Il Libello contro Lord Bentink di Pasquale Maria Benza

Trascrizione di alcune pagine del 1° Libro della VITA. Il testo, inedito, è del 1837/1838. Le note e le indicazioni tra parentesi quadra sono del trascrittore.

[Fine pag.238]  “… Lasciando lo Spedale Grande [pag.240] andai ad abitare nella spaziosa casa del Li Pomi. Oltre la paga di trenta scudi al mese (pagati ogni due mesi posticipati) io mi avea la ragione consistente in un pane al giorno, una libbra di carne, mezza pinta di rum, ch’io mettea in comune col vitto del Li Pomi. [pag.239] Fu in questo tempo ch’io dimorava con Li Pomi, che un evento passossi e una delle più grandi sciagure piombò ingiustamente sul capo di questo industriosissimo ed abile incisore. Era questo il periodo il più critico per la Sicilia, quando occupata dagli inglesi e la Corte trovavasi rifuggiata in Palermo. Questo avvenimento che vado a raccontare forse non è noto che a pochi degli amici del Li Pomi; ed io voglio raccontarlo per mostrare come amministravansi le cose pubbliche in questa avventurosa epoca in Sicilia. [È] noto a tutta Europa, che sebbene il Re e tutta la famiglia e Corte eransi ritirati in Palermo, il Lord Bentink, Generale in Capo delle Truppe inglesi stanziate in Sicilia regolava il tutto, a segno di forzare una Costituzione simile alla inglesa, quantunque la Regina principalmente, col Re fossero inveterati nemici anche del nome di questa maniera di governo. Ed in conseguenza di ciò, il Re adiratissimo, non solamente per questo innovamento nella casa sua, ma perché avendo voluto a persuasione ed insinuazione della Regina di metter la tassa della carta bollata[1], il Consiglio Privato composto di quattro Principi, Belmonte, Villermosa e due altri ch’io adesso non mi rigordo  [pag.244]si opposero vivamente a questa imposizione che avea prodotto la rivoluzione dell’America contro l’Inghilterra, e quell’ancora della Francia. Dicasi ancora che il presente Re di Francia, allora in Palermo[2], Duca d’Orleans, e sposato alla presente Regina, figlia del Re di Napoli, si prendesse la libertà di sottomettere al suo Suocero e Suocera la sua opinione sul proposito, ciò che avrebbe prodotto una rovina inevitabile alla regal famiglia. A questo intrusione di consigli, la Regina infuriatasi mandò il genero alla Bagaria[3], [e ] nella stessa notte mandò in esilio i quattro Consiglieri Principi nelle diverse isolette attorno la Sicilia. Lascio di parlare di ciò che seguì alla famiglia Reale. Dirò solamente che gli esuli furono richiamati; un Parlamento di tre Camere fu stabilito; la Regina fu mandata a Santa Margherita, e da lì a Costantinopoli. In quel Parlamento il Bentink proponea per mezzo de’ suoi partiggiani [pag.246] che la prima cosa da portar davanti la Camera de Comuni fosse il Bill delle Finanze, giacché abbisognavan danari per le truppe Siciliane fino allora pagati dagli imprestiti degli Inglesi. Giustamente i comuni dimandavano i conti delle somme votata l’anno passato, e poi voterebbero quelle presente. Non saprei dire perché ragione questi benedetti conti non spuntavano mai, e quindi il Comitato de’ Comuni per le finanze non voleva votar nullamente per i sussidi di quest’anno.

Dal racconto fattomi da un intimo amico mio, il Barone di Benintendi, 10 anni dopo che gli inglesi lasciarono la Sicilia ed io era ritornato a S. Caterina in permesso da Corfù per rivedere i miei parenti, che io fui a Caltanissetta per rivedere il Benintendo ed essendo stato uno dei membri del Comitato per le finanze contommi quanto segue.[pag.255] Un giorno durante la sessione del Parlamento nel 1811 i membri del Comitato per le Finanze in Palermo, adunatesi, votarono unanimente [sic] che si rappresenti a S. E. Lord Bentink che i Comuni era venuti alla risoluzion ch’eglino non voteranno le Finanze per presente anno se prima non avesse un conto esatto dell’anno passato per guidarli nella votazione per il presente se le tasse debbansi accrescersi o diminuirsi. E parea che Milord Bentink era arrabiatissimo, perché ci dicea al Comitato che era loro dovere di votare il sussidio per truppe siciliane, che per mancanza de’ pecunia nel tesoro del Governo loro, era l’Inghilterra obbligato dare ad imprestito al Re di Sicilia per pagare i suoi soldati. Questo ragionamento molto plausibile, ma i membri de’ Comuni erano pervicaci in questo punto. Laonde Lord Bentink mandò a chiamar il Comitato nel suo palazzo e lagnandosi colla negligenza ed opposizione de’ Rappresentanti de’ Comuni, rimproverandoli fortemente ed in tale parossismo di rabbia che essendo tutti all’impiedi, il Milord batteva colla punta del fodero della spada sullo spazzo della camera ove ricevette il Comitato. Così trattava il Comandante in Capo delle Truppe Inglesi in Sicilia ! in quegli anni avventurosi ![pag.267] Il domani di buon mattino nel mese di Novembre vedo venire verso il mio letto il Li Pomi, divenuto stampatore, con una carta in mano porgendomela affinché la legga attentamente e che gli dia la mia opinione. Io lessi questa lettera con somma attenzione. Contenea questa una diatriba contro Lord William Bentink, nelli seguenti termini: che egli non ardisse a [trattare] i Membri del “Parlamento Siciliano come egli operò verso gl’indiani, nel “tempo quando ch’era Governadore di Madras e che quelli “tengon gli occhi aperti per la riunione di questa sera, e che egli “non ardisse di dettar tutto, che le Camere sole hanno a decidere “e fare e sono ad essere contrari a tutto che non è consonante a “loro decisioni” e d’altre invettive di simil sorte. Quando alla mattina del seguente giorno Li Pomi ritornò da me per udire la mia opinione che i Siciliani non son sì sciocchi e balordi che leggendo queste invettive, abuse e minaccie e calunnie contro il Nobile Uomo, che […] che ave liberato la Sicilia dalla tirannia Borbonica [Da notare che nella medesima frase cassata a pagina 248 scrive: “..come un insulto alla nobile persona che avea salvato l’Isola dalla tirannia de’ francesi]. E che tutti in un corpo disdegnerebbero un tale affron[to]. Aggiungete, che Milord non soffrirebbe questo così villanamente trattato in una pubblicazione uscita dai vostri torchi abbia sparsi siffatta infamia non solamente per lui m’anche il Governo Inglese. E io osservo questa diatriba anonima [pag.248] e se sarete chiamato ne’ tribunali competenti dovete prendere su di voi la responsabilità. Egli mi riprese ch’era il Marchese de Gregorio l’autore. Ed io ripresi che se così è il […] è prudenza di farlo firmare dal Marchese se qualcosa succede egli sarà fuor dalle spine allora che saravvi la firma dello scrittore di essa. Egli circa la firma prese il mio amichevole consiglio ed avendolo portato l’originale al Marchese, costui non esitò in ciò fare ed essendosene stampate 500 copie le persone s’affollavano per averne una copia. Bisognò lo stampatore ristampare mille altri esemplari che tutti si vendettero nel corso del giorno. Questa diatriba arrivò agli orecchi di Lord Bentink, che lettala diventò una furia; nella sera mandò a chiamare con un Sergente il Lipomi, il quale intrepidamente rispose a costui che aspetti pochi minuti e lo raggiugebbasi. E lasciato il militare nella sala, venne da me per consultarmi. Io avea già anticipato [pag.250] tutto questo e non potei che compiangere la sua sfortuna e che la meglio cosa era quella di non induggiar e andar subito. Ei mi disse che già andava e che era deciso di non scoprire a lui, ma alli maestrati competenti, l’autore della lettera. Arrivato in presenza di Lord B: lo trovò in tutta la furia immaginabile e con una voce di stentore gli dimandò: se foss’egli Vincenzo Li Pomi e se quel foglio (e gliene presentò una copia) fu stampato nella sua Tipografia. A ciò Lipomi francamente rispose nell’affermativa; Soggiunse il Lord B: chi ne era l’autore; e il Lipomi colla stessa presenza di spirito replicò ch’ei non era obbligato a svelare i nomi di coloro che stampavan libri nella sua Bottega, e che erano desiderosi di non aggiungere il loro nome, a chiunque volesse saperlo, ma che quando chiamato davanti il tribunale competente egli sarebbe pronto a manifestarlo. Dopo di avergli dato un’invettiva delle più sollenni gli die’ congedo. Ritornato povero Lipomi in casa, era in un esterma agitazione di spirito. Ed io mi sforzai di consolarlo, dicendogli che se la competente autorità lo catechizzasse, non esiti di manifestare il nome, giacché tutta la città ne sa già il nome. [pag.252] Tutto il giorno passò in angustie e la Città era in un fermento che annunziava i sentimenti che il popolo avea del dispotismo del Lord B:. Alla mezzanotte seguente mentre che chiaccheravamo intorno all’avvenuto, intesimo sonare il campanello della Porta che essendo stata aperta dal servo entrò uno sbirro con un’ordine per Lipomi al quale il Presidente del Tribunale ordinava che venisse alla sua presenza. Naturalmente tutti due restammo estatici, e non potendosi far altrimente, egi prese il cappello con grande indifferenza, e stava per partire. La moglie pregavami, che gli facessi compagnia, per sapere il risultato di questo brutto affare. Presomi il braccio, Lipomi, ed io, ci incamminammo verso la casa del Presidente, in perfetto silenzio lo sbirro seguendoci da vicino. Arrivati ci si condusse in una immensa camera con un picciolo lumiccino (era già mezzanotte) che appena illuminava l’angolo di questa vasta stanza ove era questo. E lo sbirro lasciatici ambo a sedere in due enormi sedie, andò per annunciare al padrone, che lo stampatore era arrivato. Per cui fu fatto entrare per essere esaminato, lo sbirro intimando me di restar ov’io ero. Passò non più di un’ora che Li pomi ritornò e presomi pel braccio mi raccontava [pag.254] ciò che il Presidente avea dimandato, e ciò ch’egli avea risposto. Ed era questo interlocutorio come siegue in ciò che riguarda la sostanza della cosa. Come vi chiamate? – Vincenzo Lipomi. – Che arte esercitate? – Stampatore – Avete ultimamente stampato questo foglio? (presentagli la diatriba) – Signor si – Chi è l’Autore di esso? – Il Marchese di Gregorio. – Avete voi l’originale? Signor si firmato da lui. - Potete mostrarmelo? - Signor si, ma non adesso giacché l’ho infilzato cogli altri originali; e molte altre dimande ch’ei pare che, come disse Lipomi, abbia soddisfatto il Giudice. Pur non di meno, fintanto che non produce l’originale della lettera debba andar in una stanza nella Vicaria (prigione). Ed essendo tutti due in estremo dolore ed angoscia, io lo accompagnai fino al Portone di questo orrido soggiorno de’ vizi e delitti di tutta parte. [ la parte che segue è stata “corretta”, sempre in interlinea, dall’autore. La riporto perché descrive il metodo del “deposito volante” nel carcere della Vicaria di Palermo]

[I°versione] Lo  sbirro che eraci dietro diede ordine al carceriere e voltò le spalle; il Custode avendomi detto che portassi al prigioniero il vitto giornaliero ed anco un’altra muta di vestiti giacché quelli doveano farsi in batuffolo e sospeso nella camera ove sono tutti i vestiti de’ prigionieri all’entrar che fanno nel carcere.

[II°versione] Lo sbirro il quale seguivaci arrivato che fu alla ingente Porta della Vicaria sempre spalancata per [ingoire] vizi ed errori e delitti ed assassini, ma altre volte come li presenti contro l’innocenza e la virtù. Quella porta minore che chiusa [con] toppa, sta pochi passi al diddentro, fu aperta scricchiolando [pag.253] sui cardini, ricevette l’innocente e smemorato Li Pomi che entrò con tutta decenza che suggeriva la sua netta e sincera coscienza. Io rimaneva al di fuori e il Carceriere dissemi che essendo ch’io era amico del [pag.257] prigioniero dicessi alla sua famiglia che mandassero alla Vicaria un nuovo vestito, o muta di esso, giacché il presente ch’egli veste deve essere depositato nel magazzino, con tutti gli altri che trovansi qui confinati. Ancora, che la sua famiglia s’incarichi a

[fine II° versione] supplirlo col suo vitto. [pag. 254] Ora immaginatevi un povero artiggiano che vivea colla sua arte, con una [pag. 256] numerosa famiglia, essere strappato a mezza notte da essa, e gettato in una prigione oscura senza aver delitto alcuno. Prima d’entrare Li Pomi incaricommi di dire a sua moglie che facci fare tutte le ricerche possibili per trovare l’originale del foglio stampato pochi giorni sono. Io mi ritirai in casa con mille pensierei, and [ sic in inglese] angustie, per questo agir precipitato del Lord B. e del Giudice. Partecipai ciò alla moglie, che trovai versando amare lacrime profuse, specialmente quando vide arrivar me senza suo marito. E impossibile descrivere il duolo e l’ambascia d’una affezionata moglie che è informata che il marito è stato condotto nella prigione della Vicaria. Ciò nullameno, fattole coraggio, essa rassicurossi con sapere certamente che suo marito non avea delitti. Specialmente quand’io l’assicurai che subito che presenterà l’originale, tutto sarà finito. Imperciocché il delitto (se ne fosse alcuno nella scrittura) cadea sopra il Nobile Sig. che la scrisse e firmandola la stampò. Il demane cominciossi la ricerca fra gli originali e non fu possibile di trovarsi quello della diatriba. E fu allora che la misera donna cadde in isvenimento; tutti le persone impiegati nella stamperia assicurarono che D. Vinecenzo se l’avea preso. Dopo molti giorni di frugar tutta la casa e libri e carta ed altro, [pag.258] e non trovandosi si sospettò che il Marchese abbia impiegato persona per involare dalla Stamperia questa diatriba che per allora fece in quel tempo tanto chiasso e che non potendosi trovar l’originale il Li Pomi rimarrà imprigionato fino trovasi il corpo del delitto. Ma questo sospetto era falso giacché il Marchese venne dalla povera sconsolata moglie assicurandola, che giacché suo marito avea detto alla autorità competente come è obbligato dalla legge, il nome dell’Autore, io sarò certamente chiamato e dichiarerò che è mia composizione. Laonde gitosene in casa trovò ordine del Giudice e citazione che si portasse da lui. Pare che avendo subito il solito interrogatorio fu sentenziato a qualche anno di esilio in una delle isole vicino la Sicilia Il povero Li Pomi stette più di due mesi in Carcere, senza poter essere udito ed a tutti i suoi Memoriali rispondeano col dimandar l’originale della diatriba. Finalmente [c]ridendo che qualcuno davvero l’avea tolta via, lo liberonno di prigione. E dovendogli restituire il fagotto con gli abiti che erano stati depositati nel magazzino della Vicaria ritornammo tutti contenti in casa. Svolgendo l’inviluppo frugando nelle tasche de’ vestiti dove eranvi il fazzoletto e qualche altra bagattella – Quando veh! Che in una delle tasche eravi l’originale della lettera del Marchese! Figuratevi se non [pag.260] restammo tutti sbalorditi; quasi tre mesi di prigione per una scrittura ch’era anche essa prigioniera. Dopo la meraviglia successe in noi il gaudio e il riso da sganasciarsi per l’avventura.”

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[1] La tassa è imposta il 14 feb. 1811 meglio nota come “dazio dell’uno per cento” su tutti i pagamenti.

[2] Il duca d’Orleans futuro Re Luigi Filippo di Francia (1830-1848) aveva sposato una figlia di Ferdinando ed era, quindi, divenuto barone parlamentare, vicino alle posizioni di Belmonte.

[3] Il genero ovvero il duca d’Orleans.