…Il nome di Gulbuddin suscita
un altro (striminzito) sorriso sul volto di Massud, che dice: «Non c'è
dubbio che vi siano divergenze fra i talebani, divisi sostanzialmente in
due fazioni: una guidata da mullah Omar, l'altra da mullah Rabbani (nessuna
parentela con il presidente afghano). Il conflitto, mi risulta, che si fa
sempre più aspro. Non posso confermare la voce o l'ipotesi che Islamabad
abbia deciso di affidare al mio "amico" Gulbuddin un ruolo tanto
importante. Si tratta comunque di un fatto irrilevante. Ciò che è certo
è che il Pakistan continua a dare il suo pieno appoggio — unico Paese
della comunità internazionale — ai talebani. Ho saputo che appena la
settimana scorsa i pakistani hanno inviato a Kabul armi e munizioni
nascosti nei camion sotto cumuli di sacchi di farina, riso, ortaggi...
Quindi, non è per niente vero che ci sia una rottura fra Islamabad e i taleb».È
invece ragionevole supporre che, se deperimento c'è stato nella salute
(militare e politica) degli studenti di teologia afghani, esso sia
dipeso soprattutto dall'affievolimento dei rapporti con Stati Uniti e
Arabia Saudita, che erano stati loro grandi sostenitori e finanziatori,
attraverso il Pakistan, all'inizio della Santa Crociata. All'insaputa di gran parte dei chierici islamici, il
vero obiettivo della jihad era il megaprogetto delle multinazionali
del petrolio (due miliardi e mezzo di dollari) per la costruzione di una
rete di oleodotti e gasdotti dal Turkmenistan al Mare arabico attraverso
l'Afghanistan. Ma il crollo vertiginoso del prezzo del greggio, nel '98,
ha bloccato tutto. E con quel crollo è scemato anche il fervore mistico
dei dirigenti della Unical e di altre compagnie per la restaurazione del
regno di Dio sulla terra.Dice
Massud: «Certamente, i rapporti tra Stati Uniti, Arabia Saudita e i
talebani non sono più quelli di un tempo, forse non gli danno più alcun
sostegno economico. Che, secondo me, è venuto a mancare dopo il caso
Osama Bin Laden. Contemporaneamente, sono migliorati i nostri rapporti
con gli Usa, anche in seguito alla campagna per i diritti umani, che
chiamava in causa i talebani. Dov'è
ora Bin Laden? Io penso che sia ancora qui in Afghanistan: solo che,
recentemente, ha continuato a spostarsi da un luogo all'altro, Kandahar,
Jalalabad, Herat...». Per molti, l'apparizione dei talebani nell'autunno
del '94 resta ancora un fenomeno inspiegabile. Studenti delle scuole di
religione rurali, i taleb sapevano a memoria i versetti del
Corano, ma nient'altro.Quali responsabilità ha avuto il governo di
Rabbani per il deragliamento di una situazione che ha consentito il loro
avvento e la marcia trionfale su Kabul? «La responsabilità - spiega
Ahmad Shah Massud - è del Pakistan, che ha favorito la creazione di
questo movimento per creare instabilità nella regione. Ma noi pure,
devo ammetterlo, abbiamo commesso un grave errore. Fino a quando i talebani non sono arrivati
alle porte di Kabul, non ci siamo resi conto che, con l'aiuto straniero,
volevano distruggere il nostro Paese. Non abbiamo saputo distinguere qual
era il loro vero volto.»
I colloqui di Askhabad sono stati preceduti nelle ultime settimane da una
serie di incontri ad alto livello per gettare la piattaforma di un nuovo
governo che entrerà subito in funzione, in attesa che si ponga
pacificamente fìne alla guerra. Ma per assicurare al Paese quella
stabilità che non ha mai conosciuto negli ultimi venti anni, occorre
che questo neo-governo sia costituito dai rappresentanti di tutti i
gruppi etnici e non dai vari partiti islamici tradizionali (sette in
tutto) che hanno partecipato jihad.
«Questa - dice il comandante Massud — è stata una decisione molto
importante. Abbiamo già eletto un consiglio supremo di Stato con 41
membri, ognuno dei quali rappresenta un gruppo etnico della società
afghana. Ed è questa la base di un governo di unità nazionale.»…
….Ma
i talebani che incontro a Barak, un villaggio nella parte alta della
vallata, non sono più in grado di recitare il ruolo aggressivo che gli
era stato imposto dai leader della jihad, e sembrano rassegnati
al loro destino: sono 364 prigionieri di guerra, catturati in zone
diverse durante gli scontri armati coi mujaheddin. Tra loro,
quattro ufficiali. L'80%
si rammarica di essersi schierato coi taleh, molti confessano di
essere stati reclutati con la forza o di averlo fatto per i pochi dollari
di salario alla settimana, ma alcuni seminaristi delle madrasàt
(le scuole rurali di religione ai confini col Pakistan) ammettono di aver
semplicemente ubbidito ai loro mullah e insegnanti di teologia che
li hanno spronati ad arruolarsi in nome di Allah: «È jihad, l'Islam
è in pericolo nell'Afghanistan, affrettatevi, c'è bisogno di soldati e
di martiri». Qualcuno si lascia
andare a dichiarazioni enfatiche da guerriero in lotta per la fede, ma
alla fine hai l'impressione che ben pochi tra i prigionieri si siano resi
conto che dietro la crociata dei talebani c'è l'avidità del Pakistan e
delle multinazionali americane, impegnati nella realizzazione di un megaprogetto
(2 miliardi e mezzo di dollari) per trasportare petrolio e gas dal
Turkmenistan all'Oceano Indiano attraverso l'Afghanistan. E poiché
Massud si opponeva, bisognava toglierlo di mezzo.Quando
arriva l'ora della preghiera, tutti scendono al fiume - il Panshir -,
che traccia un'ansa azzurra proprio sotto il carcere. E qui lo
spettacolo è commovente e strano, perché i detenuti e i loro carcerieri
mujaheddin s'inginocchiano insieme e insieme baciano la terra e
insieme pregano lo stesso Dio in nome del quale si sono scannati e
continuano a scannarsi, Allah o ahkba, Dio il più grande...
….Ma
ci sono donne che non hanno paura di loro ne dei loro anatemi, come
un'infermiera dell'ospedale di Charikar che, interrogata sull'opportunità
o meno di mummificarsi nel burqa, ha semplicemente risposto: «Fosse
per me, lo brucerei». O come un gruppetto di giovani donne che ho incontrato
nel villaggio di Bayan, in mezzo a una campagna arida, solcata, dopo la
pioggia, da sentieri di fango. Tutt'e sei hanno in capo un velo, ma il volto è
scoperto: Fatima, Zaina, Najiba, Farida, Paria, Maria. La più giovane ha
18 anni, la più anziana 35. Tutte sono munite di kalashnikov, che —
dicono - hanno usato contro i talebani durante «l'ultima invasione».
Per dimostrare che lo sanno usare escono nel cortiletto e una dopo l'altra
sparano un paio di colpi contro il muro di cinta. «Entravano in casa e
saccheggiavano — racconta Fatima, 20 anni -. Ci sono stati anche
tentativi di violenza. Ma le nostre donne preferivano togliersi la vita
piuttosto che subirli e così sono morte in tante. Scrivetelo, ditelo
ai governi del vostro Paese, chiedete all'Onu di intervenire. Noi
continueremo a combattere finché ci sarà la pace.»
Quando
siamo usciti dal villaggio, le amazzoni afghane ci hanno salutato con
l'arma in pugno.
Ettore
Mo-GULAG e altri inferni. Un viaggiatore fra le rovine della storia.
©
Rizzoli
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