Giuseppe Zani        
Pàrlô come t’à ’nsegnàt tò màder    
Pubblicazione fuori commercio          

 

Shentènse varie     
(Sentenze varie)   

La laandérô.gif (51284 byte)
Disegno di Tiziano Turelli

La catìô laandérô
la tróô mai la bùnô prédô

 

A bàter i pagn
cumparés la stréô

A battere i panni compare la strega.
Ha lo stesso significato di «làshô sta i ca che dórmô» (lascia stare i cani che dormono) vale a dire non insistere, non continuare a fare la tal cosa perché poi potresti pentirtene amaramente. Non risvegliare, non ravvivare una situazione che potrebbe diventare imprevedibile, incontrollabile.
È usato anche col significato di «lupus in fabula».

A chi che gh'à del defà
Cristo ‘l ga n’ dà

A chi ha del "da fare" Cristo ne dà.
Chi lavora bene non resterà senza clienti. È anche l'esclamazione della persona che, a dispetto dalla sua fretta di finire un lavoro, non vede mai avvicinarsi il termine. Non disperare, la Provvidenza ti aiuterà.

A caàl dunàt
sha ga àrdô mìô ‘n bócô

A cavallo donato non si guarda in bocca.
In un regalo, ciò che conta è il pensiero.

àmbiô fò nishü scuì(*)

Non avviare nessuno (*scuì = letteralmete è "scopino", piccola scopa, arnese che viene usato per riuscire a scovare lo sporco negli angoli più remoti).
Non cercare rogne; non inventare questioni; non andare troppo per il sottile, ecc.
Per il termine «àmbiô», coniugazione di «ambià» è interessante vedere come sia composto da due termini oggi in disuso:
«Am», andare (ad esempio, per dire "andiamo?" e "dove andiamo?" si diceva «àmei?» e «am enduè?») e «bià», via.
Insieme significano avviare, partire, iniziare.

A cambià mulinér
sha càmbiô àzen

A cambiare mugnaio si cambia asino.
I mugnai sono tutti uguali, non ce n'è uno che rubi meno dell'altro. Si dice che anche: «A cambià padrù sha càmbiô àzen» (A cambiare padrone si cambia asino) ossia: «uno vale l'altro».

A fabricà la ca ‘n piàshô,
chi che la öl àltô,
chi che la öl bàshô

A fabbricare la casa in piazza, (c'è) chi la vuole alta, chi la vuole bassa.
Se rendi pubblica una situazione o un progetto, tutti hanno qualcosa da dire, chi in un senso, chi nel senso opposto. Se li ascolti tutti va a finire che non ti deciderai più perché ognuno, dal suo punto di vista, ha ragione.

Alà redàbol(*)

Valà (*redàbol = attrezzo di legno a forma di "T" usato per mescolare il frumento messo ad essiccare sull'aia o il granoturco nell'essiccatoio. È di ferro quello usato per «cürà fò» (pulire) il fondo dei fossi e dei pozzi o per mescolare le braci nei forni a legna e ripulirli).
Si dice di persona da poco. Antiquato.

A sta col luf
sha ‘mpàrô a ürlà

A stare col lupo si impara ad urlare (ululare).
Adeguarsi ad ogni situazione (in questo caso negativa). Si dice di chi, da persona per bene, cambia atteggiamento a causa delle persone che frequenta.

àivô tróbiô
fa mìô spècc

L'acqua torbida non fa da specchio.
Confrontati sempre col meglio.

A la prümô sha perdùnô
a la shegóndô sha s-ciafùnô

La prima volta si perdona, la seconda si prende a schiaffi.
A questo proposito qualcuno ricorda che nel vangelo c'è scritto di porgere l'altra guancia, ma lo dice una volta sola!

àntet caàgn
che ‘l mànec l’è rót

Vantati cesto che il manico è rotto.
Si dice di chi vanta capacità che non ha. Le persone incapaci e presuntuose non sanno dare il giusto valore alle cose. Molto più chiaramente si dice: «Chi gh'à mìô antadùr i sa àntô de per lur» (Chi non ha vantatori si vanta da solo) ossia: chi va spopolando e dicendo ogni bene di se stesso, quand'anche fosse vero, denuncia poca modestia.

Bèle e finìt prèdicô

È già finita la predica.
Fine del discorso. Non c'è altro da aggiungere. Si usa quando in una determinata situazione si chiude ogni possibilità di azione.

Bócô sheràdô
nó bècô gnòc

La bocca chiusa non becca gnocchi.
Parlando ci si intende. "Chiedi e ti sarà dato".

Cashadùr de bàle

Cacciatore di balle.
Chi racconta bugie. È proverbialmente vasto il repertorio di bugie dei cacciatori che devono reggere la concorrenza di quello dei pescatori. Più palesemente si dice: «Cashadùr e pescadùr i cöntô bàle de shaùr» (Cacciatori e pescatori raccontan balle saporite).

Chei che gh'à pórô
del pecàt(e del Diàol)
i rèstô col cül pelàt

Quelli che hanno paura del peccato (o del Diavolo) restano col culo pelato.
Se, ad esempio, vuoi rubare, ma hai paura, non devi farlo: verresti sicuramente scoperto. Non sei scaltro, anzi, sei proprio ingenuo. Ti tradiresti perché non è roba per te.

Chel che Dio öl
l’è mai trop

Quello che Dio vuole non è mai troppo.
Accetta ciò che Dio ha disposto e non lamentartene. Se ti guardi attorno ti accorgerai che c'è anche di peggio.

Chel che 'l gh'à 'n cör
el gh'à a' 'n bócô

Quello che ha nel cuore l'ha anche in bocca.
È l'esaltazione della schiettezza, della sincerità più genuina. Si usa anche per indicare il «sinceròt» (bonaccione, sprovveduto).

Chi che fa, i fàlô,
chi nó fa, i sfarfàlô

Chi fa, falla, chi non fa, sfarfalla.
Detto per giustificare chi, alle parole ha fatto seguire le opere. Lo possibilità di sbagliare appartiene a chi agisce.
Il detto sembra affermare che solo chi non fa mai niente non sbaglia, ma fa del sarcasmo per dire che chi chiacchiera senza agire è inattendibile perché, non solo non è riuscito a fare qualcosa, ma non ci ha neanche provato.

Chi che gh'à mìô có
i gh'àbe gàmbe

Chi non ha testa abbia gambe.
Spesso, sopra pensiero, ci si dimentica di fare la tal cosa. Per rimediare non resta che tornare indietro.

Co la tumpèstô,
la shötô e la brìnô
i ta ‘nségnô a ‘ndà
a mèshô e a dutrìnô

Con la tempesta, la siccità e la brina ti insegnano ad andare a messa e a dottrina.
Ti ricorderai di pregare... Le devozioni, le invocazioni e le preghiere erano assidue. Il detto è quasi un'intimazione a non aspettare il castigo perché quando capitano queste calamità è già troppo tardi.

Cöntemen tànte

Raccontamene tante.
Un «Cöntemen tànte» è un bugiardo, ma in certi casi significa burlone.

De i cop en sö
sha cumàndô piö

Dai coppi in su non si comanda più.
Il tuo potere è molto limitato. Detto sia in senso meteorologico che religioso.

De le ólte dürô piö tat
en bicér sgrapàt(*)
che giü nöf

Delle volte dura più un bicchiere (*) che uno nuovo.
(*sgrapàt: graffiato, sbeccato, segnato, rovinato esteticamente.)
Succede che una persona piena di acciacchi campi più a lungo di una più giovane e in buona salute.

De 'n santantóne
shàltô dét
gnè 'n santantunì

Da un santantonio non salta dentro (non riesci a fare) neanche un santantonino.
Si dice a chi sbaglia a prendere le misure. Per esempio se hai un pezzo di stoffa per fare un vestito e sbagli a tagliarla rischi di non riuscire ad utilizzarla neanche per un vestito più piccolo.

De nòt i-a pènsô
e del dé i-a fa

Di notte le pensano e di giorno le fanno.
Si dice di chi ne combina di tutti i colori.

De ‘l cantà sha conós l’uzèl,
ma a parlà ga öl servèl

Dal (modo di) cantare si conosce l'uccello, ma per parlare ci vuol cervello.
Da ciò che dici ti posso riconoscere e giudicare.

Dio 'l dà ‘l fiöl
e ‘l sò caagnöl

Dio dà il figlio ed il suo cestello.
La provvidenza ti aiuterà. Le ceste di vimini o le «cüne» (culle) di legno nelle quali venivano messi i neonati erano simbolo della provvidenza di Dio.

el cönt shènsô l’ustér
sha 'l fa dò ólte

Il conto senza l'oste si fa due volte.
Per una valutazione attendibile bisogna tener presente tutto e tutti.

el còrp a la tèrô,
l’ànemô a Dio
e la ròbô a chi che la ga 'à

Il corpo alla terra, l'anima a Dio e la roba a chi spetta.
Quando morirai non potrai portare niente nell'aldilà. Anche a te succederà esattamente come a tutti gli altri.

el gh'à mìô òiô de piegàlô

Non ha voglia di piegarla.
Del lazzarone si dice che non ha voglia di piegare la schiena. Non ha voglia di lavorare.

el gh'à la biligòrniô(*)

Ha la (*biligòrniô = malavoglia, sonnolenza, malinconia).
Il termine lascia intendere un'origine lunatica di queste "patologie". Non è chiara l'origine del termine, ma fa molto pensare ad un altro simile usato in Valle Camonica, «Bidigàna», che trae la sua origine dal termine «bizigà» (fare lavori di poco conto, lavoricchiare, giocherellare).

el m'è bèle rampàt sö
ré a 'na gàmbô

Mi si è già arrampicato su per una gamba.
In questo modo si vuole manifestare la propria irritazione, il fastidio che si prova verso un certo atteggiamento della tal persona. È insopportabile!

el Signùr el dìs
àidet che ta aideró

Il Signore dice: «Aiutati che ti aiuterò».
Non star lì con le mani in mano in attesa che altri risolvano ciò che tu non stai cercando di risolvere. Si dice per dare conforto Ad un ammalato, per esempio si dice: «Tu pensa a curarti e vedrai che la provvidenza...».

el Signùr el làshô fa,
ma mìô strefà

Il Signore lascia fare, ma non strafare.
Ci sarà la giusta punizione per i prepotenti.

el Signùr el màndô 'l fret
a shegónt d'i pagn(o del let)

Il Signore manda il freddo a seconda dei panni (o del letto).
Il Signore manda le disgrazie in proporzione alla capacità di sopportare. Bisogna accontentarsi di quel poco che si ha...
Se questa è la Sua volontà...

el Signùr
el völ nishü cuntécc

Il Signore non vuole nessuno contento.
Non riposare sugli allori. Quando pensi di essere tranquillo, che tutto sia rose e fiori, ti capiterà di inciampare in qualche spina, in qualche disgrazia.
Si diceva, di solito, anche a commento delle disgrazie proprie o altrui.

en de ‘l paés d'i òrp
i la fa bé a i sguèrs

Nel paese degli orbi la fanno bene anche i guerci.
Gli orbi sono più svantaggiati dei guerci che a loro volta sono più svantaggiati di chi ci vede bene. Si dice di chi emerge, pur essendo poco dotato (guerci), quando si trova a confrontarsi con un gruppo di persone più svantaggiate.
È usato più raramente, in tutt'altro contesto, col significato di fingere di non vedere per dare una scappatoia o una via d'uscita a chi è in difetto.

el gh'à 'n pó de pólver

Ha un po' di polvere.
Si dice dell'omosessuale. Una volta il detto era accompagnato anche dal gesto delle dita della mano che colpiscono l'orecchio come per scrollarne la povere. Il gesto era fatto per richiamare alla mente «i ureciù» (la parotite) che, nei maschi, può portare all'infertilità come non fertile è il rapporto omosessuale.
Oggi la moda impone l'orecchino anche ai ragazzi che lo mettono sulla sinistra perché dicono che sulla destra lo portano gli omosessuali. Perché? Forse ritorniamo al vecchio: «urèciô mansìnô, paròlô mulzìnô - urèciô 'ndrétô, paròlô malfidétô!»

en paradìs
sha 'à mìö ‘n caròshô

In Paradiso non si va in carrozza.
La via della salvezza è stretta e piena di tentazioni e di difficoltà.

en tép de guèrô
piö bàle che tèrô

In tempo di guerra più balle che terra.
In tempo di guerra le notizie su morti, conquiste, ritirate strategiche ecc., sono quasi sempre bugie. Per valutare le parole devi tener conto del contesto in cui si dicono.

Frà mudèst
l’è mai deentàt priùr

Fra modesto non è mai diventato priore.
Chi non mira al potere. L'onesto non diventa ricco.

Gh'è ‘l Signùr
a' per i ciòc

C'è il Signore anche per gli ubriachi.
Quando vedi un ubriaco che procede zigzagando sulla strada senza che venga investito, nonostante l'evidente pericolo, ti viene da pensare che, per forza, «gh'è ergü che àrdô zó» (c'è Qualcuno che guarda giù).

Gh'è piö tép che étô

C'è più tempo che vita.
Fai con calma. Si dice anche ironicamente a chi sa di non stare nei tempi previsti e non si dà da fare per cercar di ricuperare.

gh'è rimedio a töt
förô che a la mórt

C'è rimedio a tutto fuor che alla morte.
Per consolare in situazioni difficili.

Gh'ét el mal de la nónô?

Hai il male della nonna? (Encefalite).
È ora di svegliarsi! Datti una mossa! Dormi? Si dice a chi è poco spigliato, chi se la prende comoda.

Ghè n'è mìô de gioedé

Non ce ne sono di giovedì.
È certamente così; non ci sono discussioni da fare. Questo detto e tutti quelli che fanno riferimento al giovedì, come «Ghe n'è amò de gioedé?» (Ce ne sono ancora di giovedì?) o «Ta màncô na quac gioedé?» (Ti manca un qualche giovedì?) ed altri simili, fanno riferimento a qualcosa di scocciante.
I detti, probabilmente, si riferiscono «...a quando i ragazzi non andavano a scuola il giovedì e passavano la loro giornata per strada, di fronte a botteghe, laboratori o altre attività lavorative, giocando e facendo gazzarra.» (Angelo albrici, "Sentènse dè 'na ólta").
Equivale a: «Ti manca una rotella», cioè non sei troppo equilibrato.

Gnè tat, gnè póc, gnè mìô

Né tanto, né poco, né niente.
Drasticamente negativo. Irremovibile. «Gnè shè ta piànzet cinés» (neanche se piangi in cinese). Assolutamente no.

Gròs come 'na bórô(*)

Essere grosso come una (*)Bórô è il tronco di una grossa pianta, ma comunemente significa trave di legno. Con la stessa radice, parole come «burèlô» (rotula) e «borelà» o «birulà» (rotolare) richiamano la forma rotonda.
Ignorante. Grossolano, poco raffinato. Tanto volume, ma niente cervello.

I la sha
a' i ca de la Mandalòshô

Lo sanno anche i cani della Mandolossa (Bs).
È di dominio pubblico come per il "segreto di Pulcinella".

I n'à fat...
de ènder e de spènder

Ne hanno fatte... da vendere e da spendere
Ne hanno combinate di tutti i colori. Si dice dei tipi famosi per la loro avventurosità o intraprendenza non sempre a lieto fine. In altri casi si usa «i n'à fat de òrbe» (ne hanno fatte... da orbi).

Istés en pal
che ‘l par en cardinàl

Vesti un palo e vedrai che pare un cardinale.
L'apparenza. Quando l'abito fa il monaco.

La catìô laandérô
la tróô mai la bùnô prédô

La cattiva lavandaia non trova mai la buona pietra.
Una volta i panni si lavavano a mano e nell'acqua della fontana. Nella maggior parte dei casi, la fontana non era altro che un posto dove c'era acqua corrente (quasi sempre sorgiva) vicino al cui limitare si posavano delle pietre che servivano da lavatoio. La cattiva lavandaia non riesce mai a trovare la pietra giusta per il suo bucato.

La mèshô l’è lóngô,
la diusiù l’è cürtô

La messa è lunga, la devozione è corta.
È una specie di botta e risposta detta tutta d'un fiato. La funzione religiosa è lunga quando c'è poca devozione. Si dice a chi pensa che la messa non finisca mai perché si stufa presto.

L'àzen de natürô
el conós mìô la shò scritürô

L'asino di natura non conosce la propria scrittura.
Così si dice alle persone, ma soprattutto agli scolari, che hanno una calligrafia incomprensibile per gli altri e che loro stessi hanno difficoltà a riconoscere. «I scrìf co la ràspô de galìnô» (Scrivono con la zampa di gallina).

Mèter al sicür la mèshô

Mettere al sicuro la messa.
Con questa espressione si esprimeva la preoccupazione di osservare il precetto festivo. A volte il lavoro nei campi riservava imprevisti che rendevano impossibile la partecipazione alla messa (quella "alta" era cantata e durava anche un'ora e mezza). La chiesa «...ben lontana dal proibire... raccomandava di non falciare il prato di sabato per non dover raccogliere il fieno di domenica» (Oberto ameraldi, "Modi di dire che scompaiono").
Per dire che non si era andati a messa si diceva: «Gh'ó tacàt vià la mèshô» (Ho appeso la messa).

La ràbiô de la shérô
tègnelô a mà per la matìnô

La rabbia della sera, conservala per la mattina.
Ragiona a mente fredda. Non agire d'impulso.

L'è màgrô la càvrô!

È magra la capra!
Sconsolante affermazione per indicare una ristrettezza economica che non vede prospettive di miglioramento.

L’è ‘n tórcol!

È un torchio.
Insopportabilmente insistente.

L’è bu
gnè per i cài

Non è buono neanche per i calli.
Buono a nulla.

L’è 'na büzeràdô

È uno sproposito.
Cosa palesemente sbagliata. «Bóziô» o «bórgiô» è il truciolo fatto dalla pialla del falegname, ma significa anche bugia.

L’è 'na gran vacàdô

È una gran vaccata.
Un errore madornale, uno sproposito.

L’è 'na schénô falàdô

È una schiena fallata.
Fannullone. Ironicamente si dice anche: «el gh'à la cànô de édre» (Ha la canna di vetro) cioè la colonna vertebrale fragile e che non si può piegare: si romperebbe. Oppure, sempre in tema, si chiede: «Shét pashàt deànti a la becherìô?» (Sei passato davanti alla macelleria?) insinuando che il macellaio gli avrebbe dato un osso da mettere al posto della colonna vertebrale che pertanto non può piegarsi.

L'è 'n càô-décc

È un cavadenti.
Colui che sa di farti male, ma lo fa lo stesso, «...el ta shemèntô ashé» (ti tormenta abbastanza). Un tiranno.
Indica anche l'avaro o lo strozzino che ti tormenta e ti toglie la possibilità di mangiare.

L'è 'n pàpô e nànô

È un pappa e nanna.
Uno che ha due sole attività: mangiare e dormire. Uno tranquillo. Lo si dice, con un tono di compiacimento, soprattutto del bambino piccolo. Si usa anche per gli adulti, ma per loro l'appellativo più frequente è: «Padre Pacifico».

L'ó mai vést...
gnè shöl lünàre!

Non l'ho mai visto... neanche sul lunario.
Per dire: «Incredibile!» o «Ma che novità è mai questa?».

L’òsio l’è
‘l pàder de töcc i éshe

L'ozio è il padre di tutti i vizi
Chi non ha da fare può pensarle tutte, chi lavora ha già tante cose di cui occuparsi.

Mei brötô pèshô
che bel büs

Meglio brutta pezza che bel buco.
Poco estetico, ma economicamente efficace.

Mei lìzô che rótô

Meglio lisa che rotta.
Meglio poco che niente.
Le malelingue usano questo detto in doppio senso per insinuare che la verginità della tale non è proprio illibatezza.
Nella scala delle preferenze si dice: «Mei lìzô che mèzô, mei mèzô che rótô, mei rótô che nigótô» (meglio lisa che mezza, meglio mezza che rotta, meglio rotta che niente).

Mei cünsümà le scàrpe
che i lensöi

Meglio consumare le scarpe che le lenzuola.
Bisogna darsi da fare. Chi consuma le lenzuola è ammalato oppure è uno scansafatiche e chi consuma le scarpe si dà da fare.

Móchelô lé
de fa 'l rampì(*)

Smettila di fare il (*rampì = gancio, uncino).
Spesso il termine è sostituito da «rampighì» (tipo di uccello) e sta a rappresentare quella cosa fastidiosa che ti sta addosso o che non puoi evitare, proprio come può accadere con un «rampì».

Mórt en pàpô
i na fa ‘n óter

Morto un papa ne fanno un altro.
Tutti sono utili, ma nessuno è insostituibile.

Müs de tólô(*)
müs de palpaciólô(**)

Muso di (*Tólô = recipiente in lamiera)
(**Palpaciólô = fanghiglia)
Si dice di chi non prova vergogna per quel che combina e non gli interessa di avere una cattiva reputazione, si dice anche: «El gh'à la ramérô shöl müs» (ha la lamiera sul muso). La lamiera, infatti, veniva inchiodata sotto la scarpa in modo che la suola «de cüràm» (di cuoio) non si usurasse tanto in fretta e durasse di più.
È una frase fatta, usata soprattutto tra i bambini. La carica di offensività contenuta nei simboli è molto alta (essere meno della suola delle scarpe, essere calpestato da tutti ed anche con un certo fastidio), ma detto dai bambini si riduce ad una semplice frase di ripicca. Faccia tosta.

Nó 'é zó gnè 'na fòiô
che Dio nó ‘l gh'àbe òiô

Non viene giù una foglia che Dio non voglia.
Non lamentarti di quel che ti sta accadendo perché c'è qualcosa nel disegno di Dio che tu non puoi capire; anzi, dovresti dire "sia fatta la Sua volontà". Dio vede, Dio provvede.

Ocorerà mìô
la scàlô de shédô...

Non occorrerà la scala di seta...
Lo dice minacciosamente chi non ha paura di nessuno e continua «...per dat du pelòc» (per darti due scopaccioni).

Nücc en rìô
e nücc en và

Nudi arriviamo e nudi andiamo.
Siamo tutti uguali di fronte a Dio. Non conta ciò che hai, ma ciò che sei; alla fine non ti porti nulla nell'aldilà.

ògne barù(o striù)
‘l gh'à la shò diusiù

Ogni briccone (o stregone) ha la sua devozione.
In ogni persona, anche la più cattiva c'è un lato positivo: il suo credo, la sua coscienza.

Pói e précc
g'è mai cuntécc

Polli e preti non sono mai contenti.
«...Gh'è shèmper de dàghen» (...C'è sempre da darne). Una volta la chiesa, un'altra la canonica, poi i poveri, le missioni, ecc.

Précc e frà
g’è malfà de cuntentà,
s-ciòr e dutùr
g’è isé pò a' lur

Preti e frati è faticoso (difficile) accontentarli, signori e dottori sono così anche loro.
Sono tutti coloro a cui si doveva levare il cappello.

Précc mòneghe è frà
léegô ‘l capèl
e làshei èndà

Preti monache e frati levati il cappello e lasciali andare.
Evita discussioni inutili. Ricorda che chi è capace di benedire è capace anche di maledire, perciò porta loro il massimo rispetto e mantieni una certa distanza.

Pòtô(*)
i la dìs a' i frà
quan’ ch' i sha scòtô

(*) lo dicono anche i frati quando si scottano.
(*Pòtô = potta, vulva, vagina).
È una parola che col tempo ha perso il suo significato originario e si è "purificata"; oggi è usata come intercalare o al posto di espressioni come: «pazienza!», «caspita!», «ecco...», «accidenti!» e tante altre. Quando è iniziata a circolare, sicuramente «pòtô» era una parola sconveniente (come oggi sentir dire, ad esempio, "figa"). Si poteva giustificare o tollerare quando fosse "scappata" in determinate circostanze. E scappava anche a chi della pazienza e dell'autocontrollo aveva fatto una regola di vita.

Prümô ‘l Signùr
e pò ‘l dutùr

Prima il Signore e poi il dottore.
Devi avere più fede in Dio che negli uomini. Il dottore è solo un meccanico, mentre Dio è sia il costruttore che il demolitore.

Quan’ che
ghè n’è ‘n de la bòtô
‘l góshô
‘n de la cunchètô(*)

Quando ce n'è nella botte gocciola nella (*cunchètô = specie di vaschetta di legno rettangolare usata per raccogliere le gocce di vino che escono dalla spina della botte).
È un'immagine molto appropriata, usata per sottolineare la falsa generosità di chi vive nell'abbondanza.

Scùô nöô
la scùô bé la ca

Scopa nuova scopa bene la casa.
Si dice di ogni cosa nuova. Ad esempio: la novità, la dedizione, la voglia di far bella figura di chi comincia un nuovo lavoro porta a dare di lui un giudizio positivo, ma è sempre meglio aspettare perché... non si sa mai!
Gabriele rosa (Dialetti, costumi e tradizioni nelle provincie di Bergamo e Brescia) riporta il detto: «Fattor nuovo tre dì buono» e lo commenta: «...dicesi per dinotare l'attenzione che mostrano nel principio del loro ministero le persone di servizio». Si usa anche per mettere in guardia dalle amicizie nuove che sembrano sempre positive, ma, sottoposte alla prova dei fatti e del tempo spesso...

She ta shét gròs!

Come sei grosso!
Poco delicato, poco raffinato. Si sente dire anche: «Fat zó col pudèt» (Fatto col pudèt = roncolone da taglialegna). Grossolano, grezzo, approssimativo. Insomma essere un «materialòt».

She ta shét mìô bu de fa,
ta shét bu gnè de cumandà

Se non sei capace di fare, non sei capace neanche di comandare
...con buona pace dei tuttologi.

Shì de rèlô

Maiale da porcile.
Nel dire a qualcuno che è un «sì de rèlô» si vuole aggiungere una qualificazione peggiorativa del "titolo" di maiale, inquadrando anche l'ambiente in cui vive, che aiuta a renderlo più ripugnante. L'espressione è usata spesso all'indirizzo di coloro che, senza ritegno, si esibiscono in volgarissimi rutti in pubblico o altre "perle" simili.

Sperà e disperà,
ma shènsô ezagerà

Sperare e disperare, ma senza esagerare.
Sii equilibrato, non abbandonarti totalmente alle emozioni.

Spüdô fò la tò rezù!

Sputa fuori la tua ragione.
Dì la tua! Confidati, sfogati!

Sta ‘n carezàdô

Stare in carreggiata.
Rigar dritto. Andare per la propria strada.

Sh'èt che l’è ‘n müdö

Si vede che è in muta.
La muta è il periodo di ricambio delle penne degli uccelli. Siccome gli uccelli cantano solo in primavera, i cacciatori tengono al buio gli uccelli da richiamo per far loro confondere le stagioni. A S. Giovanni Battista strappano le ultime tre penne delle ali e tutta la coda che avranno così tempo per rifarsi. Quando vengono portati alla luce si mettono a cantare e si dice che fanno primavera. Con questo detto ci si riferisce ironicamente a chi non si vede da un po' di tempo.

Ta fó éder
la lünô ‘n de ‘l pós

Ti faccio vedere la luna nel pozzo.
Ti faccio prender uno spavento che... Come oggi si sente dire, ad esempio, "ti faccio vedere i sorci verdi".

Ta ma fét vègner
el làt ai zenöcc

Mi fai venire il latte alle ginocchia.
Si dice di persona o situazione seccante, fastidiosa fino all'inverosimile. Come: «Ta ma fét nà zó i bràs» (Mi fai andar giù, cadere, le braccia). Il latte alle ginocchia è il polemico «fa nà zó le tète» (far andare giù le tette) detto un po' più all'acqua di rose.

Ta ma fét vègner
el sanàer

Mi fai venire il mancafiato.
Dicendo che qualcuno «l’è ‘n sanàer» si dice che è un buono a nulla, un tipo scontroso oppure un seccatore. Assillante fino a togliere il respiro. «Shanàer», letteralmente significa senape.

Ta shét endré
'na carezàdô

Sei indietro una carreggiata.
La carreggiata qui è da intendersi come «riàl» o «caedàgnô» (capezzagna, tratturo) cioè strada d'accesso al campo che si trovava «al có del ciós» (alla testa del campo). Per i contadini che lavoravano su e giù per il campo, essere indietro una carreggiata significava non tenere il passo, essere lenti.
Applicato alla ragionevolezza, sta per: «Sei ignorante!».

Ta shét endré
'n car de réf

Sei indietro un carro di refe.
A proposito di "essere indietro" questo detto è molto peggiorativo del precedente. Provate ad immaginate quanto sia lungo il filo che sta su «'na ruchètô» (rocchetto). Sono diverse decine di metri. Se provate a pensare quale sarà la misura che esce dal calcolo di un carro pieno di rocchetti...

Ta ‘l sét
come ta stét!

Lo sai come stai!
È per questo che pensi male degli altri.

Töcc i bu i gh'à ‘l sò catìf

Tutti i buoni hanno il loro cattivo.
Ogni medaglia ha il suo rovescio.

Töcc i ca i ménô la cùô,
töcc i coió i völ dì la sùô

Tutti i cani menano la coda, ogni coglione vuole dire la sua.
Si dice di chi, pur non avendo niente di significativo da dire, vuole ad ogni costo intervenire nella discussione. Sarebbe come dire: «Lascialo parlare (anche a sproposito)... c'è libertà di parola».

Töcc i gh'à la bócô
taiàdô de treèrs

Tutti hanno la bocca tagliata di traverso.
Siamo tutti uguali. Tutti dobbiamo mangiare.

Tögô de óltô

Prendi la volta.
Datti una mossa! Non tutto è perduto, cerca di ricuperare! Devi farcela, sei ancora in tempo. Puoi ancora girare la situazione a tuo favore! Più direttamente: «Vàghen förô» (Vanne fuori). Spicciati!

Và a zügà,
alà,
che ta shét en ciàncol

Vai a giocare, va là, che sei un (*ciàncol, nel gioco della lippa, è il legnetto più corto con le estremità appuntite, che viene fatto saltare picchiandolo sulla punta con la «canèlô» (legno più lungo) e poi colpito al volo per essere lanciato il più lontano possibile dalla tana-base).
Significa essere un voltagabbana, un "pirla", uno sciocco, un buono a nulla.
Sui giochi bisognerebbe fare un capitolo a parte, ma per ora mi limito ad elencarne alcuni tra i più diffusi:
ciàncol, zöc de la galìnô (coi sassi), co le àrme, a móndo, co la bàlô cùtrô 'l mür, cügià e pirù (angilì e diaulì), lingalòs, bandiérô, barbanzèt, a shàltô mulètô, a scundìs, a cicòcc, a ciapàs, a pè-pensöl, a pìpel, a lìberô, a fashöl, a caàl.
Le femmine giocavano con «le püe» (bambole), i maschi a lotta e col fucile fatto con un bastone.
Alcuni di questi giochi sono stati oggetto di ricerca durante i "laboratori" della scuola media di Corte Franca alcuni anni fa.

Vé zó del fic!
(o... Vé zó de la piàntô!)

Vieni giù dal fico! (o... Vieni giù dalla pianta!)
Matura! Sveglia! È finito il periodo dello svezzamento! Non puoi essere così credulone!

Vis-de-càs

Viso di cazzo.
La negatività in persona.

 

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