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GIORGIO CORTENOVA
"Le operazioni strutturali di Achille Incerti"

"...i passanti scorrevano l'uno dopo l'altro, spettri dell'Ade non evocati. Alcuni avevano uno sguardo meno serio; alcuni sembravano istericamente allegri; ma i volti tristi avevano una serietà particolare"
(da "Israel Potter ", Herman Melville)


      “ Signor mio, un'abburattatrice, per la sua perseveranza nel bene, non è inadatta a finire in paradiso. E le pare che un garzone possa andarci?” Così Melville in «The Confidence Man» fa parlare un industriale. Da parte di quell'industriale il discorso crudele è logico.
Qual'è la perseveranza nel bene dell'abburattatrice? Non pretende remunerazioni; non il salario quindi, non un domicilio, non il vitto; è obbediente sempre. Per portare il discorso più innanzi nelle sue conseguenze è senza discussioni integrata e asservita.
Il garzone di certo è più pericoloso: pecca; e pecca di continuo. Può essere docile, servizievole, asservito, ma fino a un certo punto sempre. Nella maniera in cui gli riesca di non essere individuo; o nella misura in cui sia stato condotto a dimenticarsene. AI di fuori di questo margine si vieta al paradiso.
Seguendo la logica crudele del «ragionamento» l'uomo è un individuo di impaccio. Come «macchina» è senz'altro in perdita. Come entità umana è troppo problematica e alla fine è pur sempre proprietà di sé stesso.
A meno che non lo si modifichi in un certo modo; nel senso cioè della storia tracciata dal sistema in corso. Dunque avremo l'uomo storico, che al pari della macchina viene a meritarsi i cieli; e dall'altra parte l'uomo individuo, o «astorico», cui spetta la sferza degli inferni.
Mi è caro in tale contesto dare testimonianza a chi ne sia destinato. Quest'uomo degli inferni è disturbante proprio per quanto si renderà capace di non vivere di seconda mano. Vive della ;propria “coscienza”: e ciò è disturbante. Avrà regole proprie e di volta in volta dovrà risponderne a sé stesso. Il suo cammino sarà di rifiutare passo passo, e non senza fatica, per quel che comporterebbe di comodo la posizione di integrato, i connubi ambigui che gli verranno proposti. A questo punto il “sistema” lo terrà presente nelle carni più molli, nelle intimità più fragili: lì cercando di pungerlo e di rendergli ulcere croniche le ferite. Guai quando le ferite di quest'uomo martorizzato si asterranno dal sanguinare! L'individuo «degli inferni» va in crisi, si ritrova, si ribella. Verifica sé stesso e sé con l' “altro”. Gli sono propri smarrimenti, debolezze, ribellioni, denuncie; il suo faticato proponimento sarà di pervenire alla libertà. Perciò, di volta in volta, nei singoli accadimenti della propria operazione, testimonierà di una libertà: di quelle che rendono franabile il «paradiso storico».

      La trama iconografica di Achille Incerti è appunto una ricerca di libertà svolta attraverso contestazioni di giorno in giorno rinnovate nel loro centro prospettico. Mi rendo conto che la terminologia formale usata da Incerti può rendere perplessi, quando la si presenti di piatto in questa accezione. Cioè potrebbe essere delle più discusse o delle meno evidenti. Nell'opera di Achille trovano posto istanze visive di natura abbastanza determinata, che però ad una verifica del contesto non sono nessuna credibile del tutto. Bisognerà ritenerle come implicanti di una certa scelta, o semmai di una certa “coesistenza”. E l'operazione non è facile.
Non è facile in quanto i termini potrebbero essere scambiati. La presenza visiva che maggiormente può attrarre alla credibilità nell'opera di questo «strano e conturbante facitore di tele», come l’ha chiamato Franco Solmi, è evidentemente quella intessuta di materiale “naif””: cioè quella componente estetica di “emozionalità” evidenziata qua e là nella trama episodica dei suoi lavori.
Non vorrei trovarmi ad affrettare i tempi di revisione di questa particolare “primitività moderna”, ma mi accorgo che mi si pone necessario chiarire equivoci che sento pericolosi. Di doverli per lo meno chiarire per mio conto e in me. Ferma restando la possibilità di un abbaglio; o la possibilità di essermi ingannato nel leggere una situazione di equivoco.
Forse non è esagerato affermare che sorge ormai da tempo un problema di. definizione di quella particolare schiatta più o meno ascetica di pittori chiamata fino ad oggi, con varie oscillazioni, “primitivi”, o “naif”, o “della domenica”, per citare gli appellativi maggiormente in voga nell'uso, ma tutti ugualmente vaghi.
lo spazio figurale e culturale in cui si muove e pone le proprie tracce Achille Incerti offre occasione di un riesame. Per quel tanto almeno che può servire a localizzare il nostro artista in un campo quanto più possibile determinato di responsabilità. Affinché in altre parole non venga ad essere investito da altre, valide o no, responsabilità operative.
D'altronde sarà l'iconografia stessa di Achille a riproporre di volta in volta la discussione; e penso per via di negazioni. Negando, per capirci meglio, ciò che solo alla apparenza, o ad un linguaggio ormai stereotipato lungo una certa linea, potrebbe apparire credibile. Ancora una volta, a questo punto, scaturisce un riesame della “primitività" così come è stata concepita.

      “Il problema dell'arte dei cosiddetti primitivi è dei più discussi del nostro tempo” scrive Franco Salmi nel suo studio monografico (Tamari editori in Bologna) su Achille Incerti; e continua «non mi riferisco tanto a quel modo antistorico di concepire il "primitivo moderno" come integro e pri vilegiato portatore di esperienze autentiche, mentre 1'artista inviluppato nella cultura di oggi sarebbe irrimediabilmente scisso. Non è certo il momento di recuperare il mito del buon selvaggio... ».
In realtà l'affermazione delle «mani pure» e del «cuore candido», di cui Anatole Jakowsky è tra i più convinti portatori, sembra aver compiuto il suo cIclo di novità e il suo tempo di sorpresa. Cosa può apparire oggi se non una discriminazione riferibile solo ad una maggiore o minore istantaneità di lettura?
Seguendo questa strada le carte finirebbero con il lievitare in superfici più o meno prevedibili. Oppure si finirebbe con il dover dubitare di abitudine sulla verità pittorica di qualsiasi costruire per strutturazioni. Il che mi pare di un ingiustificato pessimismo nei riguardi dell'arte invece detta “colta”.
E' chiaro che questo è solo un fantasma di problema. Evidentemente resterà sempre impossibile disquisire in proposizioni realistiche sul candore, la purezza, o la malizia. Resta aperta la necessità più intima di qualificare in modo specifico il fatto. Non certo per una nostalgia dei “generi", ma per rendere evidente nelle sue matrici più concrete questo itinerario di espressione. Per cercare, insomma, di capirci meglio, e di riassumere ciò che mi appare un crogiolo di molte «fatiche» critiche.

      Si e ormai rivelato difficile, a cose viste e rivedute, sostenere l' «ingenuità» di Rousseau, come diverrà sempre più difficile sostenerla nel caso, per fare degli esempi, di un Sauter, Bombois, Peyronnet, Urteaga, George A Hayes, o, per restare nel presente, di un Incerti. Già da qualche tempo la critica si è trovata nella necessità di distinzioni «faticate», costrette di volta in volta a fare i conti con le più generiche interpretazioni "tradizionali”. Si è trovata sulle spalle un fardello tanto pesante che lo spazio di alleggerimento sarà per forza di cose lungo. Perciò entrare a parte di questa schiera di "faticatori” mi pare senza dubbio doveroso. Non si può non essere d'accordo con Riccardo Barletta quando in una recentissima pubblicazione pone in nota l'espressione “matura” dei bambini Roussoniani. L'analisi è acuta, come altre che, sullo stesso accordo, l' hanno preceduta, per ciò che oltretutto ha di implicante nello studio di Rousseau. Ma discorsi di tale genere devono per forza di cose concedere un po' troppo ad un'aria di giustificazione. Il prototipo è questo: Rousseau è un "naïf ", però... Quando allora è chiaro che certa terminologia si fa grande di ostacoli invece che di limpidezza.
Con tutto ciò non mi cresce certo l'illusione di soppiantare termini ormai «popolari», pur nella loro labilità, o forse in grazia di questa; ma non credo inutile la volontà di riuscire in qualche modo a precisare di quale concreta operazione artistica continuino, malgrado tutto, ad essere gli «stemmi». Fino a trapiantarli in una sede di un certo consapevole «rimando». E sarebbe già un risultato felicissimo, spero senza pecche di inadeguate presunzioni. Ma è chiaro che questi traguardi relativi si raggiungeranno solo attraverso proposizioni .in assoluto, per quel processo naturale di decantamento che l' «ufficialità» impone, fino al suo ultimo esaurirsi, al rinnovarsi delle proposte critiche.
A creare parecchia confusione sono non solo i significati sentimentali della terminologia tradizionale, ma la difficoltà anche di riassumere un materiale pittorico di continua e disparata produzione. Ci troviamo di fronte ad un fenomeno piuttosto vasto, difficilmente riducibile, che d'abitudine fino ad oggi ha consumato la propria presenza nella penombra. Ma se fino ad ora questi erano gli ostacoli che si interponevano tra la critica e l'elalborato «naïf», non c'è da prestare molta fiducia che le recentissime vaste esposizioni, come quella dì palazzo Durini a Milano e quella parigina dedicata agli americani, abbiano introdotto seri motivi di nuova chiarezza.
Si deve infatti denunciare una strana, ibrida presenza di intermezzo, cui la naïveté è costretta a soggiacere nell'attesa che quella particolare arte “colta” integrata che è la «pop» abbia terminato la propria obsolescenza e trovato un nuovo equivalente. Si ha insomma l'impressione di un passaggio di mano momentaneo, esente da gravosi fastidi; con un salto spregiudicato, nella sua «bonaria» vestizione, di quell'esprimersi per strutturazione dell'iconografia che si sia sentita in dovere di rifiutarsi a far propria l'interiorità mercificata del capitalismo.
Se la «pop» ha fatto suo il regno dell'«ordinario» accettandone l'aspetto impersonale della mercificazione, la « naïveté" si è appropriata di un orizzonte che per forza di cose appare sempre più «eccezionale». Ma proprio in ciò sta il gioco sottile. La pittura «naïf», come dice Franco Solmi «è un momento della storia presente e risponde ad esigenze estremamente attuali». Credo appunto che presentarla in parentesi, dislocata dalle sue istanze attuali, voglia dire porla ancora una volta in quella atmosfera di sogno che non porta né bene né male a nessuno. E tantomeno arreca danno alle estetiche capitaliste in via di rinnovamento.
La «primitività moderna» è un momento «statico» di contestazione da tenere di continuo in vista con il compresente momento «dinamico» (è chiaro che di questa staticità tengo partecipi artisti come Metelli, Moses, BIair, Fous, Vivin...).
Evidentemente non porre in rilievo tale parallelo significa svuotare di significati immediati tutta una qualità particolare di presenza. E mi rendo conto quanto sarebbe pericoloso, per chi abbia abbracciato nel «metodo creativo», la mercificazione del capitalismo, questa presenza di rimando a veder i Cremonini, i Boschi, i Matta, i Tornabuoni.
E ugualmente rischioso un «rimando» ad Incerti, nel quale il momento statico e quello dinamico agiscono in continui sottili richiami. Finché comunque certi termini non saranno del tutto rinnovati, operazioni ibride di questo tipo potranno di volta in volta essere condotte a termine, senza che la critica più impegnata nella realtà dei fatti riesca ad usufruire appieno dei propri sforzi coscienziosi.
Se un fatto è favorevole nello studio della naïveté questo è da ricercarsi nello scorcio storico ancora giovanissimo nel quale si contiene. La primitività come fenomeno compiutamente artistico nasce con l'industria occidentale, e l'industria occidentale è storia di oggi e appena di ieri, Il tipo di reazione davanti a questa nuova presenza, rigonfia di tristi sorprese e conseguenze, autoritaria e presuntuosa, localizza in diverse prospettive le istanze estetiche de! nostro tempo.
E' opportuno in simile contesto esaminare di quale processo psicologico, la schiatta dei “naïfs" sia a parte. E per forza di cose alla lettura dell'opera di Achille si finirà col non scoprirne l'uguale.
Proprio per definire meglio questa indagine su Incerti sarà necessario rivedere alcuni termini del nostro discorso.

      Anna Steward nel 1785 verseggiava così nel suo «Calebrook Dale»: «udiamo in accenti mischiati/ urlare la loro barca affollata, stridere le loro macchine pesanti/ attraverso le tue valli modeste; mentre rossi gli innumerevoli fuochi/ con fiamma ambrate sono schizzati sui tuoi colli,/ oscurando il sole estivo con colonne vaste/ di spesso e sulfureo fumo che si spargono come sudari/ sul manto silvestre delle tue rocce, avvelenando i tuoi venti/ macchiando le tue acque cristalline...»
Siamo esattamente su un piano di nostalgico rimpianto. Ma già tra il 1795 e il 1804 William Blake nel poema i «Quattro Zoas» se ne usciva con una denuncia più drammatica: «o ragno spargi la tua tela/ ingrossa le tue/ ossa e pieno di midollo sii esaltato! Abbi una tua voce!/ Chiama i tuoi ospiti tetri, perché i figli degli uomini si congregano/ a disfare le loro città. L'uomo non sarà più».
Questa di Blake è senza dubbio una delle più disperate previsioni che si potessero mettere sul capo.al nuovo secolo. Nello spazio frenetico, in cui ci si avvia a camminare, l'uomo, nei suoi termini originari, diventa una leggenda di sé stesso, Purtroppo è da segnalare nel nostro tempo anche l'abuso del termine «utopia» per sminuire la lezione di chiunque si provi a riportare l'individuo nella sua pienezza interiore. Va da sé che proprio in questa disputa l’ “utopia”, quasi per un gioco di ripicca e di rimando, assume un suo preciso vincolo nel reale. Il nuovo secolo, insomma, si inoltra in sabbie piuttosto mobili; l'artista ha da fare i conti con una organizzazione preparatissima ad ottundere; l'estetica subisce i più efferati ricatti, L'individuo ha poche scelte, e quelle poche possono essere preziose o pericolose. Rintracciare la storia dell'animo turbato della modernità attraverso le espressioni dell'arte è fare la storia dell'individuo dinanzi alla minaccia del non-individuo.
Oggi certe posizioni appaiono abbastanza definite. Lo scadimento di molte illusioni è cosa già da tempo avvenuta. Non permette dubbi o ripensamenti. Tanto più che il modo di decantamento è stato e continua ad essere tragico.
Da un altro Iato certe opposizioni hanno dovuto raddoppiare il passo, per mantenere viva una dialettica connaturata nel metodo stesso del loro operare, a seconda dell'evoluzione della macchina industriale così come è stata imposta. Certi momenti culturali invece appaiono senza necessità di ricominciare sempre da capo, di tenere sempre aggiornata una contabilità estenuante.
Insomma c'è anche un certo artista che ha bisticciato con l'oste e per il quale riesaminare la contabilità sera per sera è un fardello di responsabilità ritenuto superfluo. E non che questo artista non faccia cultura. Crea una cultura di un certo genere, la cui valida presenza non è confutabile.
Rifare la storia del pensiero artistico dopo il Seicento è accostarsi all'uomo dibattuto in sé stesso, in rapporto con l'altro come uno che abbia da tenere col passante anonimo una posizione di difesa e di ingiuria. Oppure che attenda il passante nel chiuso della propria casa, del proprio studio, a Iato del proprio tavolo creativo, dove, prima o poi, il viandante deve pur transitare.
E avremo i combattuti tra l' integrazione e l' ingiuria: e saranno, ad una rilettura consapevole della tristezza e della debolezza umana, personaggi ricchi di una loro follia, finiti a bruciarsi le ali nel momento in cui parevano assicurati in un definitivo accomodamento.
Anche il vizio è elevato a sistema. Siccome la «bellezza» regredisce dal suo regno, il vizio ritmico diventa bellezza. AI di fuori di ogni disquisire sul piano estetico il fatto ha in sé toni piuttosto dolorosi e demoralizzanti. L'inquadratura, da qualsiasi lato la si voglia desumere, rivela una fragilità isterica, o una innocenza calpestata, o una contestazione disperata, turgida, embrionale.
«Dalla strada dell'accettazione», per dirla con Elémire Zolla, basti questa invocazione di pietà, quale Apollinaire abbandona ad uno dei suoi ultimi fogli: «Noi che andiamo in cerca di avventure/ non siamo i vostri nemici,/ noi vi vogliamo dare domini vasti e strani./ ,Pietà per noi che combattiamo sempre alle frontiere/ dell'illimitato e dell'avvenire,/ pietà per i nostri peccati».
Di più. Sorgerà il tentativo di assumere al piedistallo dell'arte ciò che nella « macchina» moderna appare ostico. E' il limbo cui Baudelaire (per portare un esempio) che aveva urlato all'orrore per la pubblicità, i giornali, le forme comunque stereotipate, si illude di poter sollevare le regioni ostili del nuovo panorama. «Strappati alla banalità come droghe» scriverà «da piante velenose, gli elementi della città moderna diventano grazie alla trasfigurazione poetica rimedi contro il peso della banalità».
Poe crederà di aver risolto positivamente con la creazione del “romanzo giallo” la necessità di stimoli mitologici di cui l'uomo del secolo abbisognava. «Quanto sia precaria la risorsa di Poe e di Baudelaire» scrive a questo ,proposito Elémire Zolla «lo mostra il bisogno sempre affiorante dell'esotico come pimento tutt'affatto speciale, come nostalgia di una condizione primitiva, esente dal male che ha colpito l'Occidente».
In questo accenno Zolla tocca uno dei momenti che più interessano da vicino la nostra indagine. Naturalmente nel caso nostro specifico l'affermare una nostalgia non completa il discorso. L'esotico, sorto come nostalgico richiamo di un mondo anche psicologicamente oltre gli oceani, diviene un vero e proprio motivo di contestazione; la sua presenza è a parte della complessa catena di stimoli e di denuncie di una dialettica giunta ormai ai suoi episodi più drammatici. Poche pagine dell'arte sono drammatiche come certe tele di Rousseau, poche offrono un equivalente di profondo sgretolamento dei nuovi Dei. Altro che «naïveté». C'è in Rousseau una carica di animalità, qualcosa di profondamente animale nei volti, negli arti, fin nella natura esorbitante della fantasia, che pare !'urlo esacerbato della belva e del cuore offeso.
Da un'altra strada di contestazione nasce il ritorno al Medioevo. Ruskin, che dedica la sua opera al recupero dei «secoli bui» nei riguardi del Rinascimento italiano, è un poco l'immagine dell'uomo che vede svanire non solo un artigianato di lavoro infranto dall'industria, ma anche, su una linea parallela, l'«artigianato» dell'intelletto.
«L'idea fondamentale di Ruskin, che una società incapace di produrre bellezza è una società intimamente malata, che l'imbruttimento è sintomo di una malattia generale del corpo sociale» scrive Elémire Zolla «persuase il Morris e altri a dedicarsi recisamente alla terapia che proponeva il nascente movimento socialista».
Così invoca una delle «canzoni» del Morris: «per noi non ci sono condottieri, ma ingannati e ingannatori/ i grandi sono caduti, i saggi partiti.../ venite spalla a spalla prima che invecchi il mondo!».
E' chiaro, a questo punto, che era da usarsi molta precauzione nell'uso del termine «ingenuità». L'ingenuo non ha gioco, gli è privato il movimento. Ancora una volta l'ingenuità sarebbe preda troppo facile, quando volesse divenire il ponte su cui transitano i passi dell'arte.
«Spalla a spalla» abbisogna di sincerità, amore, ironia.

      Tutto nei secoli nuovissimi collabora ad applicare all'uomo i paraocchi. Così la scienza, che doveva sfilare la veste alla «dea misteriosa», per svelarne senza timore di rimanere incenerita le nudità intime, si riduce nei sottoprodotti delle tecniche. E le tecniche, adeguatamente manipolate, vengono a porre le bende all'occhio dell'uomo che non sia più che preparato e refrattario.
Kafka parla così del cinema: «si tratta di un giocattolo grandioso, ma io non lo tollero, forse perché sono troppo visivo. lo vivo con gli occhi e il cinematografo impedisce di guardare. Lo sguardo non si impadronisce delle immagini, ma queste si impadroniscono dello sguardo e allargano la coscienza. Il cinema mette l'uniforme all'occhio che finora era svestito». L'industria, nelle mani del «sistema» diviene una fabbrica grossolana di bende. I miti dell'uomo antico svaniscono; ne sorgono altri e sono miti per l'industria, generati daIl'industria, che come un grosso animale ha bisogno di potere.
Carlo Tullio-Altan scrive che «il mito è indiscutibilmente un modo di essere dell'uomo nel mondo, e non possiamo pensare di fare della concezione umana una critica presa di coscienza, trascurando questo Iato, o, peggio ancora, mutilandola volutamente di questa sua dimensione». Risulta per noi abbastanza chiaro, alla luce di questa consapevolezza, che il discorso industriale, condotto lungo una certa strada, trova sgombra la via dell'abbrutimento umano. Falsando di mitologia la sterilità degli ingegni, manipolando di volta in volta falsi altari cui l'uomo accorra a cibarsi, l'industria del «sistema» ha deliberato di tenere il concetto di mito in conto di prostituzione carnevalesca.
D'altronde, poiché l'individuo abbisogna di conquistare una libertà di coscienza, e dal momento che non esiste una società capitalista con cui la coscienza di sua natura si senta implicata, la possibilità di una mitologia in assoluto, che non si presenti come fattura di integrazione, si riduce allo zero.
Il pensiero indiano nella vicenda della Bhagavadgità è uno dei monumenti più importanti per l'esplicazione mitica.
La crisi psicologica che aggredisce Arjuna in armi sul cocchio, e la risoluzione della crisi stessa attraverso l'abbeveraggio nell’assoluto del mito, inducono a poter individuare in Arjuna l'uomo in diretto contatto con l' ”altro ".
In realtà il mito antico può essere raffigurato come il punto di incontro tra la coscienza civile, cui l'uomo partecipa di «prima mano» e la coscienza individuale. Nasceva come figlio legittimo, infine, di questo connubio.
L'individuo oggi è nella necessità di ritrovare quella «prima mano». Mi pare che, nel caso ne abbandonasse l'impresa, qualsiasi recupero nella storia, e alle spalle del presente, abbia tutta l'aria della restaurazione; con ciò che nella restaurazione è implicito.
Casomai il passato va tenuto presente; non serve recuperarlo. Nei secoli nuovissimi l'uomo è necessitato prima di ogni altra operazione a detergere il proprio "essere”. Dopo sarà tutto da vedere.
Oto Bialji-Merin scrive che «con Paul Gauguin ebbe inizio l'imbarco per le isole utopiche dell'ingenuità». Per contribuire in qualche modo al bellissimo saggio di Bialji-Merin (I Primitivi Contemporanei ed. Il Saggiatore. Milano, curata da Carlo Munari), mi sentirei di determinare per mio conto più specificatamente questo viaggio, qualificando le isole Gauguiniane come terra in cui l'occhio non abbia a soffrire vestizioni davanti al disordinato e misterioso atteggiarsi del reale.

      A questo punto è chiaro che, impossibilitati ormai a poter usare con buona dose di precisione la stanca terminologia in uso, non resta che rifarsi a qualificare questo tipo di contestazione, quale è la "naïveté ", specificando nei suoi termini pratici il meccanismo mentale attraverso cui viene attuandosi nella propria determinata cornice. Scaduta la possibilità che la pratica delle cose in atto permetta ad appellativi quali "ingenui" e consimili una spedita maneggevolezza, conviene, mi pare, ricondurre tutto al processo psichico attraverso cui si afferma questa ben precisa presenza.
D'altronde se considero lo stato di. confusione da cui mi ero trovato a dover uscire davanti al «caso» Incerti, mi consolo nella speranza di avere imboccato almeno una possibile strada giusta; di poter contribuire a quella focalizzazione di Achille nelle sue ben definite responsabilità, cosa che già Franco Solmi nel suo studio monografico ha tanto accuratamente portato avanti.

      Quando l'uomo poteva credere nell' «altro» senza farne le spese, o comunque gli era possibile la compresenza nel nucleo sociale senza svuotarsi di sé, evidentemente qualsiasi operazione artistica era di tipo "unimensionale". Per capirci meglio il segno stesso, nel suo ordine di invenzione estetica, non abbisognava di revisioni a posteriori, o di una fede di tipo particolare per divenire credibile nel panorama dei fatti umani. Mentre l'individuo artista credeva nel proprio lavoro tenendolo non in diverso conto di «realtà», contemporaneamente veniva a testimoniare delle realtà stesse già in atto. Era tale il connubio psicologico tra individuo, «realtà in atto» e «realtà prodotta» attraverso il lavoro manuale, che i termini giungevano a scambievoli dislocazioni attraverso una intatta armonia.
Non esisteva, in altre parole, una «estetica» con regole proprie che partecipasse a non del tutto equivalenti regole esterne. E' chiaro che quando si parla oggi di una «estetica», questa immediatamente si propone come elemento di revisione. Perduta l'unità tra individuo e «altro», le estetiche hanno un loro gioco con cui o «rivedono» il reale, o partecipano a una sua sovrastruttura. Ma in quest'ultimo caso, invece di riacquistare il connubio perduto, divengono il prodotto imbellettato di tali sovrastrutture. Fino ad esserne uno del tanti motivi di divulgazione.
Alla luce di queste considerazioni il processo «unimensionale» in sé stesso assume un definito colore contestativo. E' elemento critico, infatti, presentare come fatto compiuto nel campo vasto e particolare dell'arte una trama psichica che ritiene come esistente una condizione perduta. Meglio, ne considera possibile la sopravvivenza, o il reinserimento nel tessuto del reale.
Il concetto di utopia, nel quale potrebbe essere tenuta questa presenza nella propria immagine di opera, trova immediato ostacolo: in quanto ha una sua contemporanea presenza nel processo operativo e psicologico dell'individuo-artista che ne è alla base. In tale modo sarebbe necessario considerare utopistico questo determinato individuo; il che evidentemente non ha logica.
Resta il fatto che tale procedimento è talmente esterno alle regole del gioco moderno che la sua posizione abbisogna di essere inquadrata. L'artista «unimensionale» esige ormai da tempo un punto di attracco ben preciso nel panorama «figurale». Evidentemente la sua non è né una posizione privilegiata, né esente da possIbili errori. Da un punto di vista critico sarà di volta in volta passibile di lunghe fasi dubitative. Almeno per quel tanto che ogni singola testimonianza dovrà pagare per qualificarsi «verità». Né è credibile cheil processo «unimensionale» testimoni di un raggiunto livello di libertà; altrimenti significherebbe aver risolto, evadendo dal tempo, ogni problema. Al di là degli urti e delle costrizioni, che la società attuale impone, rimane dunque da considerare valido e, di caso in caso «vero», l'ancorarsi ad uno spazio dove un gioco di libertà sia «scontato». E ciò è di per sé stesso contestativo. E' chiaro che, mentre l'iconografia usa alla strutturazione ha il passo nella storia e agisce in attrito con essa, l'iconografia «unimensionale» è appunto di quell'individuo che i conti con l'oste, sera per sera, non ritiene più ordinari di una sua competenza. Mentre il primo avrà nella complessa messa a punto della propria «prospettiva», di continuo rinnovata, il motivo poetico di creazione e di opposizione, il secondo questo motivo tenderà a far suo nell'approfondimento intuitivo di un mondo statico. L'artista «unimensionale» nel momento in cui esterna la propria trama iconografica si è già posto in grado di poterIa ritenere «fatto reale». Se ciò può ritenersi valido per ogni esprimersi in arte, è però necessario porre alcune distinzioni alla base del fatto.
Ciò che differenzia l'operare «unimensionale» è il non credere "vera" la realtà «creata» per .la ragione di rileggerne il processo costruttivo divenuto materia; che è il filtro reale attraverso cui diviene l’ «irreale». Crede invece concreta, in tutti i suoi termini, la capacità di immaginazione trasferitasi senza «filtri» (o per lo meno senza strutture, che vadano oltre la pura esigenza del disporsi) nell'opera.
Naturalmente ciò che per il graffitore della caverna veniva configurandosi in vero e proprio connubio di «reali», per l'«unimensionale» di oggi sta a significare un «attestato» di quanto valga il riacquisto di quella «prima mano». Da tutto il discorso è chiaro che il termine «primitivi», usato per definire questa determinata «schiatta», è, tra quanti usati fino ad oggi, il più preciso. Ma credo, in questo caso, ci si debba guardare dalla inesatta traduzione che l'uso ha finito col darne.

      Franco Solmi scrive che «fuori da ogni discorso folcloristico, come da ogni interpretazione di mero sensibilismo, si può affermare che tipica dell'opera di Ligabue è la rigidezza del campo percettivo. Ciò configura un orizzonte espressivo necessitato totalmente, tanto che nei suoi dipinti i rapporti fra le cose, quel che diciamo le "linee di racconto" sembrano stabiliti una volta per tutte».
Questo passo, di validissimo aiuto nel focalizzare il fenomeno «unimensionale», mi trova perfettamente d'accordo. Solmi seguita affermando che «tali rapporti non mutano d'ordine, quasi che la folgorazione si sia pro. dotta una volta per sempre». Chiude poi questo stralcio del suo scritto scrivendo che, alla luce di queste ed altre considerazioni riportate, «se Ligabue era naïf, Incerti è l'opposto del pittore naïf ». Dove è evidente che la staticità dei rapporti nell'iconografia «unimensionale» deriva da una crisi avvenuta una volta per tutte. Di qui la rigidezza che scinde l'individuo da!l' episodicità dell'altro, e quindi anche dall'individuare in questa episodicità gli aspetti di volta in volta più negativi. Tale artista risulta poco graffiante alla lettura, che è poi ciò che resta di concreto nel prodotto dell'arte, senza volersi porre di continuo in rapporto con le intenzioni, entità non individuabili. Ma l'«unimensionale » ha fatto proprio un mondo di richiami. E infatti questa iconografia sembra fatta apposta a porci in nota le «bellezze» perdute o offese.

      Se intorno al personaggio Achille Incerti è stata possibile parecchia confusione, questo deriva, senz'altro, dall'organizzarsi attorno a Incerti di molti accadimenti che partecipano da una parte alla sua opera, dall'altra al suo essere persona. E' ormai chiaro che ciò che caratterizza il pittore che si serva di strutturazioni per porsi «individuo» dinanzi a una società preparata a vietarglielo è l'andare sempre in crisi; il riproporsi di continuo davanti a singoli, individuati episodi. Un gioco di ripulse sottili, o graffianti o disperate sta alla base di tale procedimento. Achille Incerti è a parte di questo tessuto figurale. Non solo, comunque, certi accadimenti interni alla visualità dell'opera potrebbero infastidire questa lettura, ma anche accadimenti esterni, e propri del personaggio.
Achille è, come non lo sono soltanto gli «emozionali», ma come lo sono loro specialmente, un isolato. Di più; Incerti è anche un artista che si è dato non proprio giovane al pennello; che, pur avendo una cultura, non proviene da un ambiente culturale ben definito. Se l'artista comunque non può che porsi al lavoro d'arte «per caso», Incerti però, come la maggior parte degli «unimensionale», si presta a fare di questo caso una concettualizzazione. Le stesse parole, i moduli stessI attraverso cui Incerti si pone al dialogo (anche quando questo sia per così dire di natura colta) servono ad inserire il «personaggio» in una atmosfera di ricco «folclore». Il che ancora può collaborare a confondere le idee.
«Ha un'ombra di pazzia come me, come Rovesti, come Ligabue, come la pianura» scrive Cesare Zavattini. E nel suo vivacissimo entusiasmo di affettuoso osservatore non poteva sfuggirgli di associare quell'«ombra » di pazzia ad una unilateralità di tradizione. In realtà nella nostra indagine interessa affermare che la «pazzia» di Incerti si traduce in forme opposte a quelle di un Ligabue e di un Rovesti.
Davanti alla «macchina industriale», quando la storia ne ha fatto una bestia ingorda e pretenziosa, se volessimo proseguire l'analisi di come l'individuo reagisca, Incerti avrebbe un suo spazio al di qua della«murata unimensionale».
Ma accade un altro fatto, che non sarebbe poi molto importante, quando anche la critica non avesse una sua storia. Quando cioè l'acquisizione attraverso la lettura iconografica non finisse con l'abituare, di volta In volta, a particolari procedimenti operativi. E' chiaro che di nuovo Incerti potrebbe rimanere un isolato a suo modo. Cioè, pur prendendo parte a quella che possiamo chiamare «iconografia per strutturazioni», offre una presenza che esce dai canoni da noi stessi creati per determinare una certa linea di presenza. Quei canoni di cui ci serviamo comunemente per comprendere nel tessuto generale «differenze» oltremodo naturali e obbligatorie, quando l'artista agisca in «affermazione» di individuo. Ma tutte comunque riducibili a un telaio su cui sia possibile approfondire un discorso unitario. La critica opera di necessità delle scelte; una volta attuata questa scelta, il resto è possibilità di ridurre entro di essa il vario atteggiarsi delle fraseologie. E non potrebbe essere in diverso modo quando si voglia alimentare una istanza di cultura. Tutto ciò senza voler strumentalizzare i fatti. Sarà sempre l'artista l'«attore unico» che si propone ad un accostamento o inserimento.
Ora Incerti è «facitore di tele» tanto insolito che, in una assemblea dove ognuno debba tenere il proprio posto, potrebbe generare a prima vista sorpresa, tra i banchi degli strutturatori. Ancora una volta l'operare di Achille può rimanere poco comprensibile; possiede insomma una carica di sorpresa dovuta ad una provenienza di acquisizioni in uso finora fra tutt'altri banchi.
Se la sua terminologia è un «caso» sta a noi, comunque, non lasciarla pencolare troppo a lungo.

      Se volessimo dare un termine discorsivo all'agire per strutturazione potremmo dire che quel che pare desunto e organizzato in un certo modo nell'oggetto-opera è un qualcosa riferibile per paragone di intesa ad una impronta psichica che si sia organizzata consapevole di dover riferire di sé stessa. E che nella consapevolezza abbia discusso in sé di volta in volta il vario estrinsecarsi della propria sostanza: un organizzarsi, insomma, attraverso cui avviene la resa alla materia. Per rimanere nel paragone potremmo parlare di una impronta digitale esplicativa della posizione assunta nel contesto della realtà dal soggetto- artista.
Ora i moduli organizzativi di cui Incerti si serve sono di natura particolare nel panorama presente. In un certo senso sono moduli straordinari in cui i personaggi che appaiono qua e là a gruppi folti o a coppie o solitari rimandano ad una necessità di intelaiatura e viceversa. In poche composizioni rimangono al di fuori, ma quasi sempre sono all'interno di quella che nell'opera di Achille appare spesso una «carcerazione».
L'autobiografia stessa dell'itinerario iconografico di Incerti aiuta questo continuo rimando al di là del telaio, specchio di una prigione che il «male», elemento limitatamente fisico, universalmente psichico, porta con sé.
Già Franco Solmi nel suo studio monografico aveva iniziato il discorso sulle «strutture» di Incerti. Discorso facilmente desumibile quando perviene alla lettura delle singole opere. Da questi precedenti diviene più facile il tentativo di portare avanti l'indagine ripercorrendo Incerti nello svolgersi del suo itinerario, dove questo si presenta più significativo. Nell'opera «Mattino in pineta» che data al 1953 Incerti è ancora al di fuori di una certa consapevolezza. L'opera possiede l'assunto di un determinato naturalismo lombardo. Gli alberi incominciano a muoversi in una qualche maniera di appena accennate volute, ma non sono «inventati» nella loro esistenza iconica. Ma ancora nel '53, nell'opera «Il funerale», l'acquisto di uno sforzo inventivo capace di trasferire in materia la necessità di uno stato d'essere appare se non compiuto, certamente in via di affermarsi. Da questo momento in poi, anche quando, come in «La spia» del '54 ritornerà il soffio naturalista, Incerti sarà pervenuto ad una scelta operativa ormai definita. In «Delirio», ancora del '53, Achille è ormai tanto consapevole della necessità intima della propria operazione che «Parlatorio maschile» del '55, una delle opere più altamente significanti del nostro pittore, ne è un traguardo implicito.
Più Incerti si inoltra di ricordo in esperienza nella sua storia di individuo, e più afferma la propria presenza, maggiore ne deriva la determinazione dell'elemento naturalistico in necessità di elemento strutturale. Con quel tanto di metafisico che acquistano i tronchi degli alberi e di surreale che acquista il colore. Questo intreccio di tronchi che vengono a sostegno iconico e ad impronta costruttiva, oltre che a esplicazione psichica delI'avvenimento imposto, tornerà di volta in volta in «Mondo nostro», «Parlatorio maschile», «I tre mondi», «Le suore», «Parco bambini», «Oblio». E leggendoli per simboli saranno una trama crudelmente tessuta di sbarre, di barriere, di limiti; in modo che ogni gruppo di figure ne è oppresso; ognuno circoscritto nella propria prigione; e tutti insieme quegli uomini che vi si muovono dentro sono degli oppressi, di cui qualcuno di tanto in tanto indica con una mano, o con uno sguardo, uno spigolo di liberazione.
Quegli stessi alberi si pongono «diversi» in opere come «Luna Park», «Euforia », «Il coro», «Fuochi artificiali», «I nudisti», «Ieri, oggi, domani», «Siesta in campagna»... liberandosi di un ordito che diviene di volta in volta meno schiacciante, in un intreccio che ondeggia tra l'illusione, la speranza, una quasi raggiunta libertà; fino alle ultimissime opere, in cui nel fiorire delle fronde fiorisce la gioia di chi abbia compiuto il cammino del proprio recupero alla vita. La struttura riesce meno soffocante, più mossa; se c'è una barriera, è una barricata in cui si insinua una possjbile fuga.

      La struttura frenetica, scandita, nervosa di «Parlatorio maschile», quella allucinata di «Tre mondi» diviene in «Ieri, oggi, domani» l'aprirsi di un sipario fiorito a una danza che si svolge dal centro alle estremità. Basterebbe questo per vedere come Incerti si riproponga di Continuo, si ridiscuta di volta in volta partecipando ai fatti del reale.
Ma i motivi strutturali di Achille non si estinguono qui.
E il segno che Incerti non si serve di un modulo, sia pure già tanto in movimento e in evoluzione da escludersi nel suo significato, ma si ripropone in prospettive diverse davanti agli accadimenti in cui si trova implicato, si rende di una evidenza indiscutibile fin dal 1954 con l'opera «Il circo». Qui, abbandonata la «prigione vegetale», che chiudeva l'immagine dalla terra al cielo, si presenta per la prima volta in Achille il cerchio come moto concentrico, passibile di divenire più avanti epicentrico. Nello stesso momento in cui si squarcerà la fitta rete degli alberi, il vortice del cerchio potrà essere percorso dal centro ai margini fino all'esplodere all'esterno; come nelle ultimissime opere, per la prima volta in pubblico nella recente antologica.
Ne «Il circo» le stesse lampade e le corde (a sostegno di una cupola tanto alta da contenere molto più che non il semplice episodio delle ginnaste) sono guardiani di un esplodere più isterico che naturale; nata quasi per una compensazione in cui il pubblico stesso degli scranni non crede del tutto. Sono urla e sorrisi che non hanno voce nemmeno nel gesto.
Incerti si serve di una prospettiva forzata che contrae il fatto al di là del semplice avvenimento. Così la superficie sferica della pista sembra ruotare su un perno trasversale, capace di trasformare di volta in volta gli scampoli più o meno usuali del nostro panorama; fino ad una possibile sorpresa, che comunque ancora non appare prossima.
Anche in «Maternità» e nella «Chiromante», opere entrambe del '55, la presa è dall'alto. E se nella prima il felino ci rivolge uno sguardo allucinato, oppresso nel cerchio meccanico di una tinozza che si solidifica nel surreale, nella seconda il tavolo e la lampada di una rotondità ossessiva, intorno a cui i due personaggi sembrano ruotare in possibilità estremamente incantate ed equidistanti senza trovare uno squarcio di sfogo, sono un poco il timbro dell'animo umano costretto a rigirarsi su sé stesso lungo occasioni di volta in volta già consumate: alla ricerca di qualche punto fermo.
Nel «Serraglio» del '63 è la giostra delle umane debolezze in stato di eccitazione. Una carica di umanità succosa e disperata che non lascia spazio se non allo sghignazzare e all'urlo arrochito. Ancora una volta Incerti inventa una struttura concentrica, dove il pubblico viene attratto in un cerchio inesorabile, utile alla "macchina" di cui deve subire lo strapotere. Per non ,dire dell'«Eclisse», in cui una folla disperata è nel dramma di chi si accorge del subdolo gioco in cui è stata inserita.
Nei «Nudisti» del '65 questa rotondità è accennata solo per un drappo, attraverso i due panneggi, carichi di colore, del mare e degli alberi. Achille inventa qui quasi uno svuotamento del cerchio in uno stralcio frenetico: dove l'uomo stia rimettendo tutto in discussione per tentare una definitiva sortita da quella barriera di alberi che già, comunque, hanno rimesso una chioma.
La struttura pende tutta verso il basso; alla ricerca di un punto centrale di possibile uscita. Quell'uscire all'aria e ai fiori che nella recentissima opera di questi giorni «il vortice della speranza», è cosa compiuta.

      Non è possibile obbligare Incerti in queste due linee semantiche di strutturazione. In realtà ogni volta che Achille si pone davanti agli accadimenti singoli della propria esperienza ne ritorna con una lettura consapevole; reinventando quel tanto che stia a significare la propria esistenza di individuo in relazione-discussione con l'«altro»: come in «Sinfonia in palcoscenico», «Il mio processo», «Casamento», «La giocata», «La partita di biliardo», «Omaggio a Forlanini», «Il teatrino del sanatorio», «Galleria Gianferrari», «La corsia», «Refettorio», «I naufraghi», «Piazza S. Carlo», fino a «Genesi», «Nudo» del 60, «Studio» ancora del '60, «Il Concilio» e «Il 7 luglio a Reggio».
In «Refettorio» il gesto quotidiano del pranzo diviene drammatico gesto di sopravvivenza; angoloso, vorace, di animale in gabbia, che pure vuole resistere almeno per la speranza. L'ordine della lunga teoria dei tavoli e degli alberi, che oltre le due balconate stanno ancora una volta a prigione, e il disordine «psichico» degli uomini seduti, non sono diversamente drammatici.
In «La corsia» c'è almeno il segno della dolcezza, nella speranza che viene meno stingendosi nei lilla, nei bianchi, negli azzurri. Achille si pone anche qui a riportare dall'alto in basso; ma imprime nella forma angolosa dei quadrati e dei rettangoli le circoscritte possibilità di uno sforzo di liberazione, che rinnovati tentativi vanno d'altronde rendendo più lucido.
In «Galleria Gianferrari» è l'uomo solo con la quadratura della propria solitudine, delle proprie possibilità, della propria consapevolezza che si richiude a sostegno di sé stessa. Nello stesso tempo è l'individuo attorno al quale la «carcerazione», si è erta a «quadrato»: più fredda, più spigolosa, più compiutamente implacabile.
In « Casamento» Incerti inventa uno spazio ben delimitato, in cui la casa popolare ci lascia presumere di venire calati nel mezzo di un cortile interno che si rinchiuda alle nostre spalle. Una fila implacabile di porte in ordine lungo le quattro terrazze, alcune crocefisse dalla trama di sostegno dei vetri, si aprono come altrettante celle. Il quadro si Interrompe nella cornice del tetto, lasciando solo sperare un possibile sbocco al cielo.
In «Sinfonia in palcoscenico» il carcere diventa un proscenio in cui l'uomo si riprova con sudore a suonare le note della propria individualità.
«7 luglio a Reggio», infine, è di nuovo il segno di quanto Incerti si sia di continuo ridiscusso abbia ricominciato daccapo il proprio discorso con la realtà.
«7 luglio a Reggio» è una delle sintesi più agghiaccianti della pittura italiana degli ultimi vent'anni.

      Non è inutile, al di là delle strutturazioni, rintracciare in tale contesto le matrici ,culturali di Incerti. Cercate di farcene ragione; ,i vedere in che modo le riacquisti ai propri intendimenti.
Questo uso di determinate culture, questo rinnovarsi della scelta attraverso le linee di un discorso, sono ancora una volta la testimonianza che l'opera di Achille esiste al di fuori della fissità «unimensionale».
Incerti è presente nel panorama della seconda metà del secolo attraverso un gioco di tentativi, di acquisizioni, di ripulse. Per questo fa schiera con quei camminatori nella cultura che il tempo finisce con lo stabilizzare in una loro sicurezza di viandanti.
La cultura di Incerti, oltretutto, scorre verso regioni lontane nel tempo, filtrate in quelle più prossime con un equilibrio di assimilatore smaliziato. Se abbisognava ancora qualcosa per stabilire una locazione al nostro «facitore di tele», questa sottile sapienza di filtrare nelle presenti le istanze allontanate dal tempo potrebbe essere sufficiente di per sé stessa a fugare ogni dubbio. Così, lungo tutto l'arco della sua operazione, Incerti compie i propri passi con avveduta tempestività: e gli risultano tutti passi preziosi.
La presente antologica si presta opportuna ad una analisi delle culture pittoriche di cui Incerti partecipa. A noi interessa qui non tanto indagare nei particolari suoi movimenti, ma piuttosto rintracciarne i più bruschi; quelli che dovranno rivelarsi i più importanti per continuità, o per tempi di presenza.
Incerti incomincia pittore naturalista. Solmi dice giustamente che «la parola va intesa in senso lato». Ma comunque c'è nei paesaggi di Garbagnate l'estenuato adagiarsi nei rivoli umidi di questa esperienza. Continua neorealista della «Bottega dell'imbianchino»; riunisce i due termini in «Sanatorio del '52».
Ma ciò che ci importa è lo stacco che Incerti compie attraverso alcune opere come «Funerale», «Solitudine», «Processione», «La spia»; per giungere al punto di compimento in «Delirio» del '54.
A questo punto Incerti, introdottosi alla pittura con movenze naturaliste e neorealiste, approda per la prima volta in modo consapevole nell’allucinata visione che lo accompagnerà, di volta in volta, nel corso del suo itinerario.
«Delirio» è fondamentale alla lettura di Incerti. Qui l'istanza neorealista si è trasferita sui passi di Brueghel; il naturalismo ha dato spazio a stesure livide, su cui assume peso rilevante una sorta di magico simbolismo. E' come se dall'osservazione affettuosa, comprensiva, esternamente intatta del «reale», Incerti approdasse all'interno di una esasperata ironia; di una nevrosi resa isterica dalla schiacciante trama degli alberi. Si sente la fatica di andare a compimento senza concessioni. E' come se una leggenda popolare fosse passata attraverso la consapevolezza dell'uomo che si è sperimentato. La componente bruegheliana, già a fuoco nella «Fuga» sempre del '54, si filtra nella necessità di un magico simbolismo.
Come se le favole infantili, il mondo a mezzo tra l'orrido e il sorriso incredulo, prendesse forma di tensione drammatica nel riproporsi alla fantasia dell'uomo che, questa volta, ha vissuto. Un po’ come quei canti a mezza bocca, privi di radici e sfrontati a un tempo, che riprendono nota in un gorgoglio allucinato di tensione e consapevolezza drammatica nell'età matura. D'ora in poi la cosa si ripeterà per parecchie opere, in diverse dimensioni di compimento e di prospettive; ma sempre lungo il medesimo "avvicinamento" del fatto umano. Così «Parlatorio maschile», così «Mondo nostro», «Parlatorio femminile», «I tre mondi», «Il ricovero», «Il serraglio», «La partita di biliardo» tracciano uno degli itinerari più tesi nel cammino di Incerti.
Ma già nella «Partita di biliardo» accanto, chiamiamolo così, al recupero di Brueghel, appare abbastanza compiuta una istintiva adesione all'espressionismo. E lungo la linea bruegheliana al nostro pittore che cammina ben desto al presente, non poteva, pensandoci bene, accadere diversamente.
Un altro discorso si presenta necessario per «I naufraghi» e «Piazza S. Carlo»: dove la violenza espressionista delle pennellate filiformi trapassa da un marasma affogante di materia, nel primo, a un nervoso tessuto, di cui si è perduto il «capo», nel secondo. E se nel primo è l'onda turgida del mare ad affogare la disperazione e la protesta alla vita, quasi fosse venuta a trappola e collaboratrice dei «persuasori per il nulla» assoluto dell'individuo, nel secondo sono i «cavalieri del manganello» i bracci oppressori della protesta. Una interna vena espressionista è presente comunque con continuità in buona parte del cammino di Incerti.
Procedendo nella resa che Achille offre delle proprie acquisizioni, è doveroso non tralasciare «Nudo» e «Studio», entrambi del '60. Questi due dipinti sono signifcativi del «movimento» continuo di Incerti. Quell'interiorità scavate nei volti dei suoi tanti personaggi, quell'inconscio che si fa di volta in volta tormentato esecutore di un tentativo di liberazione, è colto in tutto il suo dramma in due rese di primo piano, mantenute in una consistenza cromatica di esatto dosaggio. Il fatto, come ha notato Franco Solmi, che le due esperienze siano in anticipo sulle molte consimili che il panorama della più recente iconografia ci presenta, è oltremodo valido sostegno delle nostre precedenti affermazioni.

      Al di là di quanto abbiamo considerato fino ad ora, al di là di quelli che sono stati i riquadri in cui ha preso spazio la nostra indagine, non mi sento di tralasciare fra le righe quel tanto di piccoli episodi, di intensi atteggiamenti, che prendono parte al mondo umano di Incerti. Evidentemente saranno atteggiamenti, dispute, positure, atte a chi voglia pervenire ad una «narrazione»; ma finiscono alla fine con il formare un mondo tanto vasto e intenso di casi umani, di gesti significanti, che trascurandoli mi sembrerebbe di non rispondere ad una richiesta di dialogo, di domande infine, e di richiami. Per quanto la strutturazione degli alberi, il disporsi a vortice e a superfici squadrate ed implacabili, opprima e riduca nelle dimensioni fisiche i molti personaggi delle vicende di Achille, ebbene essi resistono egualmente nei loro singoli gesti colti di sorpresa. Se ne rintraccia una storia. In realtà il gruppo sussiste senza la perdita iconica delle singole personalità; e questo in quasi tutto il ciclo delle opere.
Solo andranno colte di sorpresa: come si deve appunto cogliere l'uomo quando lo si trovi inserito nella folla.
Se i gruppi rimangono schiacciati dalle sbarre dei tronchi fattisi quasi marmorei, l'unico fatto che trapassi la «prigione» è un singolo gesto. un singolo accenno che si proietta in qualche modo al di là: quasi a volerti spiegare il caso di tutti, a volerti trarre in attenzione. Come a significarti la misura di quelle costrizioni: questo per quanto riguarda la mia esperienza di lettura.
Ne «La spia» vi sono tre coppie che si abbracciano: due si appoggiano ad un tronco in un tradizionale atteggiamento di amore; la terza è ferma in mezzo al viottolo nell'affidamento di qualche confidenza. Sulla destra la spia in forma di donna, o meglio di «strega», punzecchia con il suo sguardo la scena attraverso gli alberi. Potrebbe essere il guardiano o il carceriere. Oppure che sia uno dei tanti «persuasori»? per crearne una lettura più vasta, se volete più ardita di simboli: giunta a carpire ulteriori intimità o segreti? E nella «fuga», dato che il personaggio è sempre lo stesso, che cosa urla con il braccio proteso? In «Delirio» un uomo in piedi dirige una orchestra di scatenate fantasie; sta per ubriacarsi in una danza; l'altro anche sta ubriacandosi: in una lugubre risata di isterismo.
Guardate «Parlatorio maschile»: c'è un degente seduto alla base di un albero, o di una sbarra, se volete; due donne dall'aspetto evidentemente umile lo rincuorano come possono: stringendogli le braccia, una mano, una spalla.
A quei tempi il sanatorio, se ti offriva la vita oggi, te ne da'l/a una ,pro babilità su cento domani.
Li vicino un degente prende sotto braccio la propria moglie, o la propria ragazza, venuta a portare una nota di allegria: così leggermente vestita di giallo. Più indietro un uomo è inginocchiato; forse ha una crisi del «male»; forse piange, o prega chissà quale perdono dove non può essere credibile il peccato.
Ancora lì vicino, seduto in una seggiola munita di ruote, un degente indica all'infermiera qualche cosa in mezzo alle feritoie di quella foresta carceraria: certamente qualcosa che l' ha colpito nella speranza. Raccoglie lo stesso gesto una suora in primo piano, che evidentemente cerca ancora di costruire speranze ad uno che si appresta a stordirsi nel bicchiere. O lo vuole trattenere con rituali minacce
Ne «La giocata» c'è chi in fondo alla piccola sala del biliardo cede in entusiasmi e moine quasi infantili: è sempre puntellato così lo scatto di un dramma. Pare quasi un gioco «a chi tocca», dove calano sul tappeto del biliardo crudeli attimi di suspense. L'infermiere all'altro lato del biliardo è disumanizzato in una chiusa fissità. Attorno a lui i degenti sembrano volerne strappare uno sguardo di simpatia o di intesa. Ognuno per sé stesso, nella ragnatela di un umano, crudele istinto di conservazione. Man mano che ruotano verso il primo piano per la prossima “giocata" l'atteggiamento si fa terrificante, prostrato.
C'è qui una nuovissima versione della partita a scacchi con la morte. Al di fuori, irretita dalla parvenza di gioco, una folla di degenti si accalca dietro i vetri della finestra.

      C'è una figura, in fondo, in angolo: è completamente sola, completamente isolata, ed è con lei la possibilità ultima di un dialogo: per chi tenti ancora di proporsi un significato. Pure esausto, pure nella solitudine di chi voglia quasi autopunirsi
Di questi personaggi solitari che non entrano nei vortici dei gruppi, che non posseggono una donna con cui far coppia nelle giornate di visita, ce n'è sempre qualcuno riverso in un prato, isolato in una angolazione. Li troverete in «Parlatorio maschile», in «Parlatorio femminile», appunto nella «Giocata» in «Mondo nostro», in «Tre mondi»; dove meno li si potrebbe immaginare passibili di sussistenza. Ma proprio quando il gruppo sembra farsi più folto, costringendo le presenze ad un umano tentativo di dimenticarsi in sé stesse attraverso esteriorità banali di lazzi, o atteggiamenti angolosamente pervertiti in un'onda succulenta di ambigui desideri, allora qualcuno rimarrà solo; come colui cui non è possibile l'evasione, né alcun tentativo di dimenticarsi.
Solo i bambini, nessuno dei bambini rimane isolato. Sono tutti ancora nei giochi intorno a schiumose fontane, o in qualche giardino intorno a cui le strutture delle case cominciano a farsi ossessive; ma sono ancora tutti insieme nella loro "schiatta" di innocenti, e mantengono pur sempre una dolcezza di sorriso, anche se pallido. Si apprestano a difendere in sé stessi l'«individuo»; soli nella fatica, nell'abbandono, nella rivolta.

      Proprio in questi giorni Achille Incerti sta raggiungendo un'altra delle sue tante maturità. Di ora in ora esce alla primavera e a una forza plastica che ancora non avevamo conosciuta.
Quello che ne risulta è una più piena sintesi di strutturazione, una ancora maggiore capacità di piegare la materia alla propria impronta. Parlo di «Vortice della speranza», «Il prodigio della primavera», «La macchina della automazione», «Corrida di sangue», «Solo i morti parlano».
Consideriamo un attimo quest’ultima opera: Achille vi agisce con una tale forza plastica che il vortice su cui ruotano le bocche dei cannoni assume una forza ostile e ingorda da parere pronta all'offesa grossolana. Quelle che erano le strutture concentriche de «Il circo» e «La chiromante» si ripropongono qui in una presenza più necessitata, nell'ordito trasportato in un primo piano quasi «oggettualistico», di più rigonfia presenza. E' una ulteriore dimostrazione della costanza di Achille nell'impossessarsi di una propria posizione. Per chi ancora crede in un Incerti «unimensionale» queste opere saranno una imbarazzante sorpresa; per chi l'abbia seguito in una lettura, cui non sia sfuggita la sottile operazione della sua trama iconografica, risulteranno naturale evolversi dell'artista nel suo ostinato riproporsi alla «sferza» degli inferni.


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