|
|
|
apertura
|
| |
IL RITMO DEI
SENSI/INTERVISTA Ogni poesia sta
alla lingua come l'onda al mare I suoni di Adonis INCONTRO CON IL POETA
SIRIANO. «Da quando ho imparato a camminare mi sono percepito
come albero, pietra, nuvola, acqua. Sentivo di far parte di un
mondo vivo, sensoriale, che mi avvolgeva. Man mano che passano
gli anni mi rendo conto sempre di più della complessa forza
della lingua araba, e mi chiedo se ne siamo
degni» WASIM
DAHMASH Avolte, quando le
parole si affiancano le une alle altre in modo che i
significati, seppure parzialmente, si sovrappongono, si
determina un passaggio di senso fino a stabilire una relazione
d'identità nel punto estremo in cui quei significati arrivano
a convergere. In questi casi le parole si sfiorano, e in
qualche modo si costituscono in un rapporto sinonimico tale da
evocare quel fenomeno chiamato «coscienza mitologica», una
logica preesistente a quella razionale e vigente ancora oggi
se tra l'oggetto e il suo nome si stabilisce un legame così
stretto da renderli non più scindibili: succede, per esempio,
quando abbiamo paura di evocare una malattia pronunciandone il
nome e, evitando di nominarla, la esorcizziamo. Così, gli
oggetti verbali sarebbero legati strettamente alla realtà,
resa concreta attraverso la parola. Chi, come noi al giorno
d'oggi, non possiede la logica intrinseca al mito, è indotto a
tradurre quegli «oggetti verbali» in immagini metaforiche e
simboliche invece di imboccare le strade che ci permettono di
recuperare quell'antica unità, facendone riemergere il
retaggio di sensi. In una forma moderna, anche se non
raggiunge l'asciuttezza che esigerebbero questi tempi in cui
vige l'estetica della «postmoderità», le parole che formano i
versi di Adonis, immerse come sono in una antica cultura,
araba e non solo, vorrebbero essere legate strettamente alla
realtà, come al tempo in cui le «parole» ancora non erano
separate dalle «cose». Così recita, nell'ottima traduzione di
Fawzi AL Delmi, una poesia di Adonis titolata Albero
d'Oriente e inclusa nella raccolta appena uscita da
Mondadori, Libro delle metamorfosi e della migrazione
nelle regioni del giorno e della notte: «Divenni
lo specchio/ riflettei ogni cosa/ mutai nel tuo fuoco il rito
dell'acqua e delle piante/ mutai forma alla voce e al
richiamo./ Cominciai a vederti duplice:/ tu e queste perle che
nuotano nei miei occhi./ Io e l'acqua diventammo amanti:/
nasco in nome dell'acqua / e in me si genera l'acqua./ Io e
l'acqua diventammo gemelli».
Lo sdoppiamento, lo
specchio, gli occhi che si riflettono nell'acqua dove si
rifrange anche l'io lirico in dialogo con la sua
complementarietà, sono ricorrenti nella poesia mistica araba:
quella dei sufi, di Hallag, di Ibn Arabi e Ibn al-Farid. È la
tensione verso l'unità il tema dominante, dove lo specchio ha
le stesse capacità riflettenti dell'acqua. Gli occhi, in uno
dei loro significati, alludono alla profondità che risiede
nella stessa lingua araba. In arabo 'ayn è il nome
della lettera dal suono più profondo, posteriore, faringale,
dell'alfabeto;'ayn significa nello stesso tempo
«occhio», «fonte, sorgente» , «sostanza, essenza» e ancora,
«stesso, medesimo». Lo specchio ricrea e riflette la stessa
immagine. Le molteplici associazioni stabilite dai mistici
musulmani a partire da «occhio», «fonte», «essenza», risiedono
in questo semplice dato linguistico. «Occhio» e «fonte», in
arabo si trovano associati dal momento che entrambi i
rispettivi referenti sono situati al limite tra l'interno e
l'esterno del corpo e della terra, con una connotazione di
tramite verso la profondità. 'Ayn al-haqiqa, per il
mistico è «la verita assoluta» e 'ayn al-yaqin è «la
certezza assoluta». Da qui, forse, e sulla linea di una
eredità culturale difficile da dipanare, gli «occhi» e
l'«acqua» sono accostati anche da Adonis; e più in generale, i
rapporti che stabilisce tra le parole dei suo versi
richiamano, in una veste rinnovata, quelle
associazioni.
Nella lirica di Adonis l'eredità
culturale agisce in un dinamismo continuo: non è qualcosa che
si trova in un certo punto del passato, piuttosto è il tempo
che si condensa, pensato come un'unità. E nel rivisitare la
storia, Adonis concilia l'esigenza di riprendere possesso di
quel patrimonio delineandolo con i mezzi che la modernità ha
impresso, livellandolo, alle forme della poesia. Come il
mistico sufi nel suo cammino verso l'«unione», il poeta è in
viaggio, in scoperta continua: di sé, dell'altro, della
realtà, dell'ignoto, di un altrove che riecheggia,
inaspettatamente, con la voce di una memoria viva, che è al
tempo stesso irrinunciabile frammento d'identità. Piuttosto
che un obiettivo da raggiungere, è il cammino da seguire che
si rinnova perennemente, sintomo di un'aspirazione
inestinguibile, come avviene a uno degli alter ego di Adonis,
Mihyar, personaggio di un lungo componimento ormai lontano nel
tempo (Agani Mihyar al-dimashqi «I canti di Mihyar
il damasceno», Beirut 1961).
In un suo libro titolato
«Sufismo e surrealismo» (al-Sufiyya wa l-suriyaliyya, Beirut
1992) poi ripreso in un breve saggio tradotto all'interno
della raccolta La preghiera e la spada (Guanda,
Parma 2002) Adonis riconosce ai surrealisti una linea di
pensiero comune a quella seguita dai mistici musulmani. Tra
demolizione e ricostruzione, atti di libertà e di
purificazione del pensiero e della lingua, nel suo ruolo di
poeta si prefigge lo scopo di raggiungere la conoscenza
dell'«io» e dell'ignoto, la sua unità nascosta, con la
coscienza sia di doversi liberare totalmente delle «dimore»
poetiche istituite socialmente, sia di dovere perseguire la
purezza nell'ignoto della lingua e del mondo.
In questo
senso, il poeta è un visionario, mistico, sufi, ma soprattutto
è un rivoluzionario: «Ogni poeta è un rivoluzionario e un gran
demolitore di ciò che è noto, perché è un grande creatore di
ciò che noto non è» (Zaman al-shi'r , «Il tempo
della poesia», Beirut 1978).
Con Adonis, più che mai si
ripropone quindi l'interrogativo sull'enigma dello scaturire
del pensiero dall'ascolto, o dalla lettura, delle parole. Nel
leggere la sua poesia, ci avviciniamo a quella tensione
massima che si risolve nella significazione della parola. Le
radici nel passato, nella sua poetica, sono ancorate al
presente, come lo stesso Adonis mi diceva in una conversazione
che ha preceduto il nostro incontro recente, dato che la
cultura è «un patrimonio vivo in noi, la cui comunicabilità è
continua: ciò che ha la capacità di continuare, è parte di
noi».
Quale nesso le sembra di potere stabilire tra
la formazione della sua infanzia, in un ambiente contadino, e
la mediazione fortemente intellettuale che emerge dai suoi
versi?
Non è facile per un poeta essere il critico
di se stesso. La sua domanda merita un chiarimento:
nell'ambiente in cui sono cresciuto prevaleva una cultura che
operava una cesura tra Dio e il mondo, tra Dio, l'uomo e la
natura. In questa cultura, Dio è un'astrazione. Ma fin
dall'infanzia avevo la tendenza a umanizzarlo, a vederlo
espresso in tutte le cose e quindi nella natura. Avvertivo che
l'esistenza, e ciò che c'è oltre, è un'unità. È subentrata poi
la conoscenza del sufismo. Se nella mia poesia sono presenti
gli elementi della natura, questo si deve non solo a quella
prima spinta a contraddire l'insegnamento religioso, ma anche
al fatto di essere nato nel grembo della natura. Da quando ho
imparato a camminare mi sono percepito come albero, pietra,
nuvola, come acqua, parte di un'onda. Sentivo di far parte di
un mondo vivo, sensoriale, che mi avvolgeva.
Vorrei
ci fermassimo, un momento, sulla percezione degli elementi
naturali, non mediati da concetti che intervengono a
posteriori. Intanto, la percezione dell'ambiente circostante
passa attraverso i propri genitori...
Mio padre
leggeva e scriveva poesia: è stato lui, che faceva il
contadino e lavorava la terra, a insegnarmela e a insegnarmi a
leggere e scrivere. Nel nostro villaggio non c'era una scuola
come la intendiamo oggi. Si imparava dovunque: le lezioni, il
«kuttab», si svolgevano sotto un albero. E sotto quell'albero
io studiavo insieme agli altri bambini. Mio padre è stato il
mediatore, per così dire, dell'aspetto intellettuale; da lui
ho appreso i grandi autori arabi della classicità e della
poesia sufica. A mia madre, che non sapeva né leggere né
scrivere, devo il rapporto con la natura, anche lei ne faceva
parte. Ma, per la verità, entrambi i miei genitori hanno
contribuito a dare forza alla mia percezione dei fenomeni
naturali. Fin da piccolo mi ritrovai a seminare, piantare,
mietere e vivere nella terra. Prima dei tredici anni, quando
andai in città, non avevo mai visto un cinema, né una radio o
una macchina. Da noi non c'era nemmeno la corrente
elettrica.
Nei suoi versi funziona una sorta di
«surrealismo»: è un argomento su cui lei ha indagato a lungo
dedicandogli anche un saggio titolato «al-Sufiyya wa
l-surialiyya» (Sufismo e surrealismo). Ce ne vuole
parlare?
Il legame con la natura mi ha insegnato a
ricercare l'«oltre» e a interrogarmi continuamente. È un
atteggiamento che è stato rafforzato, in me, dal sufismo,
inteso come dottrina mistica islamica. La realtà, nella
concezione sufica del mondo, non è solo quella percepita
attraverso i sensi, ma consiste in ciò che c'è oltre. Questa
idea, che è sempre presente nel mio pensiero, si è riproposta
quando ho conosciuto l'opera dei surrealisti. Qui ho ritrovato
il sufismo, privo dell'aspetto religioso e al di fuori
dell'ambito della fede: l'ho ritrovato nella forma di una
particolare concezione del mondo. Il sufismo, anche se spesso
viene interpretato come rinuncia dei sensi, è invece
un'esperienza sensoriale con cui si percepiscono, nella mente,
l'universo, l'uomo, i fiori, i fiumi. Mette in opera una
«naturalizzazione» di Dio, lo vede non al di fuori del mondo,
ma in ogni cosa. Corrisponde a ciò che Ibn Arabi chiamava
«wahdat al-wugud» (l'unità dell'essere). Coincide con quanto
Hallag - il grande poeta sufi di Baghdad che fu ucciso per le
sue idee - nominava come «al-hulul» (incarnazione) nel senso
che Dio prende dimora, sia nell'uomo, sia nella natura. Il
sufismo ricerca l'ignoto a partire dalla natura stessa, cioè a
partire da ciò che è noto, contrariamente a quanto vorrebbe la
lettura più comune, che è quella della tradizione religiosa,
la più superficiale. Nel corso del tempo i giurisperiti
musulmani hanno mutilato il sufismo, accusandolo di
miscredenza e di eresia. Invece di discuterne per conoscerlo,
l'hanno posto fuori della religione e dunque eliminato. Nel
mio libro discuto quindi del rapporto tra sufismo e
surrealismo, dandone una lettura che si può definire,
semplificandola molto, una sorta di «surrealismo naturale», di
contro all'aspetto intellettuale che prevale nel surrealismo.
Un surrealista, arabo, non può non essere
sufi.
Secondo questa lettura, come descriverebbe i
tratti del sufismo presenti nella sua poesia?
Sono
essenzialmente cinque: l'universo è un'unità indivisibile che
comprende il noto e l'ignoto. Quest'ultima è la parte più
importante, ma bisogna comprenderle entrambe. La conoscenza
nasce dall'ignoto ed è ricerca continua e interrogazione
infinita. La verità, inoltre, è una scoperta e non discende
per insegnamento come indica invece la religione: non è
nascosta all'uomo, gli sta davanti. E ancora, l'identità non è
data a priori e definitivamente: tocca a ognuno di noi
inventare la propria. Per finire, l'universo è un infinito che
si crea continuamente e non è creato una volta per tutte e per
sempre.
Qual è il suo atteggiamento nei confronti
della poesia classica, per esempio in rapporto al
ritmo?
Un poeta deve conoscere la storia estetica
della propria lingua, perciò il poeta arabo deve conoscere a
fondo la lingua araba. Il mio rapporto con la classicità araba
si delinea da una parte in una rilettura del passato e
dall'altra nella ricerca di ciò che non si conosce, nel
tentativo di aggiungere qualcosa: è forse il contrario
dell'imitazione. La mia poesia è araba, lo è in ogni suo
granello, ma non vuole essere paragonata a quella di nessun
altro poeta arabo. L'acqua nel mare crea le onde. La lingua
araba è il mare, la produzione poetica è l'ondeggiare
dell'acqua nel mare. Non è dato al poeta ripetere nessuna onda
precedente. Il rapporto del poeta è con l'acqua e non col
movimento delle onde. Con quell'acqua deve creare nuove onde,
tutte sue. Man mano che passano gli anni mi rendo conto sempre
meglio di quanto sia complessa la forza della mia lingua e se
penso alle condizioni in cui versa la cultura araba oggi, mi
chiedo se siamo degni di un tale strumento. La poesia è un
linguaggio dei sensi, dunque il mio rapporto con il ritmo è
essenziale. Non quello prodotto dalla rima o dalla metrica, ma
quello che si genera dalle relazioni tra un vocabolo e
l'altro, tra una lettera e l'altra, tra un suono e l'altro.
Queste relazioni producono frasi diverse, lontane
dall'ordinamento classico.
Sono relazioni che si
possono ricreare in un testo tradotto?
Cercherò di
rispondere evitando di restare intrappolato nella «impasse»
secondo la quale la traduzione poetica è «impossibile».
Parliamo, piuttosto, di acquisti e di perdite. Se non è
possibile trasportare una lingua, con le proprie strutture e
le proprie particolarità in un'altra lingua, la traduzione non
può che essere una «destrutturazione» del testo che va
«ristrutturato» nella lingua d'arrivo. Facendo questo, il
testo poetico perde necessariamente l'elemento linguistico del
ritmo originale. Il traduttore quindi deve trovare un ritmo
equivalente nella lingua d'arrivo, ma per quanto bravo possa
essere, qualcosa va sempre perduto.
Lei accennava
prima alle condizioni in cui versa la cultura araba
oggi...
La cultura, e quindi la letteratura, nelle
società arabe non fa parte organica della vita sociale. Non è
il pane quotidiano. La cultura è spesso ornamento della
politica. Esiste però in molti la volontà di trasformarla in
ricerca, non dipendente dal potere politico e
religioso.
| |