Poesia palestinese oggi
L'Unità, 2002Articolo inserito da Lello Voce
La terra più amata è, per antonomasia, quella negata, il luogo
dell'identità proibita, il mondo di un esilio. Con questo titolo torna in
libreria (ed. manifestolibri, 216pp., 15.50 euro, a cura di W. Damash, T. Di
Francesco, P. Blasone) un'edizione accresciuta e aggiornata dell'antologia della
letteratura palestinese già pubblicata nel 1988. Torna a distanza di un
quindicennio, proprio oggi, mentre la Palestina vive ore tragiche, appena
all'indomani delle orribili giornate di Genin. Torna per ricordarci l'assoluta
originalità della cultura palestinese, la sua ricchezza, il suo orgoglio e la
sua tragedia. D'altra parte, pur essendo spesso frutto di diaspora - o forse
proprio per questo - la cultura e la letteratura palestinese hanno una
peculiarità e una forza indubitabili che ne fanno un caso a parte all'interno
della più vasta tradizione araba.
Sono ventitre gli scrittori e i poeti
ospitati nelle pagine de La terra più amata, un campione di un territorio
certo più vasto e più ricco, ma che viene ben rappresentato dalla scelta dei
curatori che ci offrono uno spaccato che va da autori nati negli anni 20 e 30
(Mu'in Bsisu, Giabra Ibrahim Giabra, Gassan Kanafani, Tawfiq Zayyad) ad altri
più giovani, ma ormai notissimi, anche in occidente - uno per tutti, Marhmud
Darwish - e fino alle generazioni ultime, che sono state protagoniste in prima
persona dell'Intifada, ad esempio al-Mutawakkil Taha e Hanan Awwad. «I ricchi
hanno Dio e la polizia. I poveri hanno le stelle ed i poeti», si legge in un
racconto di Mu'in Bsisu, allegoria tanto della assoluta necessità dell'arte e
della cultura nella costruzione e ri-costruzione dell'identità di un popolo
senza terra, quanto di una laicità e di una raffinatezza della letteratura
palestinese nella quale non a caso le donne occupano un posto di tutto rispetto
( e penso, oltre che alla già citata Hanan Awwad, a Samira Azzam, Raymonda Hawa
Tawil, Salma al-Khadra al-Giayyusi, Fadwa Tuquan). Ciò che colpisce, scorrendo
le pagine di quest'antologia, è, poi, la capacità di questi autori di narrare il
dramma palestinese e, insieme, di renderci chiaro quanto esso sia emblematico di
condizione più generale d'esilio (dai valori, dalla natura, dall'umanità) che ci
colpisce tutti, sia pure con modalità e intensità differenti, quasi che le
radici che ci tenevano stretti alla memoria siano per tutti sul punto di essere
recise, in una sorta di orribile globalizzazione dello spaesamento e
dell'esilio, di mondializzazione di un nomadismo che non ha più alcuna strada da
percorrere, inchiodato all'eterno presente di una guerra infinita e
generalizzata.
Sul proscenio restano, però, a fine lettura, le immagini crude
delle «vittime delle vittime», come le ha definite Edward Said, i suoni, le
parole, gli odori «d'una gente / che è ribelle alla morte, / d'un paese che non
vuole / che lo sgozzino in silenzio», come scriveva già negli anni Settanta
Tawfiq Zayyad, e la domanda, terribile, che ancor prima, a metà degli anni
Trenta, Ibrahim Tuqan lanciava ai potenti della terra dai versi di una sua
indimenticabile poesia: «Basta a voi che la terra si svuoti di noi, / o per noi
preferite la morte?».