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CATANIA
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IL MITO


Sembra, scrive lo storico Santi Correnti, che l'uomo sia apparso in
Sicilia nel periodo paleolitico, circa un milione di anni fa.
Il toponimo di Catania deriverebbe dal siculo Katane, che significa
grattugia,  scorticatoio, dal terreno lavico su cui sorge.
I mitologi antichi favoleggiano dei Ciclopi e dei Lestrigoni, che
avrebbero abitato l'area della Sicilia che comprende oggi l'Etna,
Catania e Lentini. I primi, noti per la leggenda narrata nell'Odissea,
sarebbero stati esseri giganteschi e mostruosi con un solo occhio, che,
ancora secondo Correnti, possono essere spiegati o come
personificazione dei crateri dell'Etna o dalla presenza di crani di
elefanti nani, certamente esistiti nell'Isola, in cui il buco della
proboscide venne interpretato come cavità oculare. Nell'Odissea
Polifemo, il capo dei Ciclopi, accecato con astuzia da Ulisse, avrebbe
scagliato dei massi enormi per cercare di colpire il natante dell'eroe
greco, senza riuscirvi. Questi massi, caduti in mare, sarebbero i
Faraglioni e l'isola Lachea, antistanti Acitrezza. I secondi, i
Lestrigoni, ancora secondo le leggende narrate da Omero, erano
anch'essi di statura gigantesca ed antropofagi ed avrebbero abitato le
terre di Lentini.
Un altro dei miti cari ai catanesi è il ratto di Proserpina. La grande
fontana in Piazza della Stazione richiama la leggenda della bella
Proserpina, figlia di Zeus e di Demetra, mentre viene strappata alla
terra da un Plutone dal volto corrucciato su un cocchio tirato da
cavalli e da sirene. Trattandosi di una leggenda legata alla
religiosità agricola mediterranea, anche per il ruolo svolto da
Demetra, dea delle messi, il luogo della scena del ratto è stato
rivendicato da diverse popolazioni, dai tarantini ai lentinesi, dagli
ennesi ai siracusani e ai catanesi. Essa rappresenta, comunque,
l'esperienza religiosa della fertilità della terra, che tra i popoli
mediterranei aveva una grande diffusione.
Secondo la tradizione più accreditata, i più antichi abitatori storici
della Sicilia, che si stanziarono anche alle falde dell'Etna, sarebbero
i Sicani, popolazione agricola che chiamò l'Isola Sicania. Queste genti
furono successivamente cacciate all'interno dai Siculi, guerrieri
provenienti dalla penisola italica. Secondo Correnti, ancor oggi,
quando i siciliani vogliono essere creduti in ciò che affermano,
giurano sui propri occhi, perchè i Siculi punivano gli spergiuri con
l'accecamento.
A una leggenda antichissima, secondo l'Enciclopedia di Catania, edita
da Tringale, è riportata l'origine dell'elefante di Catania, che dal
1239 è il simbolo ufficiale della città. Questa leggenda,
ricollegandosi al fatto storico che la Sicilia, nel paleolitico
superiore, possedeva tra la sua fauna originaria anche l'elefante nano,
racconta che quando Catania fu per la prima volta abitata, tutti gli
animali feroci e nocivi furono messi in fuga da un benigno elefante, al
quale i catanesi, in segno di gratitudine, eressero una statua, da essi
chiamata col nome popolare di Liotru, che è una corruzione dialettale
del nome di Eliodoro, un dotto catanese fatto bruciare vivo nel 778 dal
vescovo di Catania. Secondo il geografo arabo Idrisi l'elefante di
Catania è una statua magica, un vero e proprio talismano, costruito in
età bizantina, in pietra lavica, proprio per tenere lontane dalla città
le offese dell'Etna. I catanesi sono legatissimi al simpatico
pachiderma, tanto da autodefininirsi marca elefante quando vogliono
dire di essere catanesi autentici.
Altre leggende popolari sono quelle dei fratelli Pii, che, avendo
salvato i vecchi genitori dalla furia della lava, resero Catania
celebre per la pietà filiale, dei giganti saraceni Ursini, sconfitti ed
uccisi dal paladino Uzeta, del cavallo del vescovo di Catania che sparì
dentro il cratere dell'Etna, della patetica storia di Gammazita, che si
gettò in un pozzo per non essere disonorata da un soldato francese,
della variante catanese di Cola Pesce, del cavallo senza testa, che gli
intriganti frequentatori settecenteschi di via Crociferi inventarono
per non essere notati o riconosciuti quando si recavano a segreti
incontri amorosi o in luoghi di cospirazione.
  
 
SETTECENTO: RICOSTRUZIONE E RIFIORITURA

 
Catania appare oggi al visitatore accorto come una città nuova. Dal
punto dì vista urbanistico e architettonico, il 1693 è il suo anno di
nascita. Le strade larghe e dritte, dalla maglia ad angoli retti; i
palazzi e le chiese uniformi per stile, decorazioni e materiali;
l'impiego coerente della lava nera e della pietra calcarea chiara;
l'impianto scenografico di luoghi come la piazza del Duomo: tutto fa
pensare ad un progetto organico, e dà un senso preciso alla definizione
di barocco catanese. Eppure, non solo la ricostruzione prese lo spazio
di diverse decine d'anni, ma moltissimi edifici vennero rimaneggiati,
sopraelevati, completati, ancora ai primi dell'Ottocento.
Il fatto cruciale fu la decisione di intervenire subito con un progetto
complessivo. Il viceré Giovan Francesco Paceco duca di Uzeda, uomo di
cultura e di interessi scientifici, si trovò di fronte al compito di
ricostruire ben 77 città, alcune delle quali di importanza militare
preminente, come il porto di Augusta. Affidò quindi l'incarico di
vicario generale per il Val di Noto a Giuseppe Lanza duca di Camastra.
Catania appariva totalmente distrutta. A far pendere la bilancia verso
la decisione di ricostruire sullo stesso luogo fu l'esigenza di non
abbandonare le fortificazioni. Il duca di Camastra si servì di tecnici
e ingegneri militari per sgomberare le macerie, prendere iniziative
contro i predoni e nutrire la popolazione. Nel giugno del 1694, col
concorso d rappresentanze di tutti gli ordini di cittadini, egli
approntò il piano generale.
Una linea ideale divideva la città in due parti, assegnando ai terreni
due diversi prezzi convenzionali: quella ad ovest, in cui il prezzo dei
terreni veniva scontato di circa un terzo, fu destinata ad accogliere,
come già prima, i quartieri popolari; verso est si concentravano invece
gli edifici della nobiltà laica ed ecclesiastica. Le strade larghe,
interrotte da piazze frequenti e regolari, costituivano una precauzione
antisismica. Furono definiti gli assi viari principali, sovrapponendo
delle linee rette all'antico corso tortuoso delle vie e sottolineando,
nella parte ovest del Corso, l'antico impianto della città romana.
"Facevano a gara i cittadini per ricostruire case e palazzi" scrive lo
storico benedettino Vito Amico. Egli riporta così un dato importante:la
dimensione autonoma, in parte popolare, degli sforzi compiuti per
riempire di realtà edificate il tracciato che le autorità avevano
predisposto. Ne resta memoria nella tradizione che assegna la decisione
di ricostruire Catania all'energico attivismo di un canonico della
cattedrale, Giuseppe Cilestri, e di suo nipote Martino.
Il fervore della ricostruzione dà il tono alla vita di Catania
settecentesca; per decenni essa è tutto un cantiere, che attrae
popolazione e maestranze, che mette in moto l'economia, che apprende
nuove tecniche e le dissemina a sua volta. Una esperienza preziosa per
gli architetti, come i catanesi Alonzo di Benedetto e Francesco
Battaglia, Girolamo Palazzotto da Messina, il palermitano Giovan
Battista Vaccarini, e poi il toscano Stefano Ittar e tanti altri. Tra
tutti il Vaccarini è forse quello che ha lasciato il segno più netto,
sia per il gran numero di edifici da lui curati che per il lungo
periodo del suo operare a Catania.
Certamente l'immane sforzo di ricostruzione si dovette ai
cospicui investimenti edilizi resi possibili dalle rendite feudali
accumulate dalle grandi famiglie, dalla Chiesa, dagli ordini religiosi
(particolarmente impressionante l'impegno dei Benedettini nel
riedificare il monastero di San Nicolò l'Arena col tono di una vera e
propria reggia). Ma fu così che la città poté superare la crisi dei
primi decenni del Settecento, che vide la Sicilia passare dal dominio
spagnolo ai Savoia (1713-1720), poi agli Austriaci (1720-1734) e infine
alla nuova dinastia borbonica, e ciò non senza l'inizio di grandi
cambiamenti e grandi speranze, e conflitti anche nell'ordine religioso,
tra Stato e Chiesa.
Il segno più certo di tale vitalità, oltre all'espansione stessa del
tessuto urbano, è la vicenda della cultura. Vi è innanzitutto
l'accresciuta importanza dello "Studio" - l'Università -, che sotto il
prevalente impulso di medici e giuristi già fin da prima del terremoto
aveva posto le basi per una nuova sede e una espansione; il suo palazzo
è ora tra i primi a dare nuovo prestigio alla riorientata via Uzeda
(oggi via Etnea), collocandosi a mezzo tra il palazzo comunale e la
chiesa della élite dirigente, quella di S. Maria dell'Elemosina
(Collegiata), ricostruita sullo stesso luogo ma riorientata in modo da
affacciarsi sulla nuova strada principale. L'Università è terreno di
conflitto tra la direzione ecclesiastica e quella laica, in un'epoca in
cui i governi cominciano ad avocare a sé il controllo della cultura.
Proliferano perciò i centri privati di studio, le biblioteche private,
le associazioni, le accademie. La terribile esperienza del terremoto e
l'incombere del vulcano indirizzano il dibattito culturale verso un
progresso concreto delle scienze geologiche, mineralogiche,
vulcanologiche; si supera così la strettoia della disputa tra scienza e
fede, e con l'opera del canonico Giuseppe Recupero (1720-l778) si
pongono i fondamenti di un ricco patrimonio nelle scienze naturali che
sarà continuato nell'Ottocento.
Personalità dominante è quella del principe di Biscari, Ignazio II
Paternò Castello (1719-1786). Figura di livello europeo, archeologo,
antiquario, predispose una biblioteca e soprattutto un Museo che
riscossero l'ammirazione di tutti i visitatori e divennero centro di
studio e di ricerca. Gareggiava con questa gran collezione privata la
biblioteca e il museo dei Benedettini, anch'essi centro di discussione
e di studi classici, filosofici, storici, naturalistici. Lo storico
Vito Maria Amico (1677-1762) e più tardi il naturalista Emiliano
Guttadauro(1759-1836) ne sono tra i nomi più rappresentativi.
Né è da sottovalutare l'attività del vescovo Salvatore Ventimiglia,
fondatore di una ricca biblioteca poi lasciata allo Studio; così come
meritano un ricordo figure quali Nicola Spedalieri (1740-1795),
l'ingegnere Giuseppe Zahra Buda (1730-1817), proveniente da Malta,che
riuscì a risolvere il problema della costruzione di un molo nel porto;
o il naturalista Giuseppe Gioeni d'Angiò (1747-1822), cui si intitolò
una celebre Accademia. Giuseppe Geremia (1732-1814), musicista amico di
Paisiello rappresenta la continuità di una cultura musicale che avrebbe
dato i suoi frutti nel secolo successivo.
Si viene formando così un ambiente culturale vivace, che soprattutto
verso la fine del secolo sarà percorso dai fermenti innovatori, laici e
democratici sintetizzati dal periodo catanese del grande riformatore
Giovan Agostino De Cosmi. Grazie a questi ambienti, Catania viene
definendosi come la città giacobina, borghese e democratica che si
manifesterà nel secolo successivo.
La significativa espansione demografica (nel 1798 essa conta già 45
mila abitanti), la concentrazione di importanti attività economiche
soprattutto nel settore tessile (seta), e il controllo della campagna
circostante fanno del Settecento il periodo in cui Catania supera
definitivamente altri centri rilevanti del suo hinterland: Acireale,
Paternò, Lentini, Caltagirone.
Dopo il 1770, tuttavia, l'attività edilizia rallenta di molto;
incompiuto resta il monumentale edificio dei Benedettini. In parte ciò
è dovuto al concludersi delle fabbriche intraprese; ma incidono anche
la crisi agraria e le difficoltà del commercio internazionale. Il 1764
ha visto la città devastata, col resto dell'isola, da una terribile
carestia. I privilegi che consentono alla nobiltà di controllare
produzione ed esportazione di grano tendono a rafforzare le posizioni
dell'aristocrazia, e a stabilizzare l'economia del latifondo. Questo,
per Catania, significa soprattutto il maggiorato potere di chi, come i
principi di Biscari, domina la Piana. Si apre, come per il resto della
Sicilia, una questione feudale, che esplode per le riforme tentate
sotto il viceregno di Tanucci e, dal 1781, di Caracciolo.
Gli anni delle guerre napoleoniche nel Mediterraneo sono per la Sicilia
gli anni della occupazione inglese e della trasformazione
costituzionale con la fine giuridica del feudalesimo.
La città di Catania non sembra riuscire ad agganciare la congiuntura
commerciale positiva che nel suo stesso territorio permette invece
all'area del vigneto, tra Mascali ed Acireale, di accumulare ingenti
ricchezze trafficando i vini etnei con l'esercito britannico.
Nonostante gli sforzi compiuti già da prima del terremoto non è
riuscita a superare gli ostacoli tecnici per la costruzione di un porto.
Nel 1798 e 1799 Catania è scossa da rivolte popolari per il pane. Si
profila la crescita di uno strato popolare ribelle, anche se ciò non dà
luogo ad alcun movimento rivoluzionario sul modello francese; ché anzi
nel 1799, a Caltagirone, ha luogo un massacro dei giacobini, esemplare
anche se di non chiara interpretazione. La cultura cittadina percepisce
questo disagio e se ne fa interprete, in figure come l'irregolare poeta-
filosofo Domenico Tempio (1750-1821)o nella fitta schiera di
filogiacobini cresciuti alla scuola del De Cosmi: Giovanni Nepomuceno
Gambino (o Gambini; 1761-1848) che dovette fuggire in Svizzera dove fu
vicino a Filippo Buonarroti; Francesco ed Emanuele Rossi, Vincenzo e
Carlo Gagliani, Giuseppe Rizzari. Da questi gruppi escono i deputati
catanesi al Parlamento siciliano, i quali, tra il 1810 e il 1815, si
schierano con l'ala più radicale.
 


 
L'ESPANSIONE DELL'OTTO E DEL NOVECENTO


La riforma amministrativa borbonica del 1817 istituì in Sicilia sette
province sostanzialmente paritarie tra loro. La gerarchia tra le città
siciliane fu ridefinita, e alterati i termini dell'antica rivalità tra
Palermo e Messina. Catania si ritrovò capoluogo di un vasto territorio,
sede di tribunali, dell'intendenza provinciale, di vari uffici
amministrativi.
La popolazione, che in quel momento era scesa a 40 mila abitanti,
risalì a 52 mila nel 1834, iniziando una straordinaria galoppata
secolare: 68.810 abitanti nel 1861, 90 mila nel 1880, 150 mila nel
1900, 230 mila nel 1931, fino agli attuali 363 mila. Ragione primaria
di questa crescita continua, che non ha riscontri nell'Isola, è lo
scambio tra la campagna (e i centri minori) e il centro urbano. Questo
si pone sempre più come polo d'attrazione per i commerci, le industrie,
i consumi, e infine - specialmente nel nostro secolo - per il
terziario. Nella prima metà del secolo, la principale attività
industriale catanese è il settore tessile. Tessitori e artigiani -
insieme ai pescatori e alla gente che vive del porto - formano il nerbo
del proletariato; c'è però, accanto a questi, anche una plebe di
lavoratori marginali, di diseredati, di servitori o manovali generici,
caratterizzata dalla mancanza di cultura e di interessi tecnici, che si
affolla nel vecchio quartiere della Civita e dell'Idria; ma meno
tumultuosa e conscia della propria forza che non in città come
Palermo.Sono invece gli artigiani da un lato, e dall'altro i borghesi
dagli interessi prevalentemente mercantili, a dare il tono agli strati
popolari.
Lo si vedrà più avanti nel secolo, con la formazione delle società
operaie, e poi del Fascio dei lavoratori.
E' ancora l'agricoltura che forma la ricchezza di Catania, sia nel
senso di famiglie provinciali agiate o nobili che si trasferiscono in
città, sia per la partecipazione di cittadini ad investimenti terrieri.
La città si costruisce così il ruolo di mercato, di centro di
distribuzione, e di polo culturale: teatri, gabinetti di lettura,
l'Università e le accademie come quella Gioenia, periodici culturali e
politici, come Lo Stesicoro del 1835-36. Ma per tutto ciò essa deve
ancora competere con altri centri, con Acireale in primo luogo. Prima
dell'Unità, la città è pur sempre relativamente povera di alberghi, di
strade lastricate, di locali pubblici. La rottura tra la città e il
regime borbonico si consuma nel 1837: sono i moti del colera, con
centro nel siracusano, che accusano la monarchia di aver sparso il
veleno in odio al popolo. In realtà la difficile alleanza tra nobili
costituzionalisti moderati e capipopolo viene rinsaldata dalla cecità
della repressione borbonica che mira a colpire indiscriminatamente.
Dopo di allora, nel 1848, nel 1860 con Garibaldi, e ancora nel 1862 con
la fallita impresa garibaldina di Aspromonte, Catania fornirà al
Risorgimento cospiratori massonici e carbonari, mazziniani e moderati,
conssolidando un'immagine di città democratica. Ma lo schema politico
del 1837 si ripeterà più volte, e ancora in occasione della repressione
di Bixio a Bronte: lo si può definire come una timidezza da parte dei
liberali moderati ad assumersi responsabilità di potere, per il timore
di rimanere schiacciati tra la repressione dall'alto e le rivolte
popolari dal basso.
Nei primi anni dell'Unità d'Italia, Catania non viene meno a tale
tradizione. Nel 1865 è fondata la società I figli del lavoro, con
Mazzini come presidente onorario; sciolta di lì a poco, verrà
ricostituita nel 1876 dal radicale Edoardo Pantano. Dopo l'assassinio
del presidente americano Abramo Lincoln, viene intitolata a lui la via
Lanza (oggi Di Sangiuliano); si va formando uno strato di intellettuali
radicali, presso i quali il democratismo si sposa alla totale fiducia
nel potere rinnovatore della scienza. Vate di questi ambienti è Mario
Rapisardi (1844-1912), poeta che sull'anticlericalismo e sul rifiuto
del presente fonda la visione palingenetica di una umanità rinnovata.
Con le leggi di eversione dell'asse ecclesiastico, dopo il 1866, la
città acquista gran parte di quei conventi, monasteri, ed altri beni
immobili di cui la ricostruzione settecentesca aveva riempito il centro
urbano.
Diventeranno scuole, caserme, uffici pubblici: concentrazione eccessiva
di funzioni entro un breve perimetro, che oggi, a distanza di più di un
secolo, è divenuta insopportabile. Ma è anche una grande occasione per
acquistare, speculare, investire. Ed è su queste opere che la città
inizia la sua crescita: si sistema la via Stesicorea (Etnea)
abbassandone il livello; si imbrigliano le acque dell'Amenano (la
fontana di piazza Duomo è del 1867); si tracciano e aprono nuove
strade; nel 1866 si installa l'illuminazione a gas. E purtuttavia,
l'epidemia di colera colpisce nel 1866-67 e ancora nel 1887.
  
 


 OGGI



A cavallo degli anni '50 e 60 si manifesta ancora una volta lo spirito
di ricostruzione e d'intrapresa dei catanesi. Nasce a sud la zona
industriale Pantano d'Arci, si formano e sviluppano grandi imprese
edili, fiorisce il commercio. E ritorna il mito della Milano del Sud.
L'espansione urbanistica si svolge in modo contraddittorio. Mentre la
speculazione edilizia porta a compimento il cosiddetto sacco di San
Berillo (lo sventramento di una parte significativa del centro
storico), viene chiamato alla redazione del piano regolatore
l'architetto giapponese Kenzo Tange, che disegna uno sviluppo
urbanistico equilibrato, mirato a valorizzare i quartieri periferici e
dell'area sud della città, superando il monocentrismo. 
Catania, comunque, dimostra di essere una città dimanica, ricca di
imprenditorialità autonoma, al contrario di altre città meridionali e
siciliane, che subiscono un'industrializzazione di tipo coloniale, che
spesso devasta il territorio e crea lacerazioni sociali.
Nel '68 i giovani catanesi partecipano da protagonisti ai moti
studenteschi, evidenziando i fermenti culturali che animano la città.
Il rilancio economico e culturale cozza, però, negli anni '70, con la
nuova mafia e con i processi degenerativi del potere politico. La
trasformazione, nella Sicilia occidentale, della mafia rurale in mafia
urbana prima e in mafia finanziaria poi, estende l'area di influenza e
di intervento delle cosche mafiose in tutta la Sicilia. Anche a Catania
si forma e si organizza un potere mafioso, che condiziona la vita
civile, le attività economiche e la politica.
Nonostante ciò, la città mantiene un'identità moderna e laica, come è
dimostrato dall'alta percentuale di voti, superiore alla media
nazionale, a favore del divorzio e dell'aborto, nei più significativi
referendum che si svolsero in quel periodo.
Negli anni '80 si manifesta una forte reazione democratica contro la
mafia e contro i processi degenerativi della politica, che rompe vecchi
e consolidati equilibri di potere. La crisi politica, tuttavia, si
protrae fin verso la fine del decennio, lasciando la città
sostanzialmente senza una guida. L'effetto dell'assenza di governo è il
blocco delle opere pubbliche e dell'edilizia abitativa, che erano state
un volano dello sviluppo, la crisi profonda dell'apparato industriale,
il deperimento delle attività commerciali e terziarie in genere,
l'impoverimento del dibattito culturale.
Solo all'inizio del decennio in corso cominciano a manifestarsi i primi
sintomi di inversione di tendenza, perchè una nuova classe dirigente
comincia a ridisegnare un progetto per la città. Ma i progressi sono
lenti e contraddittori, perchè i guasti degli anni '80 hanno lasciato
segni profondi e perchè la negativa congiuntura economica nazionale
penalizza maggiormente il Mezzogiorno.
Il merito principale della nuova classe dirigente è quello di garantire
un rigore politico ed amministrativo, mantenendo un clima civile nel
confronto politico, all'altezza della migliore tradizione laica della
città. Mentre altrove la crisi degli anni '80 ha prodotto spaccature
sociali e politiche profonde ed odi insanabili, frutto anche del
manicheismo politico e culturale delle classi dirigenti, a Catania è
prevalso uno spirito di tolleranza, che ha consentito
un'amministrazione fondata sul confronto costruttivo e sul consenso.
Il centro storico è stato trasformato in un salotto, ove è possibile
circolare e divertirsi fino alle ore piccole; vanno fiorendo nuove
attività culturali ed artistiche; i quartieri popolari dispongono di
nuovi servizi e strutture.
E' vero, tuttavia, che il tasso di disoccupazione rimane altissimo e
che i giovani vivono nell'ansia del futuro. La questione del lavoro è,
come in tutta la realtà meridionale del Paese, la principale questione
catanese di oggi. Per affrontarla e risolverla occorre realizzare il
progetto della Catania del 2000, al quale si sta già lavorando:
infrastrutture moderne, interporto, reti telematiche, alta tecnologia,
ricerca scientifica, sostegno alle imprese, valorizzazione, anche a
fini turistici, del patrimonio ambientale e storico.