torna all' indice

Centro Scaligero di Studi Danteschi e della Cultura Internazionale
Corso di filologia Dantesca
Martedì 20 febbraio 2001, ore 15.30
Verona, Biblioteca capitolare, Piazza Duomo 13

Donne in Paradiso

      Sono doppiamente grato al Comitato organizzatore del Centro Scaligero che mi ha fatto l'onore di invitarmi a parlare di Dante in questa suggestiva e stimolante cornice della Capitolare; doppiamente grato perché anzitutto questo invito mi gratifica largamente nella mia veste di appassionato lettore del poeta (e vorrei sottolineare il sostantivo, lettore, che credo definisca, meglio d'ogni altro possibile, il tipo di approccio che tutti noi - studiosi e no - dovremmo instaurare con la Commedia); ma poi perché una lectura Dantis scandita per temi e non per canti è un mio antico proposito di lavoro, balenato e via via maturato nel corso della mia entusiasmante, lontana ma indimenticata esperienza vissuta per alcuni anni nel team redazionale dell'Enciclopedia Dantesca, la meritoria summa del pensiero, della lingua, dell'opera di Dante, ideata, voluta e diretta da Umberto Bosco e Giorgio Petrocchi. Per una serie di ragioni che è poco utile rievocare qui, il progetto non si è attuato, ma dentro di me la sua sinopia è stata ed è ancora oggi un pungolo che mi sollecita ogni volta che mi accade di affrontare la Commedia; e che anche mi ferisce, perché mi convinco sempre più della piena legittimità ed efficacia di questo tipo di lettura, e mi rimprovero ogni volta per aver ceduto a difficoltà e resistenze probabilmente meno inattaccabili di quanto apparissero, e comunque di aver lasciato trascorrere il momento magico dell'entusiasmo e della felice arroganza giovanile per imbarcarmi in un compito che oggi la più pacata ma anche più pavida riflessività della stagione matura mi fa giudicare eccessivamente impervio. Inutile dire perciò che la proposta venutami da Verona, e la rilettura del Paradiso nell'ottica specifica di un tema, hanno riacceso e confermato in me la convinzione che la scelta di un percorso tematico costituisce una delle (o fors'anche la) migliore prospettiva per evidenziare strutture che nella parcellizzazione per singoli canti possono fatalmente sfuggire.
      Se è vero che da tempo una certa critica più sensibile alla fenomenologia stilistica e strutturale del poema dantesco ha evidenziato, spesso in modo folgorante, i ritmi narrativi e figurali che formano trama e ordito dei singoli canti; è anche accertato che raramente essa ha poi spinto lo sguardo oltre il segmento di un singolo canto, a cogliere echi, rispondenze, richiami più o meno espliciti, comunque afferibili, però, a quella che va sempre più chiaramente delineandosi come una tessitura ordinatissima di forme e concetti sapientemente preordinata dall'autore.
      Ed è singolare che anche in tempi di fiorente strutturalismo un'opera che si presta a livello ottimale a un'indagine improntata a questa metodologia sia stata solo episodicamente sondata. Come nessun altro capolavoro letterario, la Commedia offre un impianto graniticamente unitario e composito allo stesso tempo; ogni parte del poema - storie di singoli personaggi, segmenti narrativi, simmetrie, simbologie numerali, immagini replicate, episodi calcolatamente speculari, specifici richiami lessicali o figurali - ogni singolo segmento del poema insomma riconduce sempre al tutto, all'architettura globale della costruzione, proponendosi come precisi richiami che l'autore ha predisposto per il lettore che intenda penetrare più intimamente e intensamente la struttura stratificata del poema. Ogni segmento trova dunque la sua ragione come tessera programmata a formare l'intero mosaico. Proprio questa struttura complessa e unitaria insieme, proprio la fondamentale necessità che cementa un segmento all'altro fa sì che scegliendo e percorrendo un qualsiasi itinerario non si perda mai di vista il tutto, anzi non si possa prescindere ogni volta dal rapportarsi all'intero poema, conquistando spesso un punto d'osservazione inedito o quantomeno approfondito su architetture, singole problematiche, temi, pregnanze lessicali o figurali.
      Non intendo con questo, è bene chiarirlo, negare validità prioritaria alla suddivisione in canti, non foss'altro perché essa è scaturita dall'invenzione dell'autore: il quale l'ha felicemente asservita, fra l'altro, a un'intenzione numerico-simbologica altamente funzionale e suggestiva; e tantomeno intendo negare validità alla prassi ormai canonizzata, anche se un po' invecchiata, di "leggere" la Commedia un canto alla volta, affidando per di più la lettura di ciascun canto a studiosi diversi per formazione e metodologia. Quanto mi preme evidenziare è l'inevitabile riduzione che il poema subisce in una scansione di lettura rigidamente asservita a una struttura formale, certamente necessaria, è indubbio, ma non dogmaticamente vincolante, e sicuramente eccepibile almeno laddove l'episodio, il personaggio, il racconto travalichino lo steccato di un singolo canto: circostanza che è assai meno rara di quanto non appaia: e basterà credo citare i segmenti narrativi dedicati a Sordello, a Stazio, a Cacciaguida; o le digressioni dottrinali che sorreggono la struttura intima del poema e che spesso s'inarcano su due canti contigui. Un rigido chiudersi nel segmento comporta automaticamente la rinuncia a una lettura più articolata, diffusa, totalizzata, e perciò stesso più suggestiva, impedendo dunque un più incisivo scavo del testo.
      Elemento strutturale di convenzione squisitamente retorico, la suddivisione in canti è sublimata nella Commedia in struttura poetica e in efficace cadenza di ritmo narrativo. Ma parallelamente a questa corre un'altra cadenza, altrettanto funzionale, assai meno meccanica, certamente legittima e, credo, altrettanto se non più funzionale, che va a inscriversi disinvoltamente nella prima, senza per questo lasciarsene condizionare o almeno prevaricare: intendo la cadenza narrativa che configura il racconto del viaggio oltremondano in una serie di episodi o in una teoria di tematiche. Ed è proprio questa cadenza che intendevo porre come schema ordinatore di quella mia progettata lectura Dantis; e, manco a dirlo, sarà questa cadenza che privilegerò qui oggi, felice che altri abbia programmato e promosso un benemerito rinnovamento degli schemi e mi abbia chiamato a parteciparvi, senza certamente immaginare di gratificarmi in modo così completo.
      Il titolo di questa mia conversazione di oggi, Donne in Paradiso, ritaglia un segmento specifico di lettura che sembrerebbe, e in parte è, ovvio, anche perché questo mio intervento si pone come terzo elemento della trilogia di letture che ha inteso registrare la presenza femminile nelle tre cantiche. Diversamente dai colleghi e amici che mi hanno preceduto, però, posso godere di un privilegio: quello di poter eliminare dal titolo gli articoli determinativi; intendendo in questo modo marcare una prospettiva aperta a corrispondenze e suggestioni più dilatate che, coinvolgendo altre opere di Dante, offrono la possibilità di affrontare tematiche che, come quella della donna, in qualche modo ineriscono all'intera cultura del suo tempo.
      La razo del mio titolo ha una duplice valenza. La prima è quella più evidentemente nomenclatoria, e allude alla rassegna delle figure femminili che popolano il terzo regno dell'invenzione dantesca: dunque Le donne del "Paradiso". La seconda valenza, quella cui allude il titolo senza determinativi, Donne di Paradiso, amplifica invece il riferimento alla profonda rivoluzione promossa dallo Stilnuovo nella concezione della donna e del suo ruolo etico e sociale, e intende sottolinearne la radicale trasfigurazione in "domina" spirituale, in "donna de la salute" (Vn 3.4), "distruggitrice di tutti li vizi e regina de le virtudi" (10.2), come la definisce l'autore nella Vita nuova; dunque in donna-angelo: in "donna di paradiso", appunto.
      Tramite della promozione ontologica dell'uomo, che attraverso l'amore vien fatto partecipe delle verità supreme, Beatrice accompagna e sostiene il pellegrino d'amore lungo tutto il difficile tragitto dalle soglie del paradiso terrestre fino all'Empireo, e ancora fino alla "mirabile visione [...] di Colui a cui tutte le cose vivono" e "qui est per omnia secula benedictus" (Vn 43).
      E che la nuova concezione della donna costituisse una rivoluzione lo dimostrano le accese polemiche poetiche e gli interventi esplicitamente parodistici con cui gli stessi contemporanei accolsero "le nuove rime": l'autorevolissima voce di Guittone d'Arezzo, per esempio, che nel sonetto S'eo tale fosse ch'io potesse stare, quasi certamente rivolto al Guinizzelli, bolla come "laido errore" la sublimazione della donna; e nella canzone O tu, de nome Amor ne evidenzia il potere di condurre a perdizione l'uomo, adducendo gli esempi canonici di Sansone e di Salomone; atteggiamento che in questo particolare versante dichiara Guittone erede o almeno simpatizzante della lunghissima e accanita tradizione misogina medievale, che trova uno dei suoi momenti più puntigliosamente animosi nella sequela dei Proverbia que dicuntur super natura feminarum di anonimo veneto (metà del sec. XII), ma che affonda le radici assai indietro, nei padri della Chiesa e su fino alla Bibbia, a Eva che per prima diede il morso alla mela proibita, come Dante sottolinea nel XXIV del Purgatorio, ma come si leggeva già nei Proverbia:

Eva del paraiso Fe' descaçar Adamo:
cusì fano le femene, que d'ogno mal à un ramo;
dolce par più asai qe no è mel de samo,
con lo qual prende li omini con' fa lo pese l'amo
.

      La contestazione e il dissenso nei confronti della donna angelicata e del nuovo stile con cui viene glorificata vengono anche da altri poeti e intellettuali coetanei di Dante: da Lapo degli Uberti con il sonetto Guido, quando dicesti pasturella, da Buonagiunta da Lucca nel sonetto Voi ch'avete mutato la maniera, e ancora, più sapidamente, dalla deformazione parodistica della donna-angelo creata da Cecco Angiolieri, il quale, programmaticamente e polemicamente ancorato a una disillusa esperienza esistenziale realisticamente terrena, contrappone all'eterea Beatrice la zotica ma per lui più carnalmente verace figlia di un conciatore di pelli dal poetico nome di Becchina, giovane donna piuttosto disinibita che alle profferte di fedeltà e d'amore dello spasimante risponde con piccanti insulti e con minacce. Poco più avanti nel secolo, la misoginia troverà un altro adepto, in verità piuttosto inaspettato: Giovanni Boccaccio; che esalterà bellezza e intelligenza della donna nel Decameron, per poi denunciarne nel Corbaccio le pesantissime negatività. E gli echi di questo atteggiamento arriveranno molto più in là nel tempo: nel Cortegiano se ne fa per esempio banditore Gasparo Pallavicino, contestato da Bernardo Dovizi da Bibbiena; e vorrei chiudere questa velocissima rassegna accennando appena al paradigma donna-instrumentum diaboli, matrice e vaso d'ogni male, e alla spietata caccia e ai roghi di streghe (mai o raramente di maghi, si badi), che illuminano sinistramente la fine del XVI e tutto il XVII secolo.
      Dante riscatta la donna, la libera totalmente dalla pesante zavorra della carnalità; e dico Dante, in quanto gli altri stilnovisti, in primis Guido Cavalcanti, accettano ancora in toto la concezione dell'amore e della passione - quindi anche della donna - teorizzata da Andrea Cappellano e da altri teorici dell'amor cortese: concezione che Dante invece rifiuta, ma rinnovandola, trasformandola, senza per questo rinnegarne la nomenclatura di base. Andrea Cappellano e con lui i teorici dell'amore cortese avevano affermato che l'amore aveva come esca e acciarino la visio, cioè la contemplazione della bellezza: valorizzavano dunque in misura totale la bellezza fisica, adorando l'aspetto simile a quello di una creatura angelica, non l'essenza spirituale della creatura angelica; attribuendo quindi all'apparenza esteriore, alla bellezza, la massima se non esclusiva importanza nel far scoccare la scintilla della passione; sentimento questo cui nulla poteva opporsi, pena una netta diminutio e svilimento della passione stessa. Dante corregge questa visione, non per questo riducendo l'importanza fondamentale della bellezza e quindi della visio, ma sottoponendo il processo dell'innamoramento e la vampa della passione alla discretio, al giudizio, alla razionalità, a quello insomma che egli stesso definisce "lo fedele consiglio della ragione":

     
E avegna che la sua imagine [l'immagine mentale di Beatrice], la quale continuatamente meco stava, fosse baldanza d'Amore a segnoreggiare me, tuttavia era di sì nobilissima vertù, che nulla volta sofferse che Amore mi reggesse sanza lo fedele consiglio de la ragione in quelle cose là ove cotale consiglio fosse utile a udire. (Vn II 9)

      Nella Vita nuova e nella Commedia la donna è centro propulsore, generatrice di amore; che all'inizio è attrazione passionale, "signoria" assoluta della passione sulle facoltà dell'innamorato, del quale domina

     
lo spirito de la vita, lo quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore, [...] lo spirito animale, lo quale dimora ne l'alta camera ne la quale tutti li spiriti sensitivi portano le loro percezioni, [...] lo spirito naturale, lo quale dimora in quella parte ove si ministra lo nutrimento nostro. (Vn II 5-8)

      Ma ben presto all'amore-passione subentra l'amore-virtù: ed è questa la "novità" che Dante ha innestato sulla novità stilnovistica, questa è la fondamentale "correzione" di deciso indirizzo spirituale che lo distacca non soltanto dalla teorizzazione di Andrea Cappellano, ma da quella di un battistrada come il primo Guido e da quella degli amici che pure si son mossi e si muovono sul medesimo suo versante: primo fra tutti, il secondo Guido, il Cavalcanti, restato fermo al palo di quell'amore-passione cui tutto è secondario, anche e soprattutto "lo fedele consiglio de la ragione". L'amore-passione è per Dante una di quelle "immagini di ben ... false" che nascondono nell'apparenza positiva il mortale pericolo del peccato: e l'exemplum di Francesca - uno fra i possibili, ma certo il più eloquente - è una vera e propria parabola che visualizza drammaticamente questo assunto. L'amore vero, totale e totalizzante non può essere quello che invalida le facoltà fisiche e mentali, che annulla la volontà, ma soltanto quello che nel 22° del Purgatorio Virgilio definirà "Amore Acceso di virtù" che "sempre altro [amore] accese Pur che la fiamma sua paresse fore", cioè si manifestasse: sentenza che è l'evidentissimo e significativo contrapposto di quella di Francesca, il celeberrimo Amor, che a nullo amato amar perdona.
      Nella figura della donna, anzi della domina dantesca, convergono dunque bellezza e virtù: la bellezza promuove l'attrattiva e determina il nascere della passione, ma poiché è specchio della virtù interiore, non può che condurre l'amante all'amore virtuoso, a una passione domata dalla briglia della ragione. La donna "angelicata" non è soltanto pura apparizione beatificante, ma è dunque assunta a ideale fattore attivo di riscatto spirituale. Depurata d'ogni attributo accidentale che potrebbe abbassarla a bellezza individuale, solo terrena, e dunque a puro oggetto di passione irrazionale e creatura ineluttabilmente passibile di corruzione materiale e/o morale, la donna angelo di Dante supera la corruttibilità con la virtù e con il suggello della morte: non a caso è proprio la morte di Beatrice che sveglia Dante dal pesante e annoso "sonno della ragione" e lo immette sul sentiero del riscatto morale, permettendogli il recupero della "diritta via" dalla quale lo avevano distolto una congerie di false immagini di bene.
      Al Paradiso appartengono "le tre donne sante" che presiedono al viaggio di Dante: Maria Vergine, la donna perfetta, l'unica sine labe concepta, matrice della redenzione e avvocata dell'umanità peccatrice; Lucia, la "vista", la grazia illuminante, la luce della conoscenza cristiana; Beatrice, colei che per prima ha infuso nell'amante il seme dell'amore virtuoso, e che per prima ha voluto la sua salvezza, intercedendo presso la Vergine attraverso Lucia, cui Dante si dichiara particolarmente fedele, devoto. Nell'Empireo le tre donne sante occupano seggi particolarmente privilegiati: Maria, ovviamente, la sommità, dalla quale scende per la candida rosa un discrimine che separa i credenti in Cristo venturo - posti alla sinistra della Vergine - da quelli che credettero in Cristo venuto - alla sua destra -; la "candida rosa" è dunque divisa da una linea discendente formata da una schiera di donne ebree, tra le quali spiccano, scendendo di semicerchio in semicerchio, Sara, Rebecca, Giuditta; mentre alla sinistra della Madonna, nel seggio più alto, siedono Adamo e poi Mosè, a destra san Pietro e san Giovanni Evangelista; Lucia, simbolo della grazia illuminante, siede dall'altra parte della rosa: di fronte ad Adamo, che per primo perdette quella grazia. Lucia ha alla propria destra il Battista, accanto al quale siede sant'Anna, la madre della Madonna, in perpetua contemplazione della figlia. Beatrice, simbolo della teologia, siede a fianco di Rachele, simbolo della vita contemplativa, nel terzo "semicirculo" sotto Maria e sotto Eva, e dunque in un posto elevatissimo; dovuto, come quello di Eva e delle Ebree espressamente citate, più alla simbologia che inerisce ai personaggi che non alle singole vicende biografiche. E valga per tutte la posizione di Eva, della "presumtuosissima" "antica matre [...] ch'al serpente crese", della "bella guancia Il cui palato a tutto 'l mondo costa": essa occupa l'eminentissimo seggio immediatamente sotto Maria in quanto la tradizione esegetica cristiana ha elaborato nei secoli le equazioni tipologiche Eva-Maria-Chiesa, all'interno delle quali opera anche il significativo gioco enigmistico Eva-Ave, portatore della figura peccato > redenzione.
      Com'è noto, tutti i beati hanno sede nell'Empireo; e però, sempre per amore - amore articolato e definito come ardore di carità, come soddisfazione per essere chiamati a illuminare e indirizzare il pellegrino - molti di essi lasciano momentaneamente i seggi loro attribuiti, disponendosi di cielo in cielo a seconda del rispettivo grado di perfezione e di beatitudine, in modo che Dante possa apprendere più distesamente e agevolmente, e quindi poi raccontare, la struttura del Terzo regno. La distribuzione dei beati nei singoli cieli ha comportato una citazione praticamente esclusiva, nell'Empireo, di figure che o appartengono alle sacre scritture, come appunto le donne Ebree e sant'Anna, o all'agiografia, come santa Lucia; mentre alla vita secolare o alla storia si legano altre figure femminili, evocate e - come sempre in Dante - fruite con abilissimo calcolo narrativo e figurale.
      Intanto, diversamente da quanto avveniva nelle altre due, la presenza della vita terrena è nella terza cantica una scenografia per accenni e allusioni, che si fa sempre più evanescente - recuperando concretezza solo nella rievocazione di Cacciaguida - man mano che l'ascesa procede di cielo in cielo. Le figure femminili della cantica privilegiano infatti il loro stato presente di beate, tratteggiando appena le proprie vicende biografiche; che certo rivestono una loro importanza per determinare, diciamo, le ragioni del contrappasso, ma così sottaciute come sono sottolineano, evidenziano il distacco che i personaggi - e con loro il lettore - hanno maturato nei confronti del mondo e di quanto vi è accaduto o vi accade.
      La scelta e l'evocazione delle figure femminili è la più varia, come del resto si è constatato nelle due cantiche precedenti; ma considerando che nel Paradiso non vige, se non latamente, la netta separazione topografica in gironi o cornici che caratterizza gli altri due regni, l'attenzione del lettore può puntare anche su altri elementi che, in concomitanza con quelli storico-biografici dei singoli personaggi, permettono di approdare a suggestivi approfondimenti dell'intenzione e dell' invenzione dantesca.
Si coglie con immediatezza infinitamente maggiore, per esempio, della grandissima importanza assegnata alla figura della donna-madre, rappresentazione che ricorre in diverse e pregnanti sfumature.
      In sant'Anna "tanto contenta di mirar sua figlia Che non move occhio per cantare osanna", (32.133-35), Dante si è concesso una poetica e naturalissima pennellata di affettuoso interno familiare, che non può non richiamare nel lettore altri squarci d'interni e di poetica affettuosità materna: come l'immagine, fugace ma intensissima, del "fantolin che 'nver la mamma\tende le braccia, poi che 'l latte prese,\per l'animo che 'nfin di fuor s'infiamma"; o come la pennellata di calore familiare più indirettamente ma altrettanto intensamente suggerita dal possessivo tuo, che nel verso iniziale del canto IX, Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza, lascia intravedere intensità di sentimenti (e non rileva molto se coniugali o filiali). In altre figure il poeta intende esaltare la virtù della grazia che dalla madre s'è irradiata nei figli (come in Giovanna madre di san Domenico, "veramente Giovanna", cioè "ricca di grazia", XII 80); in altri casi è sottolineata, sulla falsariga delle Scritture, l'abnegazione di una maternità concessa da Dio "etiam praeter tempus aetatis": ed è il caso di Sara, moglie di Abramo, che generò Isacco, primo a credere in Cristo venturo; di Rachele, simbolo della vita contemplativa, moglie a lungo sterile di Giacobbe, madre in età avanzata di Esaù e Isacco, di "quei gemelli Che nella madre ebber l'ira commota" (XXXII 68-69), che cioè si urtavano già nell'alvo materno per essere il secondo amato, il primo odiato da Dio; e ancora di Rut, "che fu bisava" di Davide, del "cantor che per doglia Del fallo", cioè dell'adulterio commesso con Betsabea, compose il salmo penitenziale "Miserere mei".
      Ma in Paradiso siedono anche personaggi femminili appartenenti ad anni assai meno lontani. Su un'altra madre, Costanza d'Altavilla, "che del secondo vento di Soave", cioè con Arrigo VI, "generò il terzo e l'ultima possanza", Federico II, Dante carica significati che vanno ben oltre la celebrazione di una maternità eccezionale - anche questa, secondo la leggenda, avvenuta in tarda età -; permettendogli di introdurre da un lato l'importante motivo della violenza esercitata sulla volontà femminile con matrimoni forzati, dall'altro un ulteriore tassello del discorso che gli sta molto a cuore: quello sulla legittimità della casa Sveva e la continuità dell'impero, dell'auspicato riassetto dell'Italia e del mondo, realizzabile solo previa restaurazione dell'autorità imperiale. Straordinaria invenzione narrativa, la "gran Costanza" resta muta come una icona regale, sulla quale si riverbera suggestivamente la parola che rima col suo nome, possanza, ad aumentarne la solennità; e lascia che ad accennarne le dolorose vicende personali sia una semplice nobile, Piccarda Donati, anche lei vittima di uomini a mal più che a ben usi, che fuor la rapiron de la dolce chiostra, obbligandola al matrimonio. Sorella di un grande amico, e probabilmente ben conosciuta da Dante, Piccarda è solo una dolce "ombra che parea più vaga Di ragionar" e che risponde "pronta e con occhi ridenti" alla richiesta del pellegrino di 'contentarlo' "del nome suo e de la loro sorte".
      La condizione di relativa imperfezione di questi spiriti che si rivelano al pellegrino nel cielo della Luna, il più lontano da Dio, ("e questa sorte che par giù cotanto Però n'è data perché fur negletti Li nostri voti e vòti in alcun canto") suggerisce all'immaginazione di Dante una delle sue invenzioni figurative più suggestive ed ineffabili:

quali per vetri trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
non sì profonde che i fondi sien persi
tornan d'i nostri visi le postille
debili sì, che perla in bianca fronte
non vien men forte a le nostre pupille;
tal vid'io più facce a parlar pronte. [...]

similitudine suggellata da un'immagine che sgorga dalla prima come felicissima, straordinaria variatio sul tema dell'acqua:

Così parlommi, e poi cominciò Ave
Maria cantando, e cantando vanìo
Come per acqua cupa cosa grave.

      Sarà questa fra l'altro l'ultima volta che Dante lascerà ai beati una traccia della loro consistenza corporea, contrassegno figurale di una loro relativa imperfezione: da qui in avanti le anime saranno soltanto punti-luce sempre più luminosi e quindi fisicamente indeterminabili (ed è qui che cadono quasi tutti gli illustratori della Commedia: nel rappresentare i beati come corpi visibili e fisicamente connotati).
      Le due figure femminili che, nonostante la loro traslucida impalpabilità, dominano il cielo della Luna, costituiscono due exempla di donne - regale l'una, nobile l'altra - costrette per ragioni di stato o di pura convenienza politica a rinunciare a una vocazione spontanea, ad abiurare ai voti già pronunciati, ad abbandonare la clausura per essere "usate", questa la parola più consona, come veri e propri strumenti di alleanza, di scambio. E il personaggio di Piccarda trasmette, pur nella pacatezza del proprio racconto, una serie di segnali che dichiarano apertamente la certezza della propria vocazione e quindi la bellezza della vita che aveva scelto monacandosi. Ha finemente notato il Porena:

     
ogni volta che il discorso la riconduce alle reminiscenze della sua vita terrena, Piccarda la rivede e la risente attraverso il suo animo monacale. L'andare in convento è fuggire il mondo, il prendere l'abito di Clarissa è un chiudersi nell'abito stesso come in una difesa, la prigionia claustrale è una dolce chiostra. E poi le bende che deturpano e stringono il capo femmineo sono da lei sentite come ombra ristoratrice e santa; dell'ordine di Santa Chiara è ricordata non solo la veste ma il velo protettore, quel velo che, quand'anche sia strappato dalla violenza degli uomini, non cade però d'intorno al cuore.

      Nell'evocazione di Piccarda non è inoltre avventato supporre in Dante l'intenzione di colpire ancora una volta il capo di parte nera, il fratello di lei, Corso, non nominato ma sottinteso mandante di quegli uomini a mal più che a ben usi, che l'avevano strappata dal convento e costretta a sposare il violento esponente di parte nera Rossellino della Tosa (con incisiva reticentia Piccarda ne fa solo un cenno:"Iddio si sa qual poi mia vita fusi").
      Con la cognata Nella, la moglie di Forese evocata dal marito con dolcissime parole di ricordo nel XXIV del Purgatorio, e naturalmente con Forese stesso "salvato" anche se anima purgante, Piccarda permette a Dante di riabilitare parte della famiglia Donati; e analogamente l'evocazione di Costanza d'Altavilla costituisce un ulteriore occasione che Dante si offre per glorificare la casata sveva e per portare ancora una volta il discorso sull'Impero e sulla dibattuta questione della sua continuità: convinzione utopica, ma ferma, che in finale di cantica troverà straordinario suggello nella descrizione del seggio riservato nell'Empireo ad Arrigo VII di Lussemburgo e nella sottesa speranza riposta nell'iniziativa di Cangrande: cui è dedicata senz'altro la terza cantica, ma fors'anche l'intera Commedia. La celebrazione della casa Sveva, e in particolare della figura di Federico II, si può dire costituisca un leitmotiv rintracciabile lungo tutta l'opera di Dante: che pur avendo condannato il sovrano fra gli eretici (ma di malavoglia, si direbbe: ne cita il nome e basta), non lascia invece sfuggire occasione per ribadire la propria ammirazione per l'imperatore e la sua opera politica e culturale; approfittandone anche per riscattare Manfredi, cui peraltro ha dedicato il bellissimo episodio del III canto del Purgatorio, dalla interessata taccia di illegittimità di nascita, ribadendone il pieno diritto alla successione con un perentorio benegenitus e con la specifica qualifica di "nepote di Costanza imperatrice" (Pg III): dichiarazioni che valgono molto più di un'articolata dimostrazione. Padre e figlio sono del resto definiti nel De vulgari eloquentia (I 12) "illustres heroes [...], nobilitatem ac rectitudinem suae formae pandentes", i quali "donec fortuna permisit, humana secuti sunt, brutalia dedignantes. Propter quod corde nobiles atque gratiarum dotati inhaerere tantorum principum maiestati conati sunt"; e in un passo del Convivio (IV III 6) Federico è detto espressamente essere "l'ultimo imperatore de li Romani", poco oltre (X 6) "loico e clerico grande". Si resta comunque, anche con questi entusiastici riconoscimenti, peraltro assolutamente insoliti in Dante, sulla terra, per così dire, nell'ambito di valori etici del tutto umani. Costanza è invece santificata, è in Paradiso; si tratta dunque di vera e propria consacrazione del personaggio e della casata; oltre naturalmente, come sempre in Dante, di evocazione di altissima valenza poetica.
      La decisa prevalenza - e non solo qui nel Paradiso - di figure femminili appartenenti a stirpe nobile o addirittura regale ha una sua ragion d'essere: che non implica però - come pure è stato detto - una tendenza precostituita che porterebbe il poeta a privilegiare in modo pressoché assoluto i ceti dominanti. Una posizione di questo tipo sarebbe platealmente smentita, non foss'altro, dalla rivoluzionaria - socialmente e culturalmente rivoluzionaria - concezione stilnovistica della "gentilezza", identificata direttamente come nobiltà ("gentilezza o ver nobilitade, che per una cosa intendo", Cv IV xiv 8): che è attributo dunque non più strettamente legato al concetto feudale di gens, ma qualità profondamente etica e potenziale patrimonio di chiunque, come ripetutamente enunciato in molti passi dell'opera dantesca, e sinteticamente in un verso della canzone Le dolci rime, la terza del Convivio: "È gentilezza ovunqu'è vertute" (IV, v. 101). Non dunque a preconcetto o altro risponderanno le scelte dantesche di questo o quel personaggio, bensì a un fondamentale criterio di convenienza didascalico-morale, e dunque alla ineludibile necessità di presentare personaggi largamente noti, di cui fossero conosciute almeno le vicende biografiche di base: solo così l'exemplum poteva acquisire la giusta carica di efficacia didascalica e parenetica.
      È anche il caso di un altro personaggio nobile, ma di ben altra condotta di vita, cui Dante dona grande spazio: Cunizza da Romano; il cui profilo biografico tocca strettamente anche Verona, della quale fu signora per circa quattro anni, dal 1222, anno in cui andò sposa al marchese Rizzardo di San Bonifacio signore di questa città, al 1226, data della sua clamorosa "fuga" - forse amorosa - con Sordello, il poeta italo-provenzale che abbiamo incontrato nell'Antipurgatorio. La sorpresa di incontrare addirittura in Paradiso la sorella del famigerato tiranno Ezzelino e del non meno turbolento Alberico, ha indotto qualche studioso a dubitare dell'imparzialità di Dante giudice, che qui avrebbe platealmente ceduto alle sirene del soggettivismo storico-politico, celebrando il proprio filoghibellinismo con l'evocazione di un personaggio femminile che non pochi commentatori antichi, sull'evidente scorta di voces populi non proprio benevole e inclini al pettegolezzo, definiscono donna molto passionale, quando non scivolano nell'esplicitamente ingiurioso. Si tratta comunque di una sposa rea comunque di abbandono del tetto coniugale, di un personaggio che nella spiritualissima atmosfera del Paradiso, una volta espletato con brevi parole il rito di dichiarare la propria condizione di beata, si dilunga per ben 18 versi (43-60) in una circostanziata e aspra reprimenda-profezia concernente il futuro dei territori "che Tagliamento e Adige richiude", territori una volta sotto l'egida del violento ma politicamente acuto fratello Ezzelino, vicario imperiale e fedele all'imperatore anche dopo la morte di questi; terre ora passate nelle adunche quanto fragili mani di aggressivi e litigiosi signorotti (come Rizzardo da Camino) o di biasimevoli prelati (come l'infido prete cortese, il vescovo di Treviso Alessandro Novello), tutti testardamente chiusi nella propria cieca e superba improvvidenza, refrattari all'invito di appoggiare il vicario imperiale Cangrande, illuminato signore di Verona; e per questo, tutti meteore destinate a veloce e vicinissima rovina.
      La scelta di Cunizza rappresenta in realtà un abile escamotage dell'autore per introdurre un'ulteriore invettiva antiguelfa, che si congiunge organicamente con le tante analoghe sparse nel poema, in particolare con quella di Guido del Duca sul disordine politico della Romagna (Pg XIV 76 ss.), con quella di Marco Lombardo (Pg XVI 25 ss.) sui danni politici e morali originati da una insensata gestione del potere temporale; o con quella di Sordello (Pg VI-VII) sulla corrotta politica dei prìncipi italiani (e il legame biografico del rimatore mantovano con Cunizza potrebbe essere stato un ulteriore elemento per la scelta della donna); inoltre, giusta la consuetudine di farne espositore un "locale" che fosse "esperto" in materia, doveva essere un eminente personaggio veneto a pronunciare l'invettiva sulla degenerazione della politica nel nordest d'Italia; e non è poi tanto assurdo supporre che Dante l'avrebbe volentieri affidata a Ezzelino, solo che Ezzelino non fosse stato senza praticabili attenuanti il crudelissimo e violento tiranno di cui erano pieni i ricordi dei più anziani e le cronache coeve e posteriori. Com'è stato peraltro acutamente osservato, il tono della digressione profetico-politica di Cunizza è infatti brutalmente corrusco di immagini violente, contesto com'è di immagini pesanti e sanguinose, cui corrispondono un lessico assai poco consono alla tersa e pacata atmosfera della cantica, e rime quasi "aspre e chiocce" (richiude:palude:crude; alta:difalta:malta; bagna:accompagna:ragna; sconcia:bigoncia:oncia):

t
osto fia che Padova al palude
cangerà (in sangue) l'acqua che Vicenza bagna,
per essere al dover le genti crude;

tal signoreggia e va con la testa alta,
che già per lui carpir si fa la ragna.
Piangerà Feltro ancora la difalta
dell'empio suo pastor ;

Troppo sarebbe larga la bigoncia
che ricevesse il sangue ferrarese,
e stanco chi 'l pesasse a oncia a oncia.

      Sono immagini e tonalità che si attaglierebbero più convenientemente a un personaggio aggressivo, sanguigno e direttamente parte in causa come Ezzelino. Ma non potendo certo assegnare un ruolo di moralista a un personaggio del genere, e non volendo comunque indebolire il carico di esemplarità che intendeva attribuire a questa che è l'ultima allusione alla dolorosa e cruenta cronaca delle vicende d'Italia, Dante promuove portavoce della propria indignazione Cunizza, la sola componente della famiglia dei da Romano che oltretutto gli permettesse una relativa libertà d'invenzione, in particolare la libertà di farne una verosimile beata; e questo nonostante i suoi trascorsi biografici. Dante non dà evidentemente credito (o mostra comunque di non darne: per convinzione o per convenienza, impossibile dire), non dà credito alle pesanti dicerie sulla condotta morale della donna: fra l'altro può darsi che giovanetto avesse anche potuto incontrarla come anziana signora (era nata intorno al 1198) per le strade di Firenze, dove presso parenti Cunizza si era rifugiata dopo la rovina del fratello (1260) e dove presumibilmente morì, in data sconosciuta ma posteriore al giugno 1279, quando Dante era sui 15 anni. La sola cosa di cui è difficile dubitare è che a Dante non fosse capitato di sentirne raccontare in giro gli scandalosi trascorsi coniugali e amorosi - quegli stessi frizzanti aneddoti che troviamo abbondantemente rifusi nelle chiose di molti commentatori; ed è lecito supporre che egli abbia deliberatamente scelto non tanto di ignorarli, ma di volgerli a vantaggio di un'interpretazione positiva: appoggiato in questo da una tradizione altrettanto accreditata, secondo la quale Cunizza avrebbe trascorso gli ultimi anni della propria lunghissima vita dedicandosi a generose e santificanti opere di bene: la forte inclinazione naturale verso amori terreni l'avrebbe insomma riportata gradualmente e poi definitivamente all'amore divino, come del resto sembra dire lei stessa (mi vinse il lume d'esta stella:\ ma lietamente a me medesma indulgo\ la cagion di mia sorte, e non mi noia;\ che parrìa forse forte al vostro vulgo). Per Dante, Cunizza ha insomma pienamente meritato la beatitudine del terzo cielo.
      E a questa lettura del personaggio condurrebbe oltretutto la giustapposizione nello stesso canto IX di un episodio che può legittimamente considerarsi, con i debiti aggiustamenti, momento speculare di questo, e costituirne un corollario di sostegno. Mi riferisco alla figura della biblica meretrice Raab, assunta nell'Empireo pria ch'altr'alma\del triunfo di Cristo, prima cioè di ogni altra anima del Limbo, in quanto favorò la prima gloria\di Iosuè in su la Terra Santa, protesse e salvò i due esploratori mandati da Giosuè a Gerico; Raab favorì in questo modo la conquista della città, ottenendone a compenso immediato la salvezza fisica di genitori e parenti, dopo la morte la propria eterna salvezza. In Raab come in Cunizza l'influsso del pianeta Venere era dunque positivo fin dall'inizio, anche quando sembrava che la loro condotta di vita fosse pesantemente deviata; e comunque la parte della loro esistenza trascorsa negli eccessi venne ampiamente riscattata dal sopravvenuto recupero e dalla giusta fruizione della naturale disposizione amorosa cui l'astro le aveva predestinate. La figura di Raab era stata poi precocemente scelta a simboleggiare la Chiesa rigenerata dal sacrificio di Cristo sulla croce, quindi la sua presenza in Paradiso non suscitava alcuna perplessità; mentre quella di Cunizza necessitava di una giustificazione: che le viene dunque abilmente donata, oltre che dal netto rifiuto di tenere in qualche conto le ciarle del vulgo veneto e fiorentino, dall'averle accostato un personaggio inattaccabile come Raab.
    Ma proprio la figura della meretrice redenta di Gerico promuove nel lettore un'associazione laterale, ma forse non peregrina: come mai Dante non ha sfruttato un'altra figura ancora più nota e potenzialmente più emblematica di Raab, Maria Maddalena, citata soltanto nella ripresa letterale del passo evangelico nel quale si ricordano le tre Marie che vanno al sepolcro e non trovano più il corpo di Gesù?
      Le tre pie donne sono, com'è noto, Maria di Magdala, appunto, Maria madre di Giacomo e Giovanni, e Maria Salomè (nota1). Di queste tre Marie la tradizione più vulgata ha privilegiato di gran lunga Maria di Magdala, più conosciuta come Maria Maddalena, promuovendola a un ruolo di grande rilievo nella letteratura agiografica e nelle arti figurative. Ma l'elezione di questa figura di prostituta redenta e penitente, fedelissima seguace di Gesù e addirittura presente con Maria e Giovanni sul Golgota, scaturisce dall'erronea identificazione di Maria Maddalena con Maria di Betania, sorella di Lazzaro e di Marta, e dalla sovrapposizione di due episodi evangelici analoghi. Narra Giovanni (12,1 ss) che sei giorni prima della Pasqua, in casa del resuscitato Lazzaro Maria, sua sorella, avesse unto i piedi di Gesù con unguento di nardo e glieli avesse asciugati con i propri capelli. Nel Vangelo di Luca (7 36ss) si racconta che "una donna, che era peccatrice nella città, [...] portò un alabastro d'unguento e [...] cominciò a bagnare i piedi [di Cristo] con le lacrime e li asciugava coi capelli"; poco oltre (8 2) lo stesso evangelista dice che con Gesù e con gli Apostoli per città e villaggi si accompagnavano anche "alcune donne liberate da spiriti maligni e da infermità", fra le quali era anche "Maria, detta la Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni". Inevitabile, a questo punto, l'equivoco che provoca la fusione di Maria sorella di Lazzaro, dell'innominata prostituta che sparge di unguento e lacrime i piedi del redentore, e della Maria Maddalena esorcizzata seguace di Gesù. Ma nonostante la confusione risalisse al medioevo, l'elezione della Maddalena a personaggio comprimario di racconti agiografici e soprattutto di rappresentazioni figurative è sorprendentemente tarda, e conobbe una diffusione più ampia solo attraverso lo Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais (redazione definitiva, 1256-59) e la Legenda aurea di Jacopo da Varazze (ante 1267), opere molto diffuse, ma che si direbbe non siano state conosciute o almeno fruite da Dante. L'assenza della Maddalena nella Commedia, nonostante il suo proporsi come figura potenzialmente emblematica analoga a quella di Raab, può dunque giustificarsi con questa sua tarda o irrilevante tradizione agiografica; ma non mi pare infondato supporre che potrebbe anche trattarsi di una preterizione calcolata: una Maddalena in rilievo sarebbe stata un doppione di Raab e soprattutto un doppione di Cunizza, come sembra infatti aver còlto l'anonimo chiosatore cassinese: per il quale Cunizza "Matura aetate ... amorem talem suum ferventem, post diu circa mundana, accesius revolvit in Deum, sicut fecit Madalena". E a Cunizza, come abbiamo visto, Dante intendeva affidare un ruolo dalle valenze molto più complesse e risonanti rispetto a quelle eventualmente affidabili con un crisma di sufficiente esemplarità alla peccatrice pentita e redenta.
      Di tutt'altra levatura, ma anch'essa in qualche modo funzionale alla narrazione dantesca, è un personaggio storicamente irrilevante, noto soltanto nella piccola cronaca cittadina ma assurto addirittura a paradigma di dissolutezza, portata fino al limite di fondare una sorta di setta femminile di irriducibili amatrici: come ci racconta il Boccaccio:

Egli c'è un'altra maniera di savia gente, la quale forse tu non udisti mai in scuola tra le sette filosofiche ricordare, la quale si chiama "la cianghellina". Sì come da Socrate coloro che la sua dottrina seguirono furono chiamati "socratici", e quelli che quella di Platone "platonici", ha questo nome presso la nuova setta da una gran valente donna, la quale tu molte volte puoi avere udita ricordare, che fu chiamata madonna Cianghella; cui sentenzia, dopo lunga e seriosa disputazione, fu nel concilio delle donne discrete e per conclusione posta che tutte quelle donne, le quali hanno ardire e cuore e sanno modo trovare d'essere tante volte e con tanti uomini quante il loro appetito concupiscibile richiedea, erano da essere chiamate "savie"; e tutte l'altre "decime o moccicose". Questo è adunque quel senno il quale le piace e aggrada; questo è quel senno nel quale ella con lunghe vigilie molti anni ha studiato ed ènne, oltre ad ogni Sibilla, savia e maestra divenuta: intanto che tra lei e alcune sue consorti s'è assai volte disputato chi più degnamente, poi che monna Cianghella più non vive, né Monna Diana ch'a lei succedette, debbia la cattedra tenere nella loro scuola. Questo è quel senno nel quale ella vorrebbe ciascuna donna e uomo essere savio o appararlo; e perciò sgànnati, se male avessi inteso; e ch'ella sia savissima credi sicuramente all'amico tuo.
       
      È un brano del Corbaccio (nota2) che, se non è fioritura aneddotica accestita sulla citazione dantesca, costituisce una chiosa sapida e interessante. Ma al di là della probabile identificazione di questa femminista a oltranza e ante litteram con una Cianghella figlia di Arrigo della Tosa o Tosinghi, e moglie di un Lito degli Alidosi, resta la funzione comparativa della citazione; che avviene nel bel mezzo della rievocazione dell'antica virtù di quella Fiorenza che, dentro dalla cerchia antica, viveva in pace, sobria e pudica. La dissoluta Cianghella, esemplare paradigmatico della corruzione dei costumi muliebri della Firenze di fine Duecento e più che verosimile componente della schiera della sfacciate donne fiorentine che non si peritano di passeggiare per la città mostrando con le poppe il petto, come le ha descritte Forese Donati nel 23° del Purgatorio - Cianghella, dicevo, è citata come secondo termine di un parallelo iperbolico con il quale Cacciaguida intende condannare le colpevoli concessioni al lusso e al lassismo dei costumi che costituiva il triste e pericoloso prezzo dell'ascesa economica di Firenze. Per quanto sfacciata, a confronto con le sfacciate fiorentine arricchite che vivono nel tempo presente, Cianghella appare una virtuosa Cornelia: la degenerazione si direbbe dunque drammaticamente progressiva, inarrestabile.
      Tutto il discorso di Cacciaguida è strutturato in forma di comparazione contrastiva, retoricamente impostata su una fitta serie di negazioni che sottintendono il secondo termine di paragone, la condizione attuale dei costumi, che è quindi posta in tacita ma drammatica antitesi con il riposato e bello viver di cittadini, con la fida cittadinanza, con il dolce ostello nel quale il glorioso antenato del poeta aveva visto la luce:


Non avea catenella, non corona,
non gonne contigiate, non cintura
che fosse a veder più che la persona.
Non faceva, nascendo, ancor paura
la figlia al padre, ché 'l tempo e la dote
non fuggien quinci e quindi la misura.
Non avea case di famiglia vòte;
non v'era giunto ancor Sardanapalo
a mostrar ciò che 'n camera si puote.
Non era vinto ancora Montemalo
dal vostro Uccellatoio, che, com'è vinto
nel montar su, così sarà nel calo. (Pd XV 100-111)

      L'ideale di vita morigerata che Dante prospetta attraverso il planh del trisavolo ha suscitato in meno accorti anche se apparentemente più impegnati commentatori moderni una serie di perplessità. Certamente, se ci si ferma alla lettera del testo, o se si dimentica che il discorso del poeta intende assumere valore di generalità - giusta l'equazione Firenze=mondo, onnipresente e onnioperante nella Commedia -, il quadro idilliaco della città, ma soprattutto della condizione femminile che ne emerge non è fra i più ideologicamente aperti. Rileggiamone i particolari: la moglie di Bellincion Berti, cavaliere e "onorevole cittadino" secondo il Villani, veniva dallo specchio [...]sanza il viso dipinto, senza essere truccata; le donne delle nobili casate dei Nerli d'Oltrarno e dei Vecchietti stavano al fuso ed al pennecchio; e così, in generale, anche le altre donne fiorentine: certe però di morire dov'erano nate, e sempre accanto ai mariti, che non le lasciavano sole per mercanteggiare lontano da casa; sorvegliavano i nuovi nati ancora in culla, vezzeggiandoli con l'idioma che prima i padri e le madri trastulla, oppure filavano (traendo alla rocca la chioma) e con i loro racconti trasmettevano i mitici inizi della storia cittadina, perpetuando il ricordo de' Troiani, di Fiesole e di Roma, e dunque rievocando e ribadendo la "nobiltà" delle loro stesse origini. Ed è francamente superfluo sottolineare a questo punto il valore prioritario conferito da Dante alla donna all'interno stesso della struttura sociale: valorizzazione che trasfigura intimamente quelli che potevano sembrare commi di una concezione sostanzialmente misogina intesa a negare alla donna una funzione più articolata e dignitosa che la dichiarasse parte essenziale e altamente efficiente non soltanto negli ambiti pratici dell'organizzazione familiare, ma pars construens ed elemento portante della società.
      Un discorso opportunamente articolato sul supposto conservatorismo di Dante ci porterebbe troppo lontano; lo porrò quindi in termini sintetici, privilegiandone le conclusioni. Lo sviluppo economico di Firenze aveva cambiato i costumi, e questo era inevitabile, ed era anche inevitabile che, come avviene sempre e da sempre, una simile contingenza sollecitasse i laudatores temporis acti. E tale parrebbe il nostro poeta: ma solo per chi si fermi alla superficie del dettato, e non trasferisca invece i dettagli del proprio argomentare sul piano metaforico. Perché i particolari elencati da Dante - orpelli di vestiario, trucco, calo delle nascite, esili forzati o volontari, ostentazione di ricchezza e di impudenza - vanno decrittati soprattutto per il carico figurale che supportano.
      Imputare a Dante un atteggiamento ottusamente reazionario quale sarebbe quello di negare per ragioni sostanzialmente moralistiche ogni positività alla grande ascesa della città in ambito economico e, conseguentemente, politico, sarebbe arbitrario e del tutto erroneo. Il rimpianto espresso attraverso il funzionale personaggio del trisavolo non è infatti rivolto né ai singoli aspetti morali di quella realtà nostalgicamente richiamata in vita, troppo lontana nel tempo per essere ancora valida e fruttuosamente riattivabile, né alla semplicità formale che ne caratterizzava i protagonisti, vestiti di cuoio e d'osso, coperti di sobrii mantelli sfoderati. Ciò che Dante rimpiange è la sostanza di cui quelle forme esterne erano espressione e segnale; rimpiange, è vero, la semplicità degli avi, gli stretti legami che impedivano alla famiglia di sfaldarsi, la saldezza che cementava le generazioni tra loro; rimpiange un sistema di vita e di società più ideale che storicamente reale, un'età dell'oro fiorentina appena un po' meno mitica di quella virgiliana; e rimpiange, perché no, un dolce ostello che, se fosse stato in pace, "pudico", cioè moralmente incorrotto, se fosse stato un riposato viver di cittadini, non lo avrebbe discacciato in ingiusto esilio.
      Ma al di là di ogni possibile e lecito riferimento contingente e magari autobiografico, è chiaro che il poeta intende innalzare figuralmente il discorso a un livello più alto e più assoluto. La pace è la condizione primaria del vivere civile, come più volte ha ribadito nella Monarchia e in altre sue opere: e il mondo è invece un'aiuola che ci fa tanto feroci; la sobrietà, cioè la moderazione negli appetiti, è una voce cassata nel repertorio del comportamento umano, nel contegno personale come nei rapporti sociali e politici; la pudicizia, cioè l'integrità morale, ha lasciato il posto alla protervia, dominante in ogni campo e dovunque. Qui sta la gravità della situazione. Le donne fiorentine si vestono e si truccano vistosamente, non comprendendo che "non si può bene manifestare la bellezza d'una donna, quando l'adornamenti de l'azzimare e de le vestimenta la fanno più ammirare che essa medesima. Onde chi vuole ben giudicare d'una donna, guardi quella quando solo sua naturale bellezza si sta con lei, da tutto accidentale adornamento discompagnata". I fiorentini hanno eletto Marte e un nuovo dio, il fiorino, a ispiratori e motori del proprio agire, senza capire che la rincorsa sconsiderata alla ricchezza è infinita, brutale, rovinosa, falsa immagine di bene per eccellenza, e può generare solo rivalità, violenze, prevaricazioni, sangue.
      Ancora una volta, insomma, Dante ribadisce che a determinare il degrado della contemporaneità non è il progresso di per sé, non sono la sfacciataggine delle donne o l'occhiuto arrivismo di mercanti e politici, bensì ciò che sta alla base di queste fenomenologie, ciò che ne è causa: e cioè la mancanza, in tutto questo, del "fedele consiglio de la ragione", il silenzio imposto all'anima rationalis, alla prerogativa elitaria dell'uomo. Non dunque il progresso in sé porta fuori del retto cammino, ma il libero sì, ma troppo spesso sconsiderato arbitrio dell'uomo.
      Le attualizzazioni sono sempre dei percorsi fitti di trabocchetti e di false prospettive; è quindi con somma discrezione che mi appresto a muovere i passi in simile terreno molto sdrucciolevole. Ma forse non è avventato accostare le considerazioni di Cacciaguida-Dante a quelle che oggi non solo leggiamo, ma noi stessi esprimiamo quotidianamente, parlando di questo nostro tempo. Sindachiamo sperperi e mondanità, spettacoli spinti oltre i limiti della liceità, arrivismi e scandali di vario tipo e importo. Via etere cavo internet videotape, le donne hanno modo di offrire oggi a tutta una sconfinata collettività intercontinentale molto più che le poppe e il petto. Il presente ci sembra fortemente degradato nella moralità e negli equilibri politici e sociali rispetto anche a un passato recente, che pure non ci pareva roseo. Rimpiangiamo la perdita di ideali di fondo come patria e famiglia, perdita che comporta tutta una serie di deviazioni in ambito ideologico ed esistenziale. Gli studi umanistici appaiono sempre più umiliati, anche in ambito accademico, dalla corsa delle scienze e delle realizzazioni pratiche. Il denaro condiziona ogni nostra attività, ed è fatto parametro praticamente unico per la valutazione di un individuo.
      Ma ce la sentiremmo veramente di tornare indietro, di tornare a vivere in epoche più formalmente tranquille e morigerate, ammesso poi che realmente ce ne siano state? In altre parole, crediamo sinceramente che basterebbe rinnegare il progresso con tutte le sue conseguenze che giudichiamo negative per recuperare la nostra moralità, il nostro equilibrio, la nostra tranquillità? Certamente no.
      Il cercare altrove colpe e rimedi non è che un alibi. Dante ci dice che tutto quello che abbiamo o pensiamo di aver perduto, tutto quello che non riusciamo a trovare non va cercato altrove, ma dentro di noi, nella camera del nostro "recto giudicio", in quella parte del nostro io che costituisce la scintilla divina, il soffio del Dio che ci ha infuso la vita. Sta dunque solo in noi, nella nostra buona volontà, nel nostro illuminato libero arbitrio, progettare e costruire un dolce ostello in cui trascorrere senza troppe tribolazioni questa breve vigilia di aldilà che è la nostra vita.
NOTE:

(1) Nel Convivio (IV 22.14) queste tre figure femminili saranno figuralmente intese come "le tre sette della vita attiva, cioè li Epicurei, li Stoici e li Peripatetici, che vanno al monimento, cioè al mondo presente che è recettaculo di corruttibili cose, e domandano lo Salvatore, cioè la beatitudine, e non lo truovano; ma uno giovane truovano in bianchi vestimenti, lo quale [...] era angelo di Dio. [...] Questo angelo è questa nostra nobilitade che da Dio viene, [...] che ne la nostra ragione parla, e dice a ciascuna di queste sette, cioè a qualunque va cercando beatitudine ne la vita attiva, che non è qui".

(2) G. BOCCACCIO, Corbaccio, in Opere in versi. Corbaccio etc., a c. di P.G. Ricci, Milano-Napoli, Ricciardi, 1965, pp. 524-25

 

Verona, 20 febbraio 2001

Eugenio Ragni
Prof. Università Roma III

torna ad inizio pagina


torna all' indice