Perché ha vinto Hamas
Palestina: prima
dello Stato c'è bisogno di diritti
La corruzione dell'apparato amministrativo e militare creato dopo gli accordi
di Oslo non spiega, da sola, la sconfitta di Fatah
di Wasim Dahmash
La
stampa, nel commentare i risultati delle elezioni del consiglio legislativo
palestinese, ha indicato nella "corruzione" diffusa nel sistema di
potere dell'ANP, la causa della sconfitta di Fatah e della vittoria di Hamas. A
mio avviso, la corruzione dell'apparato amministrativo e militare creato dopo
gli accordi di Oslo non spiega, da sola, la perdita di credibilità di Fatah. La
corruzione costituisce infatti la caratteristica della maggior parte dei
sistemi politici dei paesi che si trovano alla periferia del mercato globale.
La gestione del danaro pubblico è una fonte di arricchimento ovunque nel mondo,
con vari gradi che dipendono dall'efficienza delle leggi e, soprattutto, dei
controlli. Nelle economie deboli il saccheggio del danaro pubblico e delle risorse
comuni è il principale mezzo di arricchimento. Nel caso palestinese, la
corruzione, già capillarmente messa in opera dai dirigenti di Fatah per
mantenere il loro ruolo all'interno del proprio gruppo, è diventata un sistema
di potere, soprattutto perché, dopo la nascita dell'ANP, Fatah ha cercato di
avere un'egemonia totale non solo negli apparati amministrativi e militari, ma
in tutti i meandri della società civile.
Dal momento dell'occupazione di Cisgiordania e Gaza nel 1967, era sorta
spontaneamente e poi si era sviluppata una fitta rete di solidarietà, prima
familiare e in seguito sociale, formata da associazioni e gruppi che si erano
fatti carico di assicurare i servizi indispensabili e l'assistenza sociale.
Sono sorte amministrazioni locali parallele che hanno sopperito alla mancanza
di istituzioni e hanno favorito una lunga resistenza che ha permesso alla
popolazione di sopravvivere fino a oggi. Sono stati creati ospedali e
ambulatori, scuole e università, cooperative agricole e artigianali. L'istituzione
dell'ANP non ha facilitato l'operato della rete di solidarietà, anzi l'ha
ostacolata e ha cercato di sostituirla con apparati preposti al suo controllo.
Il sostegno finanziario di cui queste associazioni avevano un enorme bisogno si
è tradotto in tangenti date ai personaggi vicini a Fatah per accelerare il loro
controllo. La pioggia di danaro che tramite i programmi internazionali è caduta
su alcuni dirigenti di tali associazioni, ha creato una nuova categoria
sociale, nota nei territori occupati con l'etichetta di "èlite
globalizzata". Questa categoria, che comprende i dirigenti di vario
livello di Fatah-ANP, delle ONG legate a Fatah e degli apparati paramilitari,
ha tratto enormi vantaggi economici dal processo aperto da Oslo.
Alla perdita di credibilità di Fatah non è certo estraneo il logorio messo in
essere dal governo israeliano attraverso un impari processo negoziale il cui
oggetto è la spoliazione dello spazio fisico dei palestinesi. Il meccanismo che
con Oslo si è instaurato, ha logorato Fatah dando al gruppo dirigente
l'illusione di governare un territorio e una popolazione che invece restano a
tutt'oggi sotto occupazione militare israeliana. La coabitazione col sistema di
occupazione ha trasformato la più grande delle formazioni palestinesi, Fatah,
in un ibrido in cui alcuni settori cercano di resistere ancora all'occupazione
militare, mentre altri si sono trovati a collaborare con le autorità
dell'occupazione e addirittura con i servizi segreti israeliani.
Tuttavia, non è solo nella "corruzione" e nel
"collaborazionismo" che vanno individuati i motivi della sconfitta di
Fatah. Bisogna aggiungere che l'intero disegno politico di Fatah, è
fallimentare. I meccanismi introdotti con gli accordi di Oslo minano il
processo di liberazione dei popoli palestinese e israeliano, e rendono remota
la possibilità di una soluzione duratura della questione israelo-palestinese.
La di-sarticolazione del movimento di liberazione palestinese, evidente negli
accordi tra Fatah e i governi israeliani fin dal 1993, ha messo al servizio del
governo di Israele e degli Stati Uniti un apparato amministrativo e poliziesco
capace di incidere profondamente sulle dinamiche sociali e politiche in atto.
Con gli accordi di Oslo, nei territori occupati sono stati introdotti in grandi
quantità, attraverso la costituzione della polizia dell'ANP, armi e uomini
armati provenienti dall'estero, all'evidente scopo di spostare sul terreno
militare lo scontro tra il disarmato e pacifico movimento di resistenza
popolare e l'esercito di occupazione.
L'apparato dell'ANP dipende economicamente, in larga misura, dalle donazioni
estere. Ciò non condiziona soltanto le scelte politiche dei capi, ma incide
profondamente in una società che dal 1967 si era industriata per sopravvivere
nonostante un assedio permanente. L'etica del lavoro, che ha permesso ai
palestinesi di resistere così a lungo alla volontà di eliminarli, è messa in
discussione dal clima di parassitismo instaurato dall'amministrazione gestita
da Fatah. In una situazione di miseria, lo stipendio, per quanto povero, di un
poliziotto è una boccata d'ossigeno per l'intera famiglia. Lo stipendio è
ovviamente dato soltanto a chi "obbedisce". Il commercio, e quindi la
vendita dei prodotti all'estero, fondamentale per qualsiasi economia, e a maggior
ragione per un'economia sotto assedio, passa necessariamente attraverso
"aziende" create dagli uomini di Fatah-ANP o dai loro figli o mogli,
sotto il controllo del governo di occupazione. Oggi, nei territori occupati nel
1967, su una popolazione di appena 3,5 milioni, si stima in almeno 700.000 il
numero di coloro che dipendono, in vari modi, dalle elargizioni in danaro
dell'ANP.
I costi dell'amministrazione dei territori occupati sono pagati dai governi dei
paesi arabi produttori di petrolio, e in misura minore dall'Unione Europea e
dagli Stati Uniti. I fondi sono versati allo scopo dichiarato di aiutare il
processo di pace che dovrebbe portare a realizzare la separazione fra
israeliani e palestinesi, relegando i palestinesi in una riserva. A questo
proposito, lo sottolineo, la dottrina separatista è una vera trappola. Invece
della liberazione e della riconciliazione di palestinesi e israeliani, vengono
propagandate idee di spartizione, separazione e segregazione che alimentano i
conflitti invece di spegnerli e che creano situazioni difficili da superare e
dalle conseguenze imprevedibili su un piano più generale, quale la costruzione
del "muro di separazione" che ha effetti nefasti non solo su
israeliani e palestinesi ma sul concetto stesso di convivenza civile su scala
mondiale. Oltretutto la maggioranza dei palestinesi è convinta oggi che la
liberazione risieda nella costituzione di uno "Stato". Ciò sposta i
termini del problema: antepone questa questione a quella più urgente dei
diritti fondamentali dell'uomo, fa dimenticare che lo "Stato" ha
ragione di essere soltanto se è garante dei diritti, se è "stato di
diritto". I palestinesi sono stati trascinati su un terreno insidioso che
elude il problema reale: quello dell'occupazione della loro terra, l'espulsione
di gran parte di loro, la dispersione della società, la cancellazione della
Palestina. Prima dello Stato e di ogni altra questione, i palestinesi hanno
bisogno di diritti: diritto alla vita di ciascun individuo, diritto
all'integrità fisica - in contrasto con la legislazione israeliana vigente -,
diritto alla dimora nel proprio territorio - che può chiamarsi Israele o quel
che si vuole -, diritto alla proprietà della terra - che ovviamente contrasta
con la legge israeliana sulla "terra ebraica" e sulla "proprietà
degli assenti"-, diritto alla casa - e non vedersela demolire - diritto
alla libera circolazione nel proprio paese Palestina/Israele, al lavoro, allo
studio, diritti civili e diritti politici. Ogni discorso che tende a deviare
l'attenzione dai diritti fondamentali è ingannevole.
Continuo a credere nell'azione di massa, cosciente, costante, meticolosa,
democratica, che come nell'ormai lontano 1987, ha portato a quella insurrezione
popolare disarmata e non violenta che aveva spaventato il vertice dell'OLP e il
governo Shamir, tanto da indurre entrambi ad azioni miranti a portare lo
scontro sul terreno militare. Basti ricordare che il primo atto del governo
Shamir, allo scoppio dell'intifada, oltre alla repressione violenta, è stato
quello di allontanare dai territori occupati 16 persone che teorizzavano la
resistenza passiva e la non violenza. Tralascio qui di menzionare la serie di
azioni armate e dimostrative intraprese immediatamente da Fatah-OLP al fine di
dimostrare l'"ineluttabilità" della lotta armata, per non parlare
delle uccisioni mirate di presunti "collaborazionisti" che erano
diventate abituali nei territori occupati.
Continuo a credere che sia urgente sostenere la lotta di massa e allontanare ed
escludere coloro che per qualsiasi ragione cercano lo scontro armato. Il
di-sarmo delle formazioni armate è una necessità vitale per il popolo
palestinese. È un processo lungo, difficile e dagli esiti incerti. Sono convito
comunque che solo il disarmo, sia dei palestinesi, sia degli israeliani, possa
permettere una convivenza civile tra le due popolazioni presenti sul territorio
della Palestina storica. È una prospettiva realistica e raggiungibile per il
semplice fatto che la stragrande maggioranza degli israeliani e dei palestinesi
vuole vivere, lavorare, vedere crescere i propri figli in santa pace. È una
prospettiva di segno diametralmente opposto alla politica dei gruppi dirigenti
dei due popoli che illudono le masse con promesse di pace tribale armata,
mentre sul terreno creano le condizioni affinché quella pace non si possa mai
realizzare.