Il suo bacino era costituito
da una depressione della pianura alluvionale
padana, dove potevano liberamente
confluire le acque dell'Adda, dell'Oglio
e delle risorgive. Si presentava come
una grande estensione di paludi e
acquitrini, provocata dal graduale spostamento dell'Adda da est a ovest (fino alla posizione di
oggi) e più o meno ampia a seconda delle piene del fiume.
Oltre
a paludi, acquitrini e stagni dovevano esserci anche specchi d'acqua
profondi, tanto che si suppone l'esistenza, lungo le sue coste, di ville
residenziali e di porti. Proprio nell'area di Villa Pompeiana la
frazione più a sud di Zelo Buon Persico - alcuni studiosi ritengono si
trovassero una villa e addirittura un porto fluviale fatto costruire dal
patrizio romano Gneo Pompeo Strabone (150-80 a.C.), negli anni intorno
al 120 a.C. Padre di Pompeo Magno, il più acceso rivale di Giulio
Cesare, Pompeo Strabone fu un personaggio molto importante per quella
che è attualmente la zona del Lodigiano. In suo onore, dopo la
conquista della Gallia cisalpina da parte dei romani, il maggior centro
abitato della regione a sudest di Mediolanum (Milano) venne
ribattezzato come Laus Pompeia (oggi è Lodi Vecchio). La via di
comunicazione principale era la cosiddetta via regia,
che da Milano conduceva a Lodi passando per Paullo, Muzzano e
Galgagnano.
Vivere in prossimità del lago
Gerundo
non doveva essere molto confortevole e sicuro prima della grande opera
di bonifica iniziata dai monaci cistercensi
e benedettini, proseguita
nel 1220 con la creazione del canale Muzza.
Secondo una leggenda dell'Alto Medioevo, nel lago Gerundo viveva il
drago Tarantasio, vero terrore per gli
abitanti del luogo. Un mostro
favoloso in cui la fantasia
popolare ha probabilmente voluto impersonificare
le esalazioni mefitiche di
quelle zone palustri e malariche.
Il drago Tarantasio, in tempi
moderni, ha ispirato gli ideatori del logo dell'Agip,
che lo hanno trasfigurato,
aggiornandolo, nel cane a sei zampe che sputa fuoco dalla bocca.
Nel
Mortone,
un'area paludosa di
notevole pregio naturalistico, subito
dopo la frazione di Mignete presso la frazione di Villa Pompeiana,
è stata rinvenuta nel 1977 una piroga monossile,
ossia un'imbarcazione molto primitiva, costituita
da un unico, enorme tronco d'albero appositamente scavato. Sottoposta all'analisi
del radiocarbonio, la piroga risalirebbe
alla fine del quinto secolo dopo
Cristo, e più precisamente intorno
al 490.
Piroga monossile
Dopo la conquista
della Gallia cisalpina, compiuta nel
222 a.C., i romani si
dedicarono con impegno alla coltivazione dei nuovi territori
acquisiti. Nella regione dell'attuale Paullese
si insediarono diverse gentes,
cioè diverse famiglie: Valeria, Mutia,
Marcia, Balbia, Fabia
e Pompeia, il
cui principale esponente era Gneo Pompeo
Strabone. I possedimenti di queste famiglie
presero il nome delle gentes proprietarie:
nacquero così, tra l'altro, gli agri Mutianum (oggi Muzzano), Marcianum
(Marzano),
Balbianum (Balbiano)
e Villa Pompeiana.
Secondo la tradizione, fu
un appartenente alla gens Mutia
a ideare e a far scavare la cosiddetta Aqua
Mutiana, uno dei primi canali
artificiali della zona creati per
controllare il regime delle acque.
L'antica Aqua
Mutiana esiste tuttora nel territorio di Zelo Buon Persico e
corrisponde all'attuale canale Muzzetta.
Per irrigare orti e
giardini della villa di proprietà della famiglia situata dove ora c'è
Muzzano, Tito Muzio
fece derivare le acque dal ramo
dell'Addetta poco sopra gli attuali Portoni di Paullo, incanalandole attraverso
i territori
di Paullo (che allora si chiamava Padulum)
e Muzzano, per farle poi confluire di
nuovo nell'Adda a nord di
Villa Pompeiana. Tito Muzio, del resto, doveva avere le
carte in regola per compiere tale
impresa, se su una lapide conservata al Broletto di Lodi
(T. Mutio tf gracili praef. Fabbr IIII Vir I.D.
D.D. Pubblice) viene
citato con la qualifica
di prefetto del fabbri, una carica corrispondente
pressappoco all'attuale ingegnere.
Dove
adesso c'è Muzzano,
la gens Mutia (oggi diremmo
la famiglia Muzia) possedeva una
tenuta di ampie
dimensioni, detta Agrum Mutianum.
Le aziende
agricole romane di grande estensione
erano denominate villae e
possono essere ritenute, nella concezione complessiva di
unità economica e produttiva e nella strutturazione degli spazi e degli edifici, le lontane antenate delle cascine.
Secondo Romano Pignotti, uno studioso
che nei suoi scritti molto si
è occupato del Paullese e della sua
storia, l'Agrum Mutianum doveva
essere probabilmente il principale centro agricolo del comprensorio.
Agrum
Mutianum (ricostruzione R.Pignotti)
Tito Muzio scelse di
ubicarlo alla sinistra della strada che da Padulum
(Paullo) portava a Laus Pompeia (Lodi Vecchio). Lo organizzò
come un tipico accampamento militare romano, cioè un rettangolo
suddiviso in quattro parti
uguali: un impianto planimetrico
che la Muzzano attuale mantiene tuttora. Secondo la ricostruzione di Pignotti,
nel riquadro a nordovest si trovava
la villa padronale con il parco, le
piscine, l'altare del Lari (numi
tutelari della famiglia) e il
giardino delimitato da un doppio
filare di salici.
Nel riquadro
nord orientale
c'erano gli orti e gli alloggi del servi e del liberti oltre che del
presidio militare, mentre in quello a sud-ovest c'erano il frutteto, la
vigna e il ricovero per i cavalli. Infine, nel riquadro sud orientale
trovavano posto il ricovero degli
animali da lavoro (buoi, bufali, muli,
asini),
gli ovili, i pollai, i porcili, gli
orti del servi e gli alloggi per gli
schiavi.
Come ogni tipica villa
romana, anche quella della gens Mutia
era sostanzialmente una struttura
autosufficiente sia economicamente sia amministrativamente,
con una piccola guarnigione militare
interna per difendere i suoi abitanti da eventuali incursioni di banditi
e proteggere i raccolti. Nell'organizzazione territoriale romana, la villa ricopriva
infatti
anche una funzione strategica e militare di base; nelle villae
venivano reclutate e addestrate le nuove leve, dalle villae
partivano rifornimenti di vario
genere per l'esercito: cavalli, muli, legname, come anche bestie da
macello, foraggio, farina, olio e altri viveri.
Con l'arrivo dei barbari
culminato nell'invasione dei
Longobardi nel 568 d.C. anche nel Lodigiano
si assiste alla distruzione, al saccheggio e alla decadenza di molti
centri abitati
fioriti in epoca romana. Sopravvive
qualche segno delle opere realizzate a vantaggio delle attività
agricole: la scansione regolare dei
campi coltivati, la rete di comunicazione stradale, gli impianti
d'irrigazione, a cominciare dall'Aqua. Mutiana,
probabilmente come s'è detto il primo canale irrigatorio della
regione lombarda.
Dopo la
calata dei Longobardi In Italia ci
vorranno circa quattro secoli perché
nel Lodigiano l'attività produttiva,
e innanzitutto quella agricola, riprenda pieno slancio.
A guidare la ripresa economica sono ora gli ordini monastici, proprietari
in molte
aree di vaste estensioni di territorio.
Già nel 972 i frati benedettini del
monastero di San Pietro di Lodi Vecchio avevano deciso di intraprendere
la bonifica del versante nord occidentale del lago Gerundo,
per conquistare alle paludi e agli acquitrini nuovi
terreni adatti alla coltivazione.
La data decisiva per
il
decollo produttivo ed economico del Lodigiano
è comunque il 1220 (o, secondo altre
fonti, il 1222). È l'anno in cui, infatti,
dopo essersi combattuti accanitamente ai tempi di Federico
Barbarossa (tra il 1150 e il 1158),
milanesi e lodigiani uniscono le loro
forze per realizzare un'opera civile
senza precedenti e che trasformerà
la regione a sudest di
Milano in una delle aree agricole più prospere d'Europa.
Per ovviare al progressivo
interramento e ristagnamento dell'Addetta (allora un ramo destro
dell'Adda che scorreva da Cassano a Melegnano)
si pensa di "recuperare" l'alveo di questo fiume
per dare origine a un canale
d'irrigazione per tutto il Lodigiano.
Da Paullo si decide di far partire un
canale artificiale scavato ex novo, parallelamente
all'Adda e al Lambro. Con la
consulenza tecnica degli esperti
monaci benedettini e cistercensi,
viene dato il via alla trasformazione e alla prosecuzione
artificiale del corso naturale dell'Addetta, che da
origine a un canale regolabile da
parte dell'uomo a seconda delle variabili necessità dell'irrigazione.
L'opera di trasformazione e di scavo
si conclude nel 1230. Il nuovo canale fu dapprima chiamato
Adda Nuova: ben presto però, dato che, come Aqua Mutia, prendeva le acque
dall'Addetta, rubò il nome "Muzza"
al piccolo canale di epoca romana, che, date le sue dimensioni,
divenne invece la Muzzetta.
La Muzza ancora oggi
deriva dall'Adda all'altezza di
Cassano, scorre attraverso i territori
di Trucazzano, Comazzo
e Merlino fino alle Porte di Paullo.
Qui le acque della Muzza vengono
regolate e scaricate parzialmente
nell'Addetta. La Muzza devia il suo corso verso sud, parallelamente
all'Adda, passando per i territori di Mulazzano, Zelo Buon Persico e Cervignano,
diretta alla centrale di Tavazzano e
giungendo infine a Castigllone
d'Adda, dove si ricongiunge
all'Adda.
Anche a
Zelo Buon Persico, l'abbondante
disponibilità
di acqua ha costituito una premessa
importante fin dal Medio Evo per il compimento e la realizzazione
di un'agricoltura avanzata e
fiorente.
Applicando
alla lettera la regola di S. Benedetto, "ora et labora", i
monaci erano stati promotori di una serie di disboscamenti e di
canalizzazioni, che avevano trasformato paludi e boscaglie, che
costituivano allora una parte del territorio, in terreni fertili e
coltivati.
Ad
una attività uguale si dedicarono anche i benedettini che, a partire
dal 1084, si insediarono in un nuovo monastero, sorto ad Abbadia
Cerreto, poco oltre l'Adda: si ponevano così le premesse della grande
agricoltura lodigiana, che duecento anni dopo avrebbe avuto un nuovo
impulso dall' apertura del canale di irrigazione Muzza.
La Muzza arriva nel comune di Zelo Buon
Persico sfiorandone il
confine sudovest con il comune di Mulazzano,
dopo esser passata nel territori di Trucazzano, Comazzo, Merlino, Paullo e Mulazzano. L'acqua delle
rogge che innervano l'area coltivata di Zelo Buon Persico proviene da
bocche situate a nord del paese, nei comuni di Comazzo, Merlino e Paullo.
L'accesso dell'acqua del canale Muzza
alla rete irrigua di Zelo Buon Persico
è regolato da chiuse situate al lati del canale in corrispondenza di
piccole dighe artificiali.
Ciascuna delle rogge ha una portata d'acqua (misurata
in once al minuto) regolata mediante
le chiuse, in base alle necessità del terreni attraversati.
A seconda dell'estensione della superficie agricola
utilizzata, ogni azienda ha diritto a ricevere un determinato numero di
once di acqua, in turni di tredici
giorni, (tradizionalmente chiamati
"ruote d'acqua"), nel corso del quali viene stabilito il
numero di ore per utente necessarie
per irrigare completamente ciascuna
proprietà.
Nel territorio comunale di Zelo Buon Persico le rogge principali sono le
seguenti:
roggia
Muzzetta (l'antica
Aqua Mutia
di origine romana), che trasversalmente da Molinetto,
a nordovest, passa per Muzzano,
sfiora Molinazzo
e arriva a Villa Pompeiana,
a sudest;
Roggia tipica
roggia
Fasola, che da Zelo passa di fianco
a Casolate e giunge a nord di Villa
Pompeiana, dove si congiunge con la roggia Muzzetta;
roggia Fasolina,
che bagna i terreni intorno
a Bisnate;
roggia
Zelo Ospitale (o Zela) che da Zelo raggiunge Mignete, da dove parte una
diramazione
per Casolate;
roggia
Bertonica,
che da Paullo entra nel comune zelasco all'altezza della fattoria Aurora, procede in linea retta verso
Molinazzo, attraversando la zona di Muzzano, e continua a sud nell'area
di Cervignano d'Adda.
Tra le altre rogge che
irrigano il territorio
comunale di Zelo sono da ricordare ancora la roggia Quartera
a nord, la roggia Nuova a sud. Sotto il
profilo paesaggistico e naturalistico
i corsi d'acqua più interessanti sono la roggia Muzzetta,
in particolare nell'ultimo tratto sinuoso,
prima di sfociare nel Mortone;
la roggia Bertonica, che nel tratto più distante dall'Adda
scorre ai piedi di una scarpata
alberata, per poi formare alcuni impaludamenti
ricchi di vegetazione; infine il colo Calandrone
(al confine tra i comuni di Zelo e
Merlino) che nel tratto orientale,
prima di arrivare
nella lanca a nord di Bisnate, scorre ai piedi di
un dislivello ricco di alberi.
Fino all'inizio della seconda guerra
mondiale l'acqua delle rogge veniva utilizzata, oltre che per
irrigare, anche per abbeverare il bestiame. Durante l'inverno,
allorché le acque della rete irrigua gelavano, il ghiaccio prodotto
veniva stipato presso molte cascine in ghiacciaie appositamente
edificate per preservarlo il più a
lungo possibile.
Le ghiacciaie,
diffuse ancora fin verso la seconda
guerra mondiale, erano costruzioni in gran parte scavate in
profondità dentro la terra, con il
tetto coperto di paglia di riso (impermeabilizzante
e isolante) e di zolle di terra, tante da formare un piccolo dosso artificiale.
Il ghiaccio stipato lì dentro veniva
utilizzato in estate per gli scopi più diversi:
per avere acqua fredda dissetante, ma
soprattutto per conservare al fresco il
burro prodotto ed evitare che si irrancidisse
per il caldo.
A Zelo Buon Persico c'è tuttora una di queste ghiacciaie:
risale presumibilmente al primo Ottocento,
è scavata nel terreno per una profondità di circa sette metri e si
trova sul retro di un edifìcio
settecentesco in via Muzzano (quasi all'incrocio
con via Giussano) che fino al 1987 ha
ospitato l'agenzia dei beni patrimoniali
dell'Ospedale Maggiore di Milano,
istituita per seguire e curare direttamente sul posto l'andamento delle
proprietà dell'ente nell'area di Zelo Buon Persico.
Il
nome di Zelo Buon Persico deriva probabilmente dalla corruzione
del latino agellum Gomperticum
(cioè "piccolo podere di Gomperto").
Secondo alcuni studiosi, la denominazione agellum sarebbe dovuta
alla particolare ubicazione del podere in origine,
situato già all'epoca del romani tra due grandi proprietà: l'Agrum
Martianum (da cui l'odierna Marzano)
e l'Agrum Mutianum (oggi Muzzano).
Un
primo documento scritto in cui compare il nome di Zelo è del 972,
la pergamena originale è andata perduta, e ne esiste solo una copia
fatta nel 1500 da Defendente Lodi: questo documento fu decifrato e
trascritto, insieme a molti altri, rinvenuti anche nella Biblioteca
comunale di Lodi e nell'Archivio di Stato di Milano, dal sacerdote
Cesare Vignati, uno storico lodigiano, verso la metà dell'800.
Il Vignati pubblicò poi, tra il 1879
e il 1885, il testo di tutte le pergamene in 3 volumi, che intitolò
"Codice Diplomatico Laudense". Si tratta di testi molto vari:
contratti, diplomi, testamenti, che coprono un periodo che va dal 759 al
1300.
L'atto dell'anno 972 che ci interessa
è firmato dal vescovo di Lodi, Andrea, e dai suoi consiglieri: sono
circa 20, tra preti, diaconi e suddiaconi. Nel documento Andrea concede
ai monaci del Monastero Benedettino di S.Pietro presso le mura di Lodi
(si tratta di Lodivecchio, cioè dell'antica Laus) l'esenzione
dal pagamento delle decime su beni, campi e vigneti che essi avevano
nella diocesi: in tutto sono nominati una quarantina di paesi, segno
evidente della ricchezza del monastero di Lodivecchio; citati troviamo
Mulazzano, Quartiano, Cassino, Paullo, Zelo e Dresano.
Le decime,
erano un elemento importantissimo delle entrate ecclesiastiche; teoricamente
si trattava di versare alla Chiesa la decima parte del reddito da parte
di chiunque ricavasse frutti dal suolo, dalle acque, dall'allevamento
degli animali: era un obbligo per tutti i fedeli, che spesso lo pagavano
in natura.
Una parte
di queste decime era trattenuta dalla chiesa locale, il resto andava al
vescovo.
Esistevano decime
"straordinarie", diverse da quelle che dovevano essere pagate
ogni anno dai fedeli alle Parrocchie e al Vescovo; in questi casi era il
Papa stesso che, a seconda dei bisogni della Sede Apostolica, imponeva
un tributo straordinario alle Diocesi e alle Parrocchie.
Resta da
parlare di Andrea, un vescovo longobardo di nascita, che regge la
diocesi di Lodi per più di 30 anni, dal 970 al 1002, e che risulta
anche un vero e proprio feudatario, investito di autorità temporale da
parte dell'imperatore.
Come
abbiamo detto, era il momento in cui gli imperatori tedeschi, per
controbilanciare il potere dei feudatari, concedevano ai vescovi tutta
una serie di privilegi e cariche: cosi Andrea ottiene da Ottone I e da
Ottone II potere sulle mura cittadine e sui mercati, sui boschi, i corsi
d'acqua ed i mulini della campagna; il tutto per un raggio di 7 miglia
attorno alla città.
In un
documento conservato nell'Archivio vescovile
di Lodi, nel XII secolo un certo Gompertus. risulta come proprietario
di alcuni terreni dell'attuale
area comunale di Zelo.
Nell'anno
836. Il nome Agello appare, in
un documento redatto a Milano quell'anno, tra le proprietà di
uno straniero, di nome Unger,
residente a Milano, che dichiara di voler assegnare i suoi beni a Guzone.
Nell'anno 1112,
Dolcevita ed Enrico, figli
di Amizone de Agello, de civitate
Lauda (nel circondario di Lodi)
concedono in livello a Ottone e Ambrogio
da Cornate alcune terre del vescovado di Lodi, esteso tra Casolate e Galgagnano.
Il
24 marzo 1219, da un atto notarile stilato in tale data risulta
che i sindaci, i procuratori, i messi
e i consoli, insieme ad altra gente sia di Zelo sia di altri paesi
limitrofi guidati da Musso, prete
della chiesa di sant'Andrea, vendono
al sindaco di Lodi, Gualtiero Dulciano, il castello, trattenendone solo una
piccola parte come proprietà del
monastero di san Simpliciano, per il
prezzo di cento lire. L'atto è
stipulato e affrancato dal notalo Anselmo Maroesio, alla presenza di cinque
testimoni.
Questo documento attesta quindi, da un lato, l'importanza del
castello di Zelo e, dall'altro, una certa influenza raggiunta dalla
comunità zelasca
nei confronti dei paesi del dintorni.
Nell'anno
1261, la
chiesa di Sant'Andrea di
Zelo e il monastero di Santa Maria
devono pagare al legato pontificio Guala
una decima "straordinaria" rispettivamente di tre
soldi e mezzo e tre soldi, questa è la richiesta di un
contributo per finanziare la guerra che il Papa stava conducendo in
quegli anni contro Manfredi, re di Sicilia.
Non è chiaro chi fosse il papa
che aveva ordinato la raccolta: nel 1261, infatti, muore Alessandro IV
(25.03.1261) ed è eletto Urbano IV (4.09.1261). Dopo la frase iniziale "Haec
talia domini Gualae notarti et legati domini Papae, MCCLXI "
(traduzione: "Questa è la tassa del notaio Guala, legato del
Papa, anno 1261"), il documento nomina circa 180 tra chiese,
Ospedali e monasteri del lodigiano, con tasse diverse, maggiori per le
istituzioni più importanti.
Nell'anno
1493, gli zelaschi
assegnano all'ordine dei domenicani
la chiesa di San Pietro, da poco
eretta sul luogo in cui in precedenza
sorgeva il monastero di Santa Maria, con tredici
pertiche di terra come rendita.
Nell'anno
1500,
il
beneficio parrocchiale della chiesa di
Sant'Andrea viene elevato a commenda a favore della famiglia Barni
di Lodi. Anno 1502. Zelo
viene saccheggiato di passaggio
dalle truppe francesi di Carlo VIII,
in marcia di trasferimento da Milano a Napoli.
Il
10
aprile 1509, nel corso della guerra tra Francia e Ducato di Milano
contro la Repubblica di Venezia,
viene catturata a Zelo una spia veneta,
che sarà poi condotta a Lodi, processata e impiccata
11
19 aprile settembre 1521, una
compagnia di guasconi, facenti parte
delle truppe francesi, devasta alcuni paesi del Paullese,
tra cui Zelo.
Nell'anno
1546, il feudo di Zelo viene ceduto al
principi Tassis che lo conservano fino all'estinzione
dei feudi nel 1782. La famiglia Tassis
aveva ottenuto la cittadinanza
milanese fin dal 1457 da parte di
Francesco Sforza I.
Per
sostenere le guerre che periodicamente dissanguavano le casse dello
stato, il governo spagnolo era sempre alla ricerca di soldi; e siccome
non era molto efficiente nella amministrazione, aveva trovato la maniera
di appaltare tutto: dazi, dogane, il monopolio del sale, quello dei
tabacchi, della polvere da sparo, le poste, i trasporti.
I soldi però non bastavano mai,
e il governo cominciò a praticare la vendita dei feudi: in 150 anni
(dal 1554 al 1706) gli spagnoli vendettero nel Ducato di Milano ben 276
feudi.
Il nuovo sistema feudale non aveva però niente a che vedere con quello medioevale: là il
feudatario era proprietario dei terreni del suo feudo, aveva diritto di
vita e di morte sui suoi sudditi, aveva l'obbligo di fornire soldati e
schierarsi in guerra col sovrano; qui il potere del feudatario
era ormai svuotato di contenuti, e si riduceva quasi solo al titolo
onorifico; il titolare del feudo
poteva benissimo non possedere neanche un podere nel suo territorio
aveva però il titolo di
marchese o di conte, a seconda dell'estensione
del feudo, e il diritto di giudicare i sudditi.
In realtà poteva giudicare solo
i rurali e nelle questioni minori, perché le cause
importanti e quelle in cui era coinvolto un cittadino erano
demandate al giudice della città.
Chi voleva comprare un feudo
doveva partecipare ad un'asta
fatta dal Governo, e il prezzo base era commisurato al numero dei fuochi, cioè delle famiglie, ed al numero e al valore degli
eventuali privilegi collegati.
Versata la somma pattuita, il neo
conte o marchese doveva prestare giuramento di fedeltà al re
e al governatore, e doveva ripeterlo ad ogni successione.
A sua volta il feudatario, al
momento dell'investitura, raccoglieva il giuramento di fedeltà da
parte dei suoi sudditi.
Il titolo era trasmissibile solo per linea
maschile: alla morte del titolare, in mancanza di figli maschi, il feudo
tornava allo stato, e veniva rimesso all'asta.
Una comunità
poteca opporsi all'infeudazione ma solo nel caso che fosse pronta a pagare, con grave sacrificio
finanziario, il prezzo della propria libertà: questo fatto si chiamava
"redenzione".
Il
demanio concedeva però alle comunità che volevano redimersi un anno di
tempo, e in genere il prezzo da pagare per la redenzione era inferiore
di 1/3 rispetto
a quello dell'avviso d'asta.
Prima di un'asta, il governo mandava
un avvocato fiscale a fare quella che si chiamava l'apprensione del
feudo, cioè la presa di conoscenza
di tutti gli elementi che potevano concorrere a definire il valore base
dell'asta.
Nel 1538 il governo spagnolo vende il
feudo di Paullo e terre
unite ad Antonio Carcassola il
feudo comprende 7 comunità: Paullo, Bisnate, Zelo Buon Persico,Marzano,Quartiano,Cervignano Mulazzano.
Otto anni dopo (13 agosto 1346)
il feudo stesso viene rivenduto a Simone Tassi,
cui era stato promesso due anni prima nientemeno
che dall'imperatore Carlo V.
I Tassi erano un'illustre casata,
originaria di Cornello in Val Brembana,
e avevano la signoria della valle di Cornello e delle vicine montagne.
Cominciarono ad esercitare nel Bergamasco
l'ufficio di corriere, ma ben
presto la famiglia si estese in diversi paesi, specializzandosi nell'organizzare
il servizio postale.
Già nel 1496 si trova un Tassi "Maestro delle
Poste" per i collegamenti tra il Ducato di Milano e la Corte
dell'Imperatore Massimiliano.
Nel 1332, per ordine di Carlo V,
Simone Tassi fu nominato Mastro
delle Poste di Sua Maestà
Cesarea a Milano, ma anche i fratelli di Simone, nel XVI secolo,
divennero responsabili dei servizi postali in tutta Europa,
contemporaneamente
a Venezia, a Roma, in Austria, in Spagna
e nelle Fiandre, e trasmisero queste cariche ai loro discendenti.
Inizialmente la posta così organizzata era esclusivamente
un servizio di Stato, ma ben presto i
Tassi cominciarono ad accettare lettere e pacchi di persone private,
nonostante il divieto in proposito: così si spiega il segreto degli
enormi guadagni di questa famiglia che, usufruendo di una organizzazione
pagata dallo Stato, godevano anche i proventi del servizio pubblico.
I
servizi postali erano esplicati da corrieri a cavallo, ma anche da
diligenze, che potevano trasportare anche viaggiatori.
Fino al 1673 il feudo
comprendente Zelo Buon persico rimane per discendenza al marchese Antonio
Tassi, alla morte del marchese avvenuta nello stesso anno senza
discendenti maschi il feudo
torna di proprietà del governo, che fa una nuova
"apprensione", per poterlo rimettere all'asta.
Purtroppo i documenti relativi al feudo successivi
al 1673 non ci sono più: all'Archivio
di Stato di Milano il raccoglitore che doveva raggrupparli risulta vuoto. Possiamo solo ricostruire, con alcuni
dubbi, la storia successiva del feudo, sulla base di un elenco - questo
è rimasto - dei documenti scomparsi.
Il feudo sarebbe stato rilasciato
nel 1674 ad un ramo laterale della famiglia Tassi, passando ad un
marchese PierFrancesco, poi a un
marchese Michele (1687)
diventato poi Principe nel 1702, e infine al Principe Antonio Della Torre Tassi.
Settecentesca chiesa di Zelo
Buon Persico
Bisnate
L'origine e il nome di questa frazione sono fatti risalire al IV secolo
a.C., durante la dominazione dei
Galli Boi. È sempre stato un importante
punto di passaggio per l'attraversamento dell'Adda, che qui
è più stretto rispetto al suo corso
normale.
Nell'undicesimo secolo viene innalzata
una prima postazione fortificata,
per il controllo del passaggio, che darà in seguito origine a un
castello.
Nell'anno 1239, l'imperatore Federico
II, in guerra contro i milanesi, si accampa con il suo esercito tra Bisnate
e Casolate.
Nel Settembre 1449, dopo la conquista di Lodi da parte di
Francesco Sforza il 12 settembre 1449, le truppe sforzesche raggiungono
a Bisnate i veneziani in fuga e li
spogliano di armi, cavalli e bagagli.
Interviene personalmente Francesco
Sforza che fa loro restituire ogni
cosa e li fa attraversare l'Adda
a Lodi. Per intervento di papa Niccolò
V, sempre a Lodi viene conclusa la
pace il 9 aprile 1454 tra Ducato di
Milano e Repubblica di Venezia.
Anno 1465. Cristoforo Spilimberto de'
Cani risulta signore di Bisnate.
Nel Maggio 1509, dopo la battaglia di Agnadello tra Francia e
Repubblica
di Venezia viene
gettato un ponte di barche sull'Adda
per permettere il passaggio del fiume ai sudditi
veneziani venuti a riconoscere i propri
morti.
Nell'anno 1531, Pietro de'
Cani di Bisnate
cede alcuni beni alla chiesa dell'Incoronata di Lodi.
Nell'anno
1546, il feudo
di Bisnate viene ceduto al principe Simone Tassis, famiglia di origine
napoletana, ma divenuta milanese dal 1457.
Nell'anno
1552, Marcello de'
Cani pubblica a Pavla "L'Amorosa
Fenice", descrizione
delle belle donne lodigiane
dell'epoca.
Nell'anno
1600, Agesilao
de' Cani è nominato Commendatore di
Milano.
Anno
1815, per ordine
del governo austriaco, viene costruito un ponte in legno,
in sostituzione dell'antico porto con
traghetto, a spese dei comuni di
Bisnate e Spino d'Adda.
Anno
1859, il ponte di
legno costruito nel 1815 viene distrutto dagli austriaci in
ritirata, nel corso della seconda
guerra d'indipendenza.
Nell'anno
1901, viene
inaugurato il ponte sull'Adda, a cinque
arcate in cotto e muratura, in occasione della sistemazione
della strada tra Milano e Pandino.
Ponte vecchio
Casolate
Anno
900, in un documento di quest'anno riguardante uno scambio di beni
tra il monastero di Lodi e quello di Nonantola
sono citati Giseperto e Ambrosiano
"de vico Casolate".
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ottobre 1147, in un atto concernente la proprietà di
un bosco presso l'Adda, detto Gerra o Addella, viene
citato Bonushomo de Casolate come
testimone a favore del vescovo di
Lodi contro i contadini di Cervignano.
Anno
1148, il
vescovo Lanfranco concede in
affitto ad Alberto Prandoni di
Casolate e ad Amico de Mignado (cioè Mignete) una cava di ghiaia
in località Addella.
Anno
1156, il vescovo Lanfranco conferma il
contratto d'affitto del bosco dell'Addella
In presenza del prete Gulfredo e del
prete Rolando "di Casolai".
Anno
1239, tra
Casolate e Bisnate si accampa
l'esercito di Federi co II, in
guerra contro i milanesi.
Anno
1261, la chiesa
di Casolate deve pagare al legato pontifìcio Guala
cinque soldi imperiali per la guerra
contro Manfredi in Sicilia.
Anno
1488, Francesco Sforza stabilisce a
Casolate il suo quartier generale nella guerra contro la Repubblica di
Venezia.
Anno
1609, Casolate è ancora feudo della famiglia de'
Cani di Bisnate.
Anno
1650, Casolate
diventa feudo del conti Melzi Malingegni,
fino all'estinzione del feudi nel
1782.
Anno
1757, nasce a Casolate Francesco Piazza
(1757-1829), sacerdote e fondatore dell'ordine delle religiose
Domenicane del Santo
Rosario (diffusosi poi anche a Zelo
Buon Persico, Comazzo e Lavagna)
e di un istituto per fanciulle.
Anno 1831, viene costruito il Convitto-scuola femminile di
San Domenico.
Mignete
Anno
1261, la
chiesa di Migate (cioè Mignete),
facente parte della pieve di Galgagnano,
paga al legato pontificio Guala
tredici denari imperiali in
aiuto alle spese della guerra contro Manfredi di Svevia in Sicilia.
Anno
1538, il feudo di
Mignete viene ceduto a Giovanni
de' Cani
di Bisnate.
Anno
1543, Tommaso
Codazzi, canonico della chiesa
milanese di santa Maria della Scala, risulta commendatore della
chiesa di Mignete.
Anno
1668, il feudo di
Mignete viene venduto, per diploma di Carlo II, a Cecilia Besozzi
vedova Bovesana, al prezzo di 50 lire
per fuoco (cioè
focolare e quindi famiglia, in numero
di 50); passa poi al conte Cesare Bovesana e infine
al reggente Carlo Maria Crivelli.
Villa Pompeiana
L'origine del nome è legata alla probabile presenza di una villa (e di
un porto fluviale) di proprietà del patrizio
romano Gneo Pompeo Strabene (150-80 a.C.)
negli anni intorno al 120 a.C.
Anno
1100, in una bolla di papa Alessandro II confermante i diritti dei monasteri delle Vergini di
Pavia,
tra i diversi possedimenti viene
citato "in laudensi Episcopatum Villam Pulpignanam
cum Capella Sancti Michaelis", dove "Villam
Pulpignanam" è la trascrizione latina del nome in
volgare di Villa Pompeiana.
Anno
1194, viene
fondata la chiesa di Santa Maria di Montebello da Pietro Bello di
Bisnate,
che sarà poi dotata degli arredi necessari dal figlio Gregorio. Nel
documento attestante l'evento viene citato tra l'altro il "Mare Gerondo".
Anno
1272, la chiesa di
Santa Maria ottiene dal vescovo di
Lodi un sedime di terra per il
mantenimento del prete Bonaventura e
per le spese di culto.
Anno
1358, la
rettoria di Villa Pompeiana data in commenda al nobile lodigiano
Berinzaghi.
Anno
1388, il sedime
di terra della chiesa di Santa Maria
viene affidato a Maffeo Vegio.
Anno
1423, l'umanista Maffeo Vegio
(forse parente dell'omonimo appena
citato) scrive a Villa
Pompeiana la "Cantica Pompeiana".
Anno
1518, la
rettoria di Villa Pompeiana viene
data in commenda a Gabriele Barni,
cameriere di papa Leone X e
commendatore anche della chiesa di Cervignano.