha da fare può pensarle tutte, chi lavora ha già tante cose di cui occuparsi. |
Mei brötô pèshô
che bel büs |
Meglio brutta pezza che bel buco.
Poco estetico, ma economicamente efficace. |
Mei lìzô che rótô |
Meglio lisa che rotta.
Meglio poco che niente.
Le malelingue usano questo detto in doppio senso per insinuare che la verginità della
tale non è proprio illibatezza.
Nella scala delle preferenze si dice: «Mei lìzô che mèzô, mei
mèzô che rótô, mei rótô che nigótô» (meglio lisa che mezza, meglio
mezza che rotta, meglio rotta che niente). |
Mei cünsümà le
scàrpe
che i lensöi |
Meglio consumare le scarpe che le
lenzuola.
Bisogna darsi da fare. Chi consuma le lenzuola è ammalato oppure è uno scansafatiche e
chi consuma le scarpe si dà da fare. |
Móchelô lé
de fa 'l rampì(*) |
Smettila di fare il (*rampì =
gancio, uncino).
Spesso il termine è sostituito da «rampighì» (tipo di uccello) e sta a
rappresentare quella cosa fastidiosa che ti sta addosso o che non puoi evitare, proprio
come può accadere con un «rampì». |
Mórt en pàpô
i na fa n óter |
Morto un papa ne fanno un altro.
Tutti sono utili, ma nessuno è insostituibile. |
Müs de tólô(*)
müs de palpaciólô(**) |
Muso di (*Tólô = recipiente in
lamiera)
(**Palpaciólô = fanghiglia)
Si dice di chi non prova vergogna per quel che combina e non gli interessa di avere una
cattiva reputazione, si dice anche: «El gh'à la ramérô shöl müs»
(ha la lamiera sul muso). La lamiera, infatti, veniva inchiodata sotto la scarpa in
modo che la suola «de cüràm» (di cuoio) non si usurasse tanto in fretta e
durasse di più.
È una frase fatta, usata soprattutto tra i bambini. La carica di offensività contenuta
nei simboli è molto alta (essere meno della suola delle scarpe, essere calpestato da
tutti ed anche con un certo fastidio), ma detto dai bambini si riduce ad una semplice
frase di ripicca. Faccia tosta. |
Nó 'é zó gnè 'na fòiô
che Dio nó l gh'àbe òiô |
Non viene giù una foglia che Dio non
voglia.
Non lamentarti di quel che ti sta accadendo perché c'è qualcosa nel disegno di Dio che
tu non puoi capire; anzi, dovresti dire "sia fatta la Sua volontà". Dio vede,
Dio provvede. |
Ocorerà mìô
la scàlô de shédô... |
Non occorrerà la scala di seta...
Lo dice minacciosamente chi non ha paura di nessuno e continua «...per dat du pelòc» (per
darti due scopaccioni). |
Nücc en rìô
e nücc en và |
Nudi arriviamo e nudi andiamo.
Siamo tutti uguali di fronte a Dio. Non conta ciò che hai, ma ciò che sei; alla fine non
ti porti nulla nell'aldilà. |
ògne barù(o striù)
l gh'à la shò diusiù |
Ogni briccone (o stregone) ha la sua
devozione.
In ogni persona, anche la più cattiva c'è un lato positivo: il suo credo, la sua
coscienza. |
Pói e précc
g'è mai cuntécc |
Polli e preti non sono mai contenti.
«...Gh'è shèmper de dàghen» (...C'è sempre da darne). Una volta la chiesa,
un'altra la canonica, poi i poveri, le missioni, ecc. |
Précc e frà
gè malfà de cuntentà,
s-ciòr e dutùr
gè isé pò a' lur |
Preti e frati è faticoso (difficile)
accontentarli, signori e dottori sono così anche loro.
Sono tutti coloro a cui si doveva levare il cappello. |
Précc mòneghe è frà
léegô l capèl
e làshei èndà |
Preti monache e frati levati il
cappello e lasciali andare.
Evita discussioni inutili. Ricorda che chi è capace di benedire è capace anche di
maledire, perciò porta loro il massimo rispetto e mantieni una certa distanza. |
Pòtô(*)
i la dìs a' i frà
quan ch' i sha scòtô |
(*) lo dicono anche i frati quando si
scottano.
(*Pòtô = potta, vulva, vagina).
È una parola che col tempo ha perso il suo significato originario e si è
"purificata"; oggi è usata come intercalare o al posto di espressioni come:
«pazienza!», «caspita!», «ecco...», «accidenti!» e tante altre. Quando è iniziata
a circolare, sicuramente «pòtô» era una parola sconveniente (come oggi sentir dire, ad
esempio, "figa"). Si poteva giustificare o tollerare quando fosse
"scappata" in determinate circostanze. E scappava anche a chi della pazienza e
dell'autocontrollo aveva fatto una regola di vita. |
Prümô l Signùr
e pò l dutùr |
Prima il Signore e poi il dottore.
Devi avere più fede in Dio che negli uomini. Il dottore è solo un meccanico, mentre Dio
è sia il costruttore che il demolitore. |
Quan che
ghè nè n de la bòtô
l góshô
n de la cunchètô(*) |
Quando ce n'è nella botte gocciola
nella (*cunchètô = specie di vaschetta di legno rettangolare usata per raccogliere
le gocce di vino che escono dalla spina della botte).
È un'immagine molto appropriata, usata per sottolineare la falsa generosità di chi vive
nell'abbondanza. |
Scùô nöô
la scùô bé la ca |
Scopa nuova scopa bene la casa.
Si dice di ogni cosa nuova. Ad esempio: la novità, la dedizione, la voglia di far bella
figura di chi comincia un nuovo lavoro porta a dare di lui un giudizio positivo, ma è
sempre meglio aspettare perché... non si sa mai!
Gabriele rosa (Dialetti, costumi e tradizioni nelle provincie di Bergamo e Brescia) riporta il detto: «Fattor nuovo tre dì buono» e lo commenta:
«...dicesi per dinotare l'attenzione che mostrano nel principio del loro ministero le
persone di servizio». Si usa anche per mettere in guardia dalle amicizie nuove che
sembrano sempre positive, ma, sottoposte alla prova dei fatti e del tempo spesso... |
She ta shét gròs! |
Come sei grosso!
Poco delicato, poco raffinato. Si sente dire anche: «Fat zó col
pudèt» (Fatto col pudèt = roncolone da taglialegna). Grossolano, grezzo,
approssimativo. Insomma essere un «materialòt». |
She ta shét mìô bu de
fa,
ta shét bu gnè de cumandà |
Se non sei capace di fare, non sei
capace neanche di comandare
...con buona pace dei tuttologi. |
Shì de rèlô |
Maiale da porcile.
Nel dire a qualcuno che è un «sì de rèlô» si vuole aggiungere una qualificazione
peggiorativa del "titolo" di maiale, inquadrando anche l'ambiente in cui vive,
che aiuta a renderlo più ripugnante. L'espressione è usata spesso all'indirizzo di
coloro che, senza ritegno, si esibiscono in volgarissimi rutti in pubblico o altre
"perle" simili. |
Sperà e disperà,
ma shènsô ezagerà |
Sperare e disperare, ma senza
esagerare.
Sii equilibrato, non abbandonarti totalmente alle emozioni. |
Spüdô fò la tò
rezù! |
Sputa fuori la tua ragione.
Dì la tua! Confidati, sfogati! |
Sta n carezàdô |
Stare in carreggiata.
Rigar dritto. Andare per la propria strada. |
Sh'èt che lè
n müdö |
Si vede che è in muta.
La muta è il periodo di ricambio delle penne degli uccelli. Siccome gli uccelli cantano
solo in primavera, i cacciatori tengono al buio gli uccelli da richiamo per far loro
confondere le stagioni. A S. Giovanni Battista strappano le ultime tre penne delle ali e
tutta la coda che avranno così tempo per rifarsi. Quando vengono portati alla luce si
mettono a cantare e si dice che fanno primavera. Con questo detto ci si riferisce
ironicamente a chi non si vede da un po' di tempo. |
Ta fó éder
la lünô n de l pós |
Ti faccio vedere la luna nel pozzo.
Ti faccio prender uno spavento che... Come oggi si sente dire, ad esempio, "ti faccio
vedere i sorci verdi". |
Ta ma fét vègner
el làt ai zenöcc |
Mi fai venire il latte alle ginocchia.
Si dice di persona o situazione seccante, fastidiosa fino all'inverosimile. Come: «Ta ma fét nà zó i bràs» (Mi fai andar giù, cadere, le
braccia). Il latte alle ginocchia è il polemico «fa nà zó le
tète» (far andare giù le tette) detto un po' più all'acqua di rose. |
Ta ma fét vègner
el sanàer |
Mi fai venire il mancafiato.
Dicendo che qualcuno «lè n sanàer» si dice che è
un buono a nulla, un tipo scontroso oppure un seccatore. Assillante fino a togliere il
respiro. «Shanàer», letteralmente significa senape. |
Ta shét endré
'na carezàdô |
Sei indietro una carreggiata.
La carreggiata qui è da intendersi come «riàl» o «caedàgnô» (capezzagna,
tratturo) cioè strada d'accesso al campo che si trovava «al có del ciós» (alla
testa del campo). Per i contadini che lavoravano su e giù per il campo, essere
indietro una carreggiata significava non tenere il passo, essere lenti.
Applicato alla ragionevolezza, sta per: «Sei ignorante!». |
Ta shét endré
'n car de réf |
Sei indietro un carro di refe.
A proposito di "essere indietro" questo detto è molto peggiorativo del
precedente. Provate ad immaginate quanto sia lungo il filo che sta su «'na ruchètô» (rocchetto).
Sono diverse decine di metri. Se provate a pensare quale sarà la misura che esce dal
calcolo di un carro pieno di rocchetti... |
Ta l sét
come ta stét! |
Lo sai come stai!
È per questo che pensi male degli altri. |
Töcc i bu i gh'à
l sò catìf |
Tutti i buoni hanno il loro cattivo.
Ogni medaglia ha il suo rovescio. |
Töcc i ca i ménô la
cùô,
töcc i coió i völ dì la sùô |
Tutti i cani menano la coda, ogni
coglione vuole dire la sua.
Si dice di chi, pur non avendo niente di significativo da dire, vuole ad ogni costo
intervenire nella discussione. Sarebbe come dire: «Lascialo parlare (anche a
sproposito)... c'è libertà di parola». |
Töcc i gh'à la bócô
taiàdô de treèrs |
Tutti hanno la bocca tagliata di
traverso.
Siamo tutti uguali. Tutti dobbiamo mangiare. |
Tögô de óltô |
Prendi la volta.
Datti una mossa! Non tutto è perduto, cerca di ricuperare! Devi farcela, sei ancora in
tempo. Puoi ancora girare la situazione a tuo favore! Più direttamente: «Vàghen
förô» (Vanne fuori). Spicciati! |
Và a zügà,
alà,
che ta shét en ciàncol |
Vai a giocare, va là, che sei un
(*ciàncol, nel gioco della lippa, è il legnetto più corto con le estremità appuntite,
che viene fatto saltare picchiandolo sulla punta con la «canèlô» (legno più lungo)
e poi colpito al volo per essere lanciato il più lontano possibile dalla tana-base).
Significa essere un voltagabbana, un "pirla", uno sciocco, un buono a nulla.
Sui giochi bisognerebbe fare un capitolo a parte, ma per ora mi limito ad elencarne alcuni
tra i più diffusi:
ciàncol, zöc de la galìnô (coi sassi), co le àrme, a móndo, co la bàlô cùtrô 'l
mür, cügià e pirù (angilì e diaulì), lingalòs, bandiérô, barbanzèt, a shàltô
mulètô, a scundìs, a cicòcc, a ciapàs, a pè-pensöl, a pìpel, a lìberô, a
fashöl, a caàl.
Le femmine giocavano con «le püe» (bambole), i maschi a lotta e col fucile fatto con un
bastone.
Alcuni di questi giochi sono stati oggetto di ricerca durante i "laboratori"
della scuola media di Corte Franca alcuni anni fa. |
Vé zó del fic!
(o... Vé zó de la piàntô!) |
Vieni giù dal fico! (o... Vieni giù
dalla pianta!)
Matura! Sveglia! È finito il periodo dello svezzamento! Non puoi essere così credulone! |
Vis-de-càs |
Viso di cazzo.
La negatività in persona.
|