Postfazione

Il percorso della vita è ancora una volta raccontato attraverso un viaggio, dal Cairo verso l'Alto Egitto, compiuto in compagnia di due straniere che tra di loro hanno un rapporto omosessuale. Un viaggio verso le radici della propria famiglia, per esaltare l'estranietà e la diversità di un mondo che non si sente più come proprio. A sottolineare l'inutilità della ricerca il narratore va verso un passato che forse non c'è mai stato, per cui i viaggi si susseguono, sempre più a sud, nel Sudan, terra della nascita e della prima infanzia dell'autore, e nel suo più profondo, malinconico e offeso. Tra il reale e il fantastico sono i momenti del ricordo, forse anche del sogno, della scrittura e della riscrittura della propria vita, soppesata e rivisitata. All'amarezza si alterna l'incisività delle esperienze, si misura e si fonde con un presente che, abbandonata la lotta politica, appare senza progetto e senza futuro, privo di senso.

Seguendo il cammino che R. Musad Basta racconta, si è come schiacciati da due delle sue esperienze: quella del carcere e quella della vita in una delle più degradate periferie del Cairo. Due situazioni, diverse e complementari, che si riassumono nell'endiadi repressione e ribellione che continua a caratterizzare la vita di tutte le società arabe, non solo dell'Egitto.

Non si tratta di un'analisi sociologica, Musad Basta ne è un testimone partecipe, cerca di descrivere la sua esperienza avvertendo "Il carcere non si può descrivere ... Non si può descrivere l'odore. Non si può descrivere il silenzio ..." La vita del giovane scrittore ne è segnata, "lascia tracce profonde, incancellabili, per molti anni gli incubi ossessionano chi l'ha subita, determinano il suo modo di vivere, danno un senso di amarezza che dura per tutta la vita e cresce nei  momenti in cui si sente di aver fallito".  Se per un verso la reazione è tutta individuale, così come è necessariamente personale quest'esperienza, per altro verso si tratta di un fatto comune, quasi ineluttabile, che tocca chiunque nei paesi arabi abbia l'ardire di protestare contro gli abusi dei gruppi che detengono il potere. E il carcere vuol dire sempre paura e tortura, quella terribile, banale e bestiale, del corpo. Lo scrittore vi accenna appena, perché il carcere, appunto, non si può descrivere. Ma la sua esperienza risale agli anni Sessanta, in un Egitto che conservava una parvenza di legalità e e di rispetto dello stato di diritto. Oggi la repressione è diventata l'asse portante del sistema di potere in tutto l'Oriente. Da una parte, repressione fatta di carcere, tortura e morte, che colpisce soprattutto i giovani, e dall'altra, corruzione e sadismo che il sistema genera, assicurandosi così stabiltà e continuità. Alla base è la concezione stessa del potere che si esplica nell'esercizio della violenza più brutale vista come espressione di sovranità. Il sistema del potere tirannico è piramidale, è una costruzione in cui ogni singolo componente è controllato e perennemente ricattato dal suo diretto superiore. Appena può esercita a sua volta un suo piccolo potere nei confronti dei cittadini, nella migliore delle ipotesi considerati pecore da condurre al pascolo, da mungere e da macellare. Il terrore di non far parte della macchina della repressione e, ai livelli più alti, di arricchimento, e di ritrovarsi dall'altra parte, quella delle pecore, rende feroci e rapaci i suoi componenti. E' un sistema che garantisce il potere a chi sta in cima alla piramide e che assicura la sopravvivenza del suo potere assoluto. E infatti, morto un dittatore se ne fa subito un altro, pena il decadimento del sistema. I componenti del vecchio regime conservano in questo modo le loro funzioni e i loro privilegi mettendosi al servizio del nuovo tiranno. Musad Basta, letterariamente, ne fa un caso emblematico e se ne meraviglia: "E' sorprendete scoprire che il potere nasseriano aveva ereditato dal regime monarchico contro il quale aveva combattuto, la maggior parte degli 'esperti' della sua polizia segreta." Per poi afferma alla fine "è così da sempre..." Vale anche per un caso più recente, quello dei palestinesi, che certo non aiuta a sperare. Abituati da sempre a contare i loro morti per tortura nelle carceri israeliane, passati in regime d'autonomia devono aggiungere al macabro conteggio anche i morti per tortura nelle carceri 'nazionali'.

I processi, per quanto farseschi e le carceri, per quanto dure, sono comunque prerogativa solo di quei pochi stati che rispettano un minimo di legalià. Ovunque, o quasi, gli oppositori politici, o supposti tali, sono torturati e massacrati nelle sedi delle polizie segrete e spariscono senza che nemmeno si venga a sapere che sono stati arrestati.

Nelle società in cui la repressione è tanto feroce, la protesta assume il carattere di uno scontro totale, e cresce in situazioni che sfuggono al controllo dello Stato, in quelle sterminate periferie delle metropoli dove milioni di emarginati vengono stipati in condizioni di abbandono e di degrado sia sociale che individuale, senza lavoro e senza prospettive. Riserva di mano d'opera, è in genere costituita da disoccupati e sottocupati, contadini costretti, per il modificarsi delle condizioni economiche, a trasferirsi in città e a imparare l'arte dell'arrangiarsi.

R. Musa Basta fa muovere i suoi personaggi in questo ambiente dove, accanto al diffondersi della criminalità, matura la ribellione. In mancanza di una coscienza civica tanto combattuta dal regime e in mancanza di qualsiasi struttura politica credibile, la ribellione può assumere un orientamento religioso, dato che è la moschea a rimanere unico centro di aggregazione e che è la religione ad apparire come ultimo baluardo contro la negazione dell'individuo, della comunità e dei loro valori culturali. Ma se è naturale che i fenomeni di protesta sociale che assumono connotazioni religiose siano tanti, per lo meno quante sono le diverse situazioni politiche, economiche e sociali che li generano, ne discende che questi fenomeni poco o nulla abbiano a che fare con l'immagine del mostro terrorista e sanguinario che stampa e televisione occidentali hanno creato e diffondono  per i loro utenti che ormai hanno finito con l'identificare l'islam con l'integralismo o il fondamentalismo.

Ben poco possono le memorie erotiche di Musad Basta contro la macchina che crea tali mostri, tanto potente da indurre i mezzi di informazione dei diversi paesi arabi  a ripetere, traducendoli, questi luoghi comuni sull'islam e sugli arabi stessi. Distanze abissali separano la realtà dall'immagine che le è stata sovrapposta, eppure le due si compentrano e si confondono. A colmare la distanza ci prova lo scrittore. Al traduttore il compito, ben più facile, di colmare quella tra il testo arabo e la versione italiana. Una fatica divenuta lieve per l'aiuto di Francesca Bettini e di Pina Rosa Piras che hanno letto la bozza della traduzione e suggerito modifiche e correzioni. La mia riconoscenza, per quanto grande, è poca cosa in confronto alla loro gentilezza.

I pochi vocaboli non italiani sono spiegati, la prima volta che compaiono, direttamente nel testo: Samuel effendi, signor Samuel; Khawagaia, signora straniera, ecc. Ho preferito introdurre accanto al termine la sua traduzione piuttosto che appesantire il testo con note esplicative.

Wasim Dahmash