torna all' indice

Centro Scaligero di Studi Danteschi e della Cultura Internazionale
Martedì 3 dicembre 2002, ore 15.30
Verona, Biblioteca capitolare, Piazza Duomo 13

"Dante e la Lingua latina"
prof.a Letizia Leoncini

Indice

WB00694_.gif (1732 byte)- Introduzione
WB00694_.gif (1732 byte)1) Il rapporto con l’ ars dictandi.
WB00694_.gif (1732 byte)2) Il cursus in Dante.
WB00694_.gif (1732 byte)3) Il rapporto di Dante con la tradizione e la lingua dei classici latini.
WB00694_.gif (1732 byte)4) Il primo capitolo del De vulgari eloquentia: alcuni fenomeni significativi.
WB00694_.gif (1732 byte)- Bibliografia.
WB00694_.gif (1732 byte)- Dossier.

 

 

Introduzione

      Dante e la Lingua latina. Il tema è davvero vasto e complesso. Ed è necessario in primo luogo chiarire che in questa lectura non mi soffermerò sull’aspetto teorico del problema, probabilmente già trattato e con perfezione di argomentazioni dal prof. Mengaldo [nota 1], e quindi non parlerò delle riflessioni teoretiche sviluppate da Dante in merito a quale dovesse essere il ruolo della lingua e della cultura latine nell’ideologia linguistica dantesca, anche rispetto alla lingua e alla cultura volgari. Io mi terrò sul piano pratico della prassi linguistica latina di Dante, tentando di illustrare sinteticamente, sulla base degli studi specialistici disponibili, il quadro dell’usus del latino dantesco, ovvero: 1) che tipo di latino Dante compone; 2) che impianto e origine ha la sua lingua latina; 3) in che rapporti sta con il latino e la cultura della classicità; 4) quali sono gli intenti stilistici del suo latino; 5) infine, quali reciproche influenze si possono cogliere a livello linguistico, nelle opere latine di Dante ma anche in quelle volgari, tra latino e italiano.
      Anzitutto, è indispensabile premettere che il latino dantesco è un paradigma perfetto, e di supremo livello, del latino medievale letterario, e in particolare di quello dell’ epoca di Dante, ovvero dello scorcio del XIII secolo: non dimentichiamo infatti che l’espressione "latino medievale" è in qualche modo un’astrazione, poiché riunisce sotto un’unica etichetta convenzionale, quella appunto di "latino medievale", ben dieci secoli di evoluzione della lingua e della letteratura latine. Dunque, del latino medievale, inteso come astrazione, e anche di quello della fine del tredicesimo secolo, la lingua latina dantesca presenta le principali caratteristiche: un certo livello di artificiosità rispetto al latino classico, in quanto lingua morta all’uso e sottoposta alla manipolazione da parte dell’autore, ed anche tutte quelle irregolarità sintattiche, morfologiche e lessicali che caratterizzano la modificazione dell’uso medievale rispetto alla norma degli autori antichi; poi, la forte influenza del mondo culturale e linguistico del cristianesimo, come è ovvio; infine, l’influenza del volgare, che, se da un lato agisce sul latino dantesco, è a sua volta influenzato, come vedremo, dall’uso latino. In Dante infatti, come in tutti gli scrittori medievali, il rapporto di interferenza tra latino e volgare è a doppio senso: il volgare condiziona il latino dell’intellettuale medievale, ma è anche influenzato e raffinato dal latino.
      Così si esprime sul latino dantesco Aldo Vallone, con un giudizio complessivo a mio parere abbastanza appropriato: "Un latino…di scuola, della buona cultura borghese e aristocratica del XIII secolo, ma anche, nelle parti migliori, di ispirazione profonda e appassionata; aperto alle innovazioni e pur conservatore, pratico di consuetudini curiali e sollecito ai temi e ai modi del tempo; una prova estrema della dimensione a cui è giunta una lingua, e con essa una tradizione, negli anni del suo tramonto" [nota 2].
      Ho scelto dunque alcuni aspetti e temi fondamentali che si rivelano significativi del carattere specifico della lingua dantesca, ma che servono da esemplificazione anche di tendenze generali individuabili nei testi medievali, e in particolare in quelli coevi a Dante.

torna all' indice

 

I) Il rapporto con l’ ars dictandi

      Concordemente, da parte degli studiosi si riconosce alla prosa latina dantesca, in generale, una matrice che è quella del latino delle artes dictandi, ovvero dei manuali di stile medievali. In particolare, Dante si ricollega ai principali dettatori bolognesi della seconda metà '200, Guido Fava e Bene da Firenze. In questi due dettatori si era realizzata una riforma in senso stilistico dell'ars dictandi tradizionale, quella di Boncompagno da Signa, ma soprattutto dei precedenti dettatori, nella quale lo stile latino raccomandato era quello di un dettato notarile medievale rigido, stereotipato, impersonale, caratterizzato dall’ idolatria di partitiones e distinctiones sintattiche e dall’ uso impersonale ed esteriore del cursus, ovvero del ritmo della prosa. Tale riforma dello stile latino medievale propone un dictamen in cui al primo posto sta il bello stile, nel senso, in questa nuova ars dictandi, di uno stile più intimo e personale nell'uso del cursus, improntato alla presenza più forte e consapevole dell'ornatus verborum, cioè dell’apparato retorico; caratterizzato, nella compositio, dal labor limae al fine di ottenere un color, il colorismo efficace dell'apparato retorico, e un modus dicendi personale. Si tratta di un orientamento stilistico che si ispira a Cicerone, ovviamente al Cicerone più diffuso nei secoli medievali, quello del De inventione e della spuria Rhetorica ad Herennium. In questo nuovo atteggiamento retorico si lascia infine spazio al pathos: Ettore Paratore parla di "abundantia cordis" che Dante profonde nel proprio stile grazie proprio a questo particolare tipo di ciceronianismo dell'ars dictandi della generazione di Guido Fava, uno stile a cui Dante propende istintivamente, per carattere e sensibilità psicologico-stilistica [nota 3]. A proposito di questo stile e delle sue influenze su Dante, Helene Wieruszowski, che lucidamente ha indagato i rapporti tra Dante e i dictatores [nota 4]  ha parlato di "first revival of Cicero", un primo recupero del Cicerone antico in chiave medievale. Ovviamente non in senso filologico o strettamente linguistico, bensì in senso stilistico: un ciceronianismo fatto di ricerca di eleganza e, in qualche modo, di espressività. E in effetti la prosa dantesca suggerisce proprio elementi di fondo che si ricollegano alle artes e a Cicerone retore filtrato dalle artes: l’elegantia ottenuta attraverso un attento e personale uso del cursus; un ricercato delectus verborum; il ricorso insistito all'ornatus difficilis inteso come spessore e raffinatezza del velame retorico (cfr. G. Fava, Summa dictaminis 103: "Summa urbanitas…rethoricorum colorum flosculis dictamina purpurare").

torna all' indice

 

II) Il cursus in Dante.

      Strettamente legato al rapporto con le artes è il problema del cursus, ovvero l'uso delle formule ritmiche nel periodo (la composizione delle frasi collocando nella chiusa, prima delle pause sintattico-espressive, una serie di clausole particolari, fisse, costruite sulla base dell’accentazione delle parole, e che conferiscono un ritmo, una particolare musicalità all’andamento del discorso: cfr. nel dossier il punto 3, in cui è riportata la formalizzazione delle tre tipologie principali cursus planus, tardus, velox offerta nel Candelabrum di Bene da Firenze, che Dante con buona probabilità conobbe e usò. Il cursus in definitiva, insieme all'ornatus verborum, ovvero le figure retoriche, è l'argomento centrale dei capitoli dedicati allo stile nelle Summae dictaminis, poiché al ritmo nella prosa latina medievale è attribuita un’estrema importanza stilistica. Sul problema del cursus in Dante, per quanto sia stato studiato moltissimo, non è ancora stata detta l'ultima parola, come evidenzia anche Pier Vincenzo Mengaldo, che ha curato la voce nell’ Enciclopedia dantesca. Praticamente quasi solo su questo argomento si sono concentrati gli studi più analitici e specialistici sul latino dantesco, soprattutto nei primissimi decenni del '900. Mengaldo ha fatto il punto della situazione, e in definitiva si è schierato con Pio Rajna e Francesco Di Capua, che sostennero che Dante abbia utilizzato i tre tipi principali di cursus teorizzati chiaramente dai dettatori, con qualche concessione a una forma ‘minore’ di cursus, il trispondaicus, che in Bene da Firenze è assente [nota 5], mentre altri studiosi hanno identificato, secondo Mengaldo in maniera abbastanza opinabile, tutta una serie di formule ritmiche irregolari e particolari rispetto alle principali. Comunque è innegabile che l'uso del cursus, usato da Dante, come si è detto, non più in modo pedestre o come adesione obbligata alla tradizione dettatoria che lo imponeva, è più insistito laddove è richiesto un impegno stilistico maggiore, quindi ad esempio nelle sezioni prefatorie dei trattati e nei prologhi delle diverse sezioni interne ai trattati. C'è una differenza nell'incidenza del cursus sia all'interno dei singoli testi, sia da un'opera all'altra. Il dato d’altronde risulta logico: il ritmo è molto presente e sistematico, ad esempio, nelle epistole, in quanto genere di tradizione aulica, che doveva avere un tono complessivo sostenuto, più elevato, solenne e formale, e meno presente nei trattati, per così dire, 'scientifici', ovvero nel latino dialettico e argomentativi-politico della Monarchia e in quello scientifico-astronomico della Questio; mentre il De vulg.el., rispetto all'uso del cursus, si trova in qualche modo in posizione intermedia: si tratta infatti di un trattato in cui si espone un’argomentazione in modo scientifico, ma l’intrinseca letterarietà dell’opera, legata all’argomento, richiede un impegno stilistico forte, e quindi è forte l'uso del cursus; e profonda è anche l'adesione emozionale di Dante, che quindi, come prima si diceva, si realizza in uno stile ricco di pathos, in cui il ritmo gioca un ruolo importante. Laddove, anche all'interno dei singoli testi, la tensione scende e prendono piede l'argomentazione razionale e la dimostrazione sillogistica, lo stile si fa più piano e scarno, tanto nell'impiego dei colores retorici che nell'uso del cursus.
      Il rapporto con le artes prevede anche l’ ornatus che procura l'elegantia: i "flosculi rethorici", le figure retoriche, che si accentuano anch’esse nelle sedi privilegiate, nei prologhi o anche dove siano citate le auctoritates classiche o cristiane. Effettivamente è stato osservato che nella prosa dantesca l'ornatus si complica, e il dettato si fa più estroso e creativo, sempre nell'adesione alle prescrizioni delle artes, in corrispondenza di una citazione classica, scritturale o generalmente cristiana. E' da notare che ciò si verifica anche nella prosa volgare.
      Comunque, si deve sempre parlare di una "moderazione del dettato dantesco", che, pur nell'impegno all'elaborazione, soprattutto grazie a cursus e figure retoriche, nel suo complesso rimane sempre, per quanto riguarda la cifra stilistica, solidamente ancorato al particolare 'ciceronianismo' medievale già citato. Si è suggerita anche l'influenza del modello del cristianesimo classico di Agostino. Il latino dantesco non è mai "barbaramente tatuato", "barocco", per usare le espressioni con cui Eduard Norden bolla lo stile isidoriano a cui Dante aderisce [nota 6].

torna all' indice

 

III) Il rapporto di Dante con la tradizione e la lingua dei classici latini.

      Nel 1965 due grandi filologi e studiosi di cultura medievale e umanistica, Guido Martellotti e Giorgio Padoan, si interrogano in due lavori contemporanei [nota 7] sul rapporto di Dante con la classicità. Alle loro spalle era già lo studio di Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e medioevo latino (1948) [nota 8], che aveva evidenziato l'importanza della letteratura mediolatina, quindi non classica ma medievale in lingua latina, per tutte le opere di Dante, sia latine che volgari, e in primo luogo per la Commedia. I latinismi rintracciati da Curtius in Dante erano tematici, linguistici (morfologici e lessicali) e stilistici. Con Curtius si era chiarito un po' l’equivoco che aveva portato in precedenza alcuni studiosi, che comunque avevano dato un contributo sostanzioso e importante alla conoscenza delle letture e delle competenze di Dante nel campo d. latinità classica, come ad esempio Edward Moore [nota 9] o Augustin Renaude [nota 10] a ritenere che esistesse un 'umanesimo', un 'classicismo' dantesco, un classicismo in senso umanistico di recupero della letteratura latina nella sua realtà storica e linguistica. E con Curtius invece si è chiarito che il rapporto di Dante con la letteratura mediolatina è forte almeno quanto quello con la cultura classica antica, per due ordini di motivi, tra essi collegati, e riconducibili all'adesione profonda di Dante alla mentalità culturale medievale: 1) mancanza di senso storico dell’ evoluzione d. lingua, per cui per Dante il proprio latino, e quello dei suoi modelli medievali, è sullo stesso piano del latino di Virgilio e di Lucano. 2) L’assoluta e tipicamente medievale assenza in Dante di spirito filologico, che gli impedisce qualsiasi tipo di restauro del latino di tipo schiettamente umanistico. Tali restauri cominceranno con Petrarca, con le sue riflessioni linguistiche condotte nell’epistola Senile XVI 5 sulla falsità, dimostrata da Petrarca proprio per motivi linguistici, di alcune lettere attribuite a Cesare e a Nerone.
      Dunque, nel complesso, non si può parlare di umanesimo linguistico di Dante, con l'eccezione delle Egloge, la corrispondenza poetica con Giovanni del Virgilio, in cui Martellotti intravede la possibilità di individuare un'impresa più 'umanistica', nel senso di una riuscita adesione alla lingua bucolica, in quel caso grazie allo sforzo di imitazione fedele di Virgilio che Dante lì opera.
      Dante non può assolutamente essere definito 'umanista', mentre anche Curtius lamentava il fatto che la gran parte degli studiosi suoi contemporanei ritenessero che Dante avesse raffinato il proprio gusto in senso classico con un progressivo studio dell'antichità e soprattutto di Virgilio. Padoan e Martellotti, sulla scia di Curtius, sgombrano il campo da queste false opinioni e affermano:

  1.       La cultura classica di Dante è quella del suo tempo, e i poeti antichi da lui conosciuti sono quelli generalmente conosciuti nel medioevo, e nemmeno tutti. Dall’elenco dei grandi poeti dell’antichità del IV canto dell'Inferno [nota 11] vengono esclusi poeti abbastanza diffusi all’epoca, come Plauto, Terenzio e Persio (insieme a Cecilio, Vario, Euripide, Simonide, Antifonte, Agatone, per Dante solo nomi noti indirettamente), e mai citati in opere dantesche precedenti; Dante li ‘aggiungerà’, alla "bella scola" del Limbo nell’integrazione di PG. XXII, 94-108: secondo Padoan tale esclusione nel redigere la prima lista non può essere dovuta a semplice dimenticanza, ma molto più probabilmente a una vera e propria ignoranza, a cui nel Purgatorio viene posto rimedio con una citazione sentita da Dante come dovuta nei confronti di poeti famosi, ma a lui probabilmente ignoti.
          Ancora: solo mezzo secolo dopo, Benvenuto da Imola glossa lo stesso passo dell’Inferno [nota 12] con un giudizio abbastanza severo sulle letture limitate di Dante. In realtà, la biblioteca dantesca di autori classici non si rivela all'indagine molto vasta: Martellotti afferma che effettivamente non sappiamo nemmeno se avesse una sua propria biblioteca. Probabilmente molti auctores, anche piuttosto diffusi, li conobbe solo indirettamente, mentre secondo Giorgio Brugnoli Dante probabilmente non lesse né Terenzio,   né Seneca tragico [nota 13].

  2.       Padoan e Martellotti evidenziano, al di là del problema dell'effettiva consistenza delle letture di classici di Dante, la mancanza dello spirito filologico umanistico in Dante, il quale mostra di aderire alla cultura classica così come essa gli si presenta, senza quello spirito critico che animerà gli umanisti da Petrarca in poi. Gli è estraneo il desiderio di verifica delle fonti dei testi classici che conosce, e il vaglio della verità storica che sul mondo classico tali testi dovrebbero trasmettere. Chiariamo con due esempi [nota 14]:
    1) La fonte classica di PG XXXIII 49-50 sono i versi 759-60 del VII libro delle Metarmorfosidi Ovidio. Sappiamo che Dante leggeva il passo ovidiano in un codice che tramanda Naiades invece di Laiades, e solvunt invece di solverat, poiché tale variante del passo si era introdotta in un ramo della tradizione manoscritta medievale dell’opera ovidiana, per cui scambia il Laiade Edipo con le ninfe Naiadi, e non si pone il problema che la tradizione mitica non parli dell'enigma della sfinge risolto da ninfe, e non verifica niente della fonte che utilizza.
    2) Nel passo di PG. XIX [nota 15] probabilmente Dante, che non ha letto l'Odissea ma conosce la vicenda delle sirene da accenni in Seneca e Cicerone, ha probabilmente scambiato l'episodio delle sirene di Ulisse con quello della maga Circe o di Calipso, che effettivamente lo trattenne nell'isola di Ogigia.

      Comunque, nonostante queste osservazioni, che negano a Dante l'epiteto di 'umanista' vero e proprio, sia Padoan che Martellotti riconoscono l'umanesimo dantesco piuttosto nella venerazione piena di viva passionalità che Dante mostra per i poeti antichi, e nel fervore con cui sente il richiamo alla letteratura antica [nota 16]. Dante mostra una volontà piena di passione di mettersi nella scia dei poeti latini, di "farsi sesto tra cotanto senno". E se nei suoi interessi e nei suoi esiti il suo contatto col mondo classico non si può includere nella nuova sensibilità umanistica emergente già ai suoi tempi, rappresentata dal cenacolo patavino di personaggi come Albertino Mussato o Lovato Lovati, -i protoumanisti padovani contemporanei di Dante-, è indubbio che egli mostra una capacità di penetrazione nei poeti e nel mondo classico, un acume con cui coglie il nocciolo della storia e del mito classici che lo elevano, per questo aspetto, anche al di sopra dei protoumanisti. Martellotti parla di "genialità" di Dante sotto questo profilo, e lo accosta a Shakespeare: Dante arriva al mondo classico per vie diverse da quelle della ricerca filologica dei protoumanisti, ci arriva con la forza dell'intuizione letteraria e storica. E dunque anche Padoan definisce "bizantino" discutere se Dante si possa definire o meno "umanista". Tanto meno, quindi, si può parlare di un classicismo di Dante nell’uso della lingua latina, che a ogni tipo di analisi si conferma come pienamente medievale.

torna all' indice

 

IV) Il primo capitolo della principale opera latina dantesca, il De vulgari eloquentia: qualche fenomeno significativo.

      Ritmo: Uso insistito del cursus, richiesto dalle esigenze della dignitas. Dante già nel primo capitolo utilizza tutti i quattro principali tipi di cursus raccomandati dalle poetiche e dalle artes dictandi; cursus planus: inveniàmus tractàsse; natùra permìctit; potiòra miscèntes; doctrinàmur in ìlla; cursus tardus: ìpsa perfrùitur; cursus velox: necessàriam videàmus; pòculum aurièntes; cursus trispondaicus: pàrvuli nitàntur (irreg.); opòrtet non-probàre.
      Il capitolo iniziale è elaboratissimo, caratterizzato anche, rispetto ai proemi di Monarchia, Epistola XIII a Cangrande e Quaestio, da una più alta concentrazione di topoi retorici d'esordio e da più elevata sontuosità stilistica: le chiuse dei 7 periodi sono tutte regolari, con prevalenza di velox (4 casi contro 2 di pl. E 1 di td.). Comunque, anche nelle pause interne e minori la tessitura del ritmo è ben definita: §1: "inveniàmus tractàsse" (pl.), necessàriam videàmus (vl), et pàrvuli nitàntur" (irreg. o trispondaicus), natùra permìctit (pl), aliquàliter lucidàre (vl.), àmbulant per plàteas (vl), posteriòra putàntes (pl), aspirànte de cèlis (pl), e così via. Per ottenere questo andamento ritmico così serrato, vengono adottati sistematici espedienti: "harum quoque duarum nobìlior est vulgàris" (vl ottenuto con inversione); "tum quia prima fuit humano gèneri usitata" (vl ottenuto con perifrasi, inversione, separazione del participio dall'ausiliare); "tum quia totus orbis ìpsa perfrùitur" (e non "fruitur", tardus con adozione del vb. composto per ottenere il cursus td); "licet in diversas prolationes et vocàbula sit divisa" (vl con inversione); "tum quia naturàlis est nòbis" (planus ancora ottenuto con l’inversione); "cum illa potius artificiàlis exìstat" (e non "sit": l’uso di "esisto" per "sum", regolare nel latino medievale, è qui probabilmente preferito per creare il cursus planus).

      Stile sintattico-struttura: Nei testi medievali, come già in quelli antichi, il proemio è una sede privilegiata, programmatica, in cui si enfatizza la solennità e aumenta l'impegno stilistico. Da qui il tono accademico, sentenzioso e solenne. Nelle sezioni introduttive dei testi medievali vengono solitamente adottati alcuni precisi schemi e topoi di struttura, tra i quali notiamo, a § 1, il topos del primus ego presente già nei testi classici Orazio e tutta la poesia augustea. Inoltre, il paragrafo introduttivo è organizzato sugli elementa narrationis stabiliti dalla retorica antica e medievale; Dante struttura il proemio rispondendo subito alle domande: quis, cur, cui, quid, quomodo. Il primo periodo è molto lungo e articolato, ad ottenere questo tono solenne di esordio; si segue un principium artificiale di lunghezza e complessità. In effetti in questo capitolo iniziale notiamo nello stile l'alternarsi di principium artificiale, che comporta lunghezza e complessità, a un principium naturale, improntato a brevità e semplicità. I primi due lunghi periodi "cum neminem-ydromellum", "Sed quia-accipimus", articolati, solenni, ritmati, sono seguiti dalla breve e semplice frase "Est et inde-vocaverunt", e in seguito da altri periodi più brevi e meno complessi. E si tratta di un preciso artificio stilistico raccomandato dalle poetiche, in questo caso la Poetria di Giovanni di Garlandia. Anche all'interno dei periodi più difficili, la struttura è volutamente complessa; in "sed quia-accipimus", abbiamo un andamento piramidale: la principale "dicimus" è al centro, preceduta e seguita da una serie di subordinate.

      Grafia: Notiamo alcuni dei fenomeni tipici della grafia medievale: 1) assenza dei dittonghi (§ 1: eloquentie, ceci, ecc.); 2) nesso ct al posto di t o tt (§ 1: permictit; § 2: actendentes); 3) Regola di Prisciano, che dettava "ante c,d,t,q,f non est scribenda m sed n" (§ 1: tanquam; plerunque; § 2: oscillazione nell'uso in unamquanque. 4) Uso scorretto dell'h (§ 2: aurientes per haurientes).

      Morfologia: Facciamo solo due osservazioni, a § 4, per "fuit ..usitata": anzitutto qui il verbo "usitor" classico, - raro frequentativo di "utor", e quindi già ricercato sotto il profilo lessicale -, deponente della prima coniugazione, è slittato nella diatesi attiva, è diventato dunque "usito" e può essere impiegato, come qui, in forma passiva; inoltre, l'ausiliare del perfetto passivo è "fuit" e non "est" come da regola classica.

      Lessico: Il lessico dantesco è per lo più di origine 'culturale'. La base è quella del lessico della tarda latinità (autore abbastanza presente è Tertulliano), e in particolare del latino patristico e scritturale. Inoltre, in esso presenziano molti termini di uso esclusivamente medievale, frequentemente tratti dallle Derivationes magnae di Uguccione di Pisa, vocabolario latino medievale da cui Dante recupera moltissimi termini. E un altro strumento a cui ricorre è il Graecismus di Eberardo di Béthune, un manuale di retorica in cui Dante trovava anche molti vocaboli di origine greca Il De vulgari eloquentia ha, rispetto alle altre opere dantesche, uno statuto particolare per l'uso del lessico, perché in esso la terminologia è estremamente sperimentale, vi è concentrata la grandissima parte dei termini rari, preziosi; gli hapax, i presunti neologismi. E Dante oltretutto utilizza questi termini rari solo una o due volte, per cui in quest’opera troviamo un bagaglio lessicale molto vario.
      Nel lessico latino dantesco si coglie con ancora maggiore evidenza il "manierismo" che caratterizza la retorica medievale: esso infatti è estremamente aperto all’anarchia e allo sperimentalismo, carattere, come è noto, peculiare anche del lessico del Dante volgare. Totale è l’apertura all’innovazione e all’arricchimento illimitato, tramite il meccanismo del neologismo e dell’adozione di termini rari, preziosi o di conio medievale, anche qui in linea con i dettami dello stile isidoriano raccomandato dalle poetiche e dalle artes, per il quale il delectus verborum e la variatio lessicale exornationis causa sono criteri indispensabili alla dignitas. Dante attinge dalle Derivationes magnae di Uguccione, il suo vocabolario latino d’elezione, una amplissima serie di vocaboli estranei al latino antico; si vedano ad esempio quelli da me selezionati all’elenco al punto 1 b del dossier e che ricorrono in De vulg. El. I 1: lucidare, sinonimo di "illustrare" che Uguccione glossa "lucidum facere", e sulla cui genesi può aver influito anche la voce italiana "lucidare"; potionare, che significa "miscere potionem", "filtrare", e qui ha per oggetto ydromellum, che è l’idromele, ed è oltretutto un grecismo, ovvero l’adattamento latino del greco udromeli, "aqua mellita mixta cum melle" secondo una chiosa al Grecismus, il quale anche attesta questa voce: i due termini sono associati nell’espressione "dulcissimum potionare ydromellum", una metafora per la scrittura letteraria di intento filosofico ed edificante del De vulg. eloq; ancora, sempre al punto 1 b, nell’aggettivo rusticanus di DVE I XI 6, vediamo un volgarismo di origine uguccioniana che vuol dire "campagnolo", ed è riferito alla loquela volgare di campagna; mentre l’aggettivo montaninus, anch’esso un volgarismo, usato nello stesso contesto e riferito alle parlate volgari montanare, è un neologismo di attestazione medievale. Nel lessico infatti è ben visibile l’influsso volgare: esaminiamo i volgarismi del De vulg. El. , di cui ho incluso nel dossier qualche esempio interessante (1 d), in particolare alcuni calchi di termini tecnici propri del gergo della lirica volgare, come pes, il "piede" metrico del verso, thonus, ovvero il "tono", la "modulazione melodica del canto", e nota, che è la nota musicale. Del resto, come ho accennato, l’interferenza latino-volgare nel medioevo è a doppio senso: già Curtius aveva schedato gli evidenti latinismi linguistici dell’italiano di Dante, tra cui, ancora a 1 c, cito materiato, di Conv. I 1 14, un calco sull’aggettivo materiatus, estraneo all’uso antico e attestato in Matteo di Vendôme, denominale dal termine classico "materia"; e, inoltre, il sostantivo tegni, che significa "arti" (lt. "artes"), nel quale latino, greco e volgare si incrociano e sovrappongono: si tratta infatti di un calco italiano sulla forma latina medievale analoga tegni, presente in Giovanni di Garlandia. Il termine, che entra parallelamente nel latino e nel volgare, è un grecismo, un recupero del greco te‰cnh, tramite, come spesso accade in area medievale, un calco approssimativo. Un falso grecismo diffuso nell’uso medievale e in Dante per il tramite di Uguccione è anche l’aggettivo mediastinus di De vulg. El. I XI 6: termine oraziano (usato in Ep. I, 14, 14), significa originariamente "servo", ma viene reinterpretato da Uguccione, che mostra una vera mania per le etimologie grecizzanti, e alterato come derivante da "medius" e asti", cioè "in medio civitatis existens".

      Ornatus: §1, figura fonica dell'omoteleuto associato ad una sorta di accumulazione, con questa coppia di gerundi di verbi praticamente sinonimi "accipiendo vel compilando", che tra l'altro insieme costruiscono una clausula velox; "Potiora…potionare…possimus": potionare è in paronomasia con potiora e allitterante con possimus". La metafora dell'acqua dell’ingegno, che si protrae per tutta l'ultima parte del periodo ("aquam-poculum-aurientes-potionare-ydromellum") è un traslato usatissimo nel campo della trattatistica e di illustre e diffusissima tradizione dettatoria (è di stampo biblico: Iohann, 4, 15).

      Fonti: Come si è detto, l'intellettuale medievale nella fase 'imitativa' della composizione di un testo, in cui si pone sulla scia di una tradizione, tiene presenti due aspetti: i dettami della scuola e delle poetiche, cioè dei manuali di scrittura medievali, e d'altro lato gli auctores, ovvero le fonti antiche e cristiane. Ovviamente, viene accostato il modo antico e pagano a quello cristiano, per cui si evince solitamente una mescidanza delle fonti. Qui, a §1, troviamo una fonte classica, anche se tardoantica (VI sec.), rappresentata dall'incipit di una grammatica molto diffusa nel Medioevo, le Institutiones di Prisciano, personaggio che tra l'altro Dante mette anche nell'Inferno; e subito dopo, una fonte cristiana, precisamente biblica: l'immagine topica degli ignoranti, paragonati ai ciechi che vagano a vuoto, ha la sua sorgente primaria, qui allusa secondo il procedimento di ripresa musivo e allusivo della fonte adottato dalla scuola medievale, nella IV lamentazione di Geremia: "erraverunt ceci in plateis". Questa similitudine era adottata come topica anche dai testi retorici e dettatorii .

      Avviandomi a concludere, sottolineo in questo primo capitolo anche l’ influenza del sillogizzante latino scolastico, influenza che si fa più evidente, non appena si passa al secondo capitolo dell’opera e comincia l'esposizione dottrinale, e ancora di più si fa sentire nei capitoli più tecnici del II libro. Ovviamente con il gusto retorico e letterario dell'ars dictaminis si incrocia la lingua tecnica della scolastica, che già nel XII sec. si era trasformata in una lingua dall'andamento sillogistico, argomentativo: una lingua più astratta e tecnica, di tono ragionativo e in cui la concatenazione delle idee è logica. In DVE si tende a combinare l'elaborazione retorica col modulo scolastico. C'è coesistenza tra stile dettatorio-retorico e formulismo scolastico, la quale ovviamente poi in Mn e Que si risolve a favore del secondo. Ma anche in questo capitolo iniziale di Dve si percepisce il modello del trattato scolastico: si imposta il problema attraverso tutta una serie di affermazioni ed espressioni che lo definiscono, e si arriva poi a una conclusione e a una illustrazione della conclusione. E questa struttura spesso assume in Dante anche una realizzazione di tipo ipotetico, con protasi e apodosi nelle quali sono contenuti i termini delle argomentazioni.

torna all' indice

 

Bibliografia

- E. R. Curtius, Letteratura europea e medioevo latino, (Bern, A. Francke Verlag, 1948), prima ed. it. a c. di R. Antonelli, Firenze, La Nuova Italia, 1992, pp. 390-419 (cap. XVII, Dante)

- G. Martellotti, Dante e i classici, in "Cultura e scuola" IV nn. 13-14 (1965), pp. 125-37.

- G. Padoan, Dante di fronte all’umanesimo letterario, in "Lettere italiane" XVII (1965), pp. 237-57.

- E. Paratore, Il latino di Dante, in "Cultura e scuola" IV nn. 13-14 (1965), pp. 94-124

- P. V. Mengaldo, Cursus, in Enciclopedia Dantesca, vol. II, 1970, pp. 290-95.

- Id., commento a De vulgari eloquentia, ed. a c. di P. V. Mengaldo, in Dante Alighieri, Opere minori, vol. III, t. I, Milano-Napoli, Ricciardi, 1996.

- G. Brugnoli, La lingua latina, s. v. latino, in Enciclopedia dantesca, vol. III, 1971, pp. 591-99

- A. Vallone, Il latino di Dante, in Storia letteraria d’Italia, Milano, Vallardi, 1971, cap. XI, pp. 439-89

torna all' indice

 

Note al testo

  1. P. V. Mengaldo, Dante, il De Vulgari eloquentia e la formazione della lingua italiana, I Lectura Dantis del Centro Scaligero di Studi Danteschi di Verona per l’A. A. 2002-2003, Verona, Biblioteca Capitolare, 7 novembre 2002. [torna al testo]

  2. A. Vallone, Il latino di Dante, in Storia letteraria d’Italia, Milano, Vallardi, 1971, cap. XI, pp. 439-89 (cfr. per la citaz. p. 489). [torna al testo]

  3. E. Paratore, Il latino di Dante, in “Cultura e scuola” IV  nn. 13-14 (1965), pp. 94-124 (in part. p. 111). [torna al testo]

  4. H. Wieruszowski, «Ars dictaminis» in the Time of Dante, in "Mediaevalia et Humanistica" I (1943), pp. 95-108. [torna al testo]

  5. I vari tipi di cursus ricorrono in Dante, in generale, nell’ordine di frequenza registrata nel dossier al punto 3. [torna al testo]

  6. Per un profilo delle correnti dominanti nella prosa latina medievale si veda il capitale studio di E. Norden, la prosa d’arte antica dal VI sec. A. C. all’età della rinascenza, Stuttgart, Teubner, 1898-1915, ed. it. a c. di B. Heinemann Campana, Roma, Salerno Editrice, 1986, in part. le pp. 752—66 (cap. I, Lo stile della prosa latina nel medioevo) del tomo II. [torna al testo]

  7. G. Martellotti, Dante e i classici, in “Cultura e scuola”  IV  nn. 13-14 (1965), pp. 125-37; G. Padoan, Dante di fronte all’umanesimo letterario, in “Lettere  italiane”  XVII (1965), pp. 237-57. [torna al testo]

  8. Prima ed. it. a c. di R. Antonelli, Firenze, La Nuova Italia, 1992. [torna al testo]

  9. Studies in Dante, I, Oxford, 1896. [torna al testo]

  10. A. Renaudet, Dante humaniste, Paris, Les Belles Lettres,1952. [torna al testo]

  11. Cfr. il dossier, al punto 2. Dante e i classici. [torna al testo]

  12. Cfr. ancora il dossier al punto 2. [torna al testo]

  13. G. Brugnoli, La lingua latina, s. v. latino, in Enciclopedia dantesca, vol. III, 1971, pp. 591-99 (in part. p. 598). [torna al testo]

  14. Cfr. dossier, 2. [torna al testo]

  15. Cfr. dossier, 2. [torna al testo]

  16. Padoan, p. 246: "Il profondo rispetto, la calda devozione, il vivo amore di Dante  per il mondo classico". [torna al testo]

torna ad inizio pagina


torna all' indice