Molti
anni fa, leggendo un testo che riportava la
sintesi del Talmud, redatto dal Rabbino Alfredo Choen,
edizioni Forni, Bologna, mi
soffermai un istante per riflettere
in modo profondo la problematica
emersa dalla sintesi di questo
immenso studio (circa seimila pagine). Pensai che l’essere umano, in genere,
vive di stereotipi di massa, e che difficilmente riesce a scrollarsene per
pensare in modo libero e distaccato. L’uomo in genere continua a vivere di
condizionamenti anche
storico-culturali che rendono spesso la
stessa cultura come
“mutilata”.
Cercai
allora di approfondire il tema del
perdono, presente anche nel
testo talmudico. Ebbi modo di leggere come in molti
passi, non si discosta dal perdono citato dai testi del nuovo testamento.
E’
proprio per questo motivo, che trovo opportuno oggi,
riportare una parte del testo talmudico:
“L’armonia
che dovrebbe regnare nella Comunità
verrà inevitabilmente turbata dalle discordie fra gli individui. Il buon
cittadino deve, di conseguenza, desiderare che tali contese cessino rapidamente
e si ristabiliscano relazioni pacifiche. Due condizioni sono necessarie per
raggiungere questo risultato: la prima è che chi ha torto si affretti a
riconoscerlo e solleciti il perdono dell’offeso.
Il Talmud è categorico a tale
riguardo e descrive anche la procedura da seguire: “Chi ha peccato verso il
suo prossimo deve dirgli: “Ho agito male verso di te”
Se questi accetta benissimo, altrimenti porterà testimoni e si concilierà
in loro presenza; come è detto: “Farà file di persone
(sic)
davanto agli uomini e dirà: “Ho peccato e pervertito ciò che era
giusto e non mi ha giovato” (Job., XXX, 27. Se fa così, di lui dice la
scrittura: “Egli ha redento la mia anima dall’andar
nella fossa, e la mia vita contemplerà la luce” (ibid., 28). Se
l’offeso è morto dovrà riconciliarsi sulla
sua tomba e dirà: “ Ho agito
male verso di te” (p. Joma, 45 c)
Un altro maestro dichiarava: “Se qualcuno ha sospettato a torto un
altro, deve riconciliarsi con lui, più
ancora, deve benedirlo” (Ber., 31b). Si poneva però un limite
al numero dei tentativi di riconciliazione da farsi:
secondo un’ opinione, non più di tre (Joma, 87a).
Un Dottore diceva di se stesso: “La maledizione del mio prossimo non è
mai salita sul mio letto” (Meg., 28a), volendo
significare che era sempre riuscito a pacificarsi
con coloro che egli aveva offeso durante il giorno, prima di ritirarsi a
riposare.
In secondo luogo, l’offeso ha il dovere di accettare le scuse
presentategli e di non serbare rancore. Si avverte che: “L’uomo deve sempre
essere flessibile come un rasoio e non rigido come un cedro” (Taan., 20b);
“Dimentica l’insulto che ti è stato arrecato” (ARN, XLI). Un Rabbi, prima
di coricarsi, usava pregare: “Perdona chiunque mi ha cagionato affanni”
(Meg., 28a).
Una saggia raccomandazione, che tendeva a diminuire i conflitti e a
dirimerli prontamente quando sorgevano, dice: “Se hai recato al tuo compagno
un torto piccolo, questi sia grande ai tuoi occhi; se gli hai fatto molto bene,
questo sia poco ai tuoi occhi; se
ti ha fatto un piccolo bene, questo sia grande ai tuoi occhi” (ARN, XLI).
La proibizione formulata in
Levitico cap. 19, v. 18 “Non prenderai vendetta né serberai rancore” viene
così definita: “Che significa vendetta e che significa rancore? Vendetta è
quella di chi dice al proprio compagno:” Prestami il falcetto” e quello lo
rifiuta; e, questi il giorno dopo dice: “Prestami la tua ascia”, e l’altro
risponde: “Non ti presterò niente, al modo stesso che tu hai rifiutato di
prestare a me”. Rancore è quello di chi dice al proprio compagno: “Prestami
la tua ascia”, e quello rifiuta; e questi il giorno dopo dice: ”Prestami la
tua veste”, e l’alto risponde: ‘Eccola!’.
Io non sono come te, che non hai voluto prestarmi ciò che ti
domandavo”.
Coloro che vengono
insultati, ma non rispondono con insulti, coloro che si sentono rimproverare e
non rimproverano, coloro che fanno (la Volontà di Dio) per amore e coloro che
sono felici nell’afflizione, di tutti costoro
la Scrittura dice: "Coloro che
Lo amano siano come il Sole quando esce nella sua potenza” (Giudici cap. V, v.
31). Chi dimentica la vendetta, i suoi peccati sono perdonati; quando chiede
perdono, lo ottiene” (Joma, 23a).
Viene biasimato l’atteggiamento di chi si rifiuta di riparare la breccia, e respinge le proposte di conciliazione che gli vengono offerte. “A colui che ha compassione del suo prossimo (e perdona i torti che ha subito) sarà mostrata compassione dal Cielo; ma chi non ha compassione del suo prossimo, non sarà mostrata compassione dal Cielo” (Shab. 151 b) . Un Dottore del primo secolo citava con compiacenza questo verso: ”Non rallegrarti quando il tuo nemico cade, e il tuo cuore non sia lieto quando egli inciampa, perché il Signore non veda, Gli dispiaccia e distolga da lui la sua ira “ (Proverbi cap. 24, vv. 17 e seg.) e (Aboth, IV, 24).
Ciò significa, che l’uomo il quale si rifiuta di perdonare, conserva
la inimicizia e gode quando la sventura cade sugli altri, diviene per ciò
stesso colpevole, e la collera di Dio si distoglie dall’altro, per cadere su
di lui.