GLI USI CIVICI

Introduzione

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Le scritture di cui qui presentiamo l’inventario comprendono gli anni che vanno dal 1927 al 1977 e costituiscono ciò che rimane della liquidazione degli usi civici tra le carte dell’Archivio storico del Comune in epoca contemporanea.

Con la legge del 16 giugno 1927[1] e relativo regolamento del 1928 il legislatore volle definitivamente disciplinare e chiudere l’antica, altalenante e contraddittoria questione degli usi civici e dei demani comunali.

Questione non da poco che rappresenta l’esito finale di quel lungo processo di usurpazione delle terre comuni che, tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo, costituì il passaggio dalla costituzione feudale del suolo alla moderna proprietà privata della terra e, quindi, dal regime feudale a quello capitalistico borghese.

Ci sembra utile qui ripercorrere le tappe salienti della legislazione che condurrà alla legge del 1927.

 

La prammatica del 1787

 

I beni demaniali dei comuni erano divenuti alienabili con la “prammatica” del viceré Caracciolo del 1787[2] che introduceva, di fatto, la loro privatizzazione.

Demani erano considerati quei fondi aperti, comunali, feudali o ecclesiastici, sui quali i cittadini esercitavano usi civici.

Usi civici erano quei diritti di godimento spettanti alla comunità su terre comuni o di privati. Erano usi civici il libero pascolo, l’abbeverare, il pescare, raccogliere legna, ghiande e frutti, seminare, ecc. [3]

Tali diritti rappresentavano ciò che rimaneva dell’originaria comunanza d’uso della terra e delle acque[4].

I demani comunali, quindi non essendo destinati a produrre rendita, non essendo cioè assimilabili ai beni patrimoniali che, di regola, erano dati in affitto o messi a censo, erano destinati al godimento personale dei cittadini e perciò, secondo l’antico diritto, inalienabili ed imprescrittibili.

A minare l’inalienabilità e l’imprescrittibilità degli usi civici saranno le trasformazioni economiche che a partire dal XVI secolo stravolgeranno le consuetudini e, poi, gli assetti proprietari della terra finendo col restringere gli usi imprescrittibili a quelli “essenziali per la vita[5] ed in tempi più recenti a liquidarli definitivamente in nome di quel “sistema di emancipazione della proprietà” di cui parla Astengo nella sua illustrazione della legge amministrativa del 1865[6].

 

La costituzione del 1812

 

La costituzione del 1812 aboliva formalmente il feudalesimo trasformando i nobili feudatari in proprietari allodiali, sgravandoli per di più da tutti gli oneri precedentemente legati alle concessioni reali delle terre. Essa sopprimeva nel medesimo tempo gli usi civici sui fondi baronali ed imponeva lo scioglimento delle promiscuità.

La questione demaniale era aperta ma ancora complessivamente irrisolta, se non per la parte che riguardava i vantaggiosi nuovi diritti dei baroni. Restava sulla carta tutto quanto concerneva le reintegre e la quotizzazione dei demani usurpati.

La reintegra era un’azione possessoria tesa a reintegrare il Comune nel primitivo possesso di un fondo provatamente demaniale. La quotizzazione costituiva l’operazione finale della divisione dei demani che, appunto, dovevano essere ripartiti in quote tra i cittadini.

La divisione restava, quindi, un miraggio e così lo scioglimento delle promiscuità ovvero l’attribuzione in piena proprietà a ciascuno dei possessori di una parte di un fondo promiscuo, cioè goduto in condominio.

Ancora nel 1833 Leopoldo luogotenente di Sicilia scriveva al fratello Re Ferdinando II: “…in tutto il tempo della mia luogotenenza per quanti ordini io abbia dati, non sono riuscito a vedere terminate le cause dello scioglimento dei diritti promiscui fra gli ex baroni ed i comuni…[7]

Le lotte politiche tra baroni e potere centrale, tra classi egemoni siciliane e napoletane e ancora tra classi egemoni (baroni e borghesi divenuti proprietari fondiari) e contadini, si snodano tra faide, tumulti e rivoluzioni testimoniando, spesso col sangue, il tenore delle contraddizioni aperte dalla questione demaniale.

 

L’introduzione della legge del 1816 e le istruzioni del 1841

 

Il susseguirsi di leggi e regolamenti per la divisione dei demani e lo scioglimento dei diritti promiscui non servirono a rendere più rapido il processo di trasformazione della proprietà del suolo.

Nel 1838 è estesa alla Sicilia la legge dell’12 dicembre 1816 che rimette in moto le operazioni di scioglimento dei diritti promiscui e la divisione dei demani (articoli 180-192) conferendo agli intendenti i poteri delle disciolte commissioni (articolo 177).

Le istruzioni dell’11 dicembre 1841, una sorta di summa di quanto fino ad allora prodotto in materia di scioglimento di promiscuità e divisione dei demani, disciplinano le varie operazioni dividendo il lavoro degli intendenti in tre classi: la prima relativa alle divisioni non ancora ultimate perché impugnate; la seconda per quelle già cominciate ma rimaste in sospeso e la terza per le divisioni ancora da intraprendere o appena iniziate. Per la compensazione degli usi civici e lo scioglimento delle promiscuità le istruzioni del 1841 introducono la prova del possesso[8] che sarà uno dei motivi formali delle pressoché totali sconfitte dei comuni nella cause di rivendica.

Qui, tuttavia, occorre ricordare ciò che scriveva il senatore Cordova alla Giunta per l’inchiesta agraria[9] a proposito delle operazioni di scioglimento degli anni ’40: “E’ inutile pretendere che le autorità municipali o provinciali, rese elettive, possano o vogliano procedere allo scioglimento delle promiscuità, rivendiche e distribuzioni di terre usurpate da loro stessi e che si godono tranquillamente da settant’anni.”[10]

In effetti le vicende relative allo scioglimento delle promiscuità sui demani di Lentini confermano pienamente la tesi del Cordova[11]. Tesi che sarà implicita nelle accuse di omissione e colpevole inadempienza lanciate contro il decurionato di Lentini dall’ispettore demaniale Savagnone, di cui diremo in seguito, nella sua Relazione[12] sulla liquidazione degli usi civici del 1933.

Con grandi difficoltà, quindi, e sicuramente in modesta parte[13], si procedette allo scioglimento ed allo scorporo dei feudi baronali[14]. Sostanzialmente elusa rimase invece, ancora una volta, la parte della legge che prevedeva dopo la reintegra la divisione dei demani tra i cittadini.

E ciò rimase un problema irrisolto anche dopo l’unità.

Se, tuttavia, almeno dal punto di vista legislativo, la materia dei demani e delle promiscuità era risolto, ciò che concerneva la liquidazione degli usi civici, rimaneva lo scoglio da superare.

Tutte le leggi liquidatrici avevano sempre eccettuato gli usi civici del pascolo e dei boschi comunali per gli usi essenziali dei cittadini. Il decreto luogotenenziale del 2 gennaio 1861, che rendeva esecutiva la legge piemontese del 23 ottobre 1859, non apportava nessuna modifica alle operazioni demaniali (art. 9).

Ripristinati i commissari ripartitori al posto degli ex intendenti, il decreto del 3 luglio 1861, relativo alle operazioni demaniali, esclude ancora dalla divisione i demani boschivi e quelli addetti al pascolo riservato agli usi civici (articoli 59 e 60)[15].

Bisognerà, quindi, attendere la legge del 1927 con il suo regolamento dell’anno successivo[16], per iniziare la liquidazione di ciò che rimaneva delle consuetudini e dei diritti legati all’antica comunione della terra.

 

La legge del 1927

 

La legge del 1927 e le successive disposizioni ad essa riferite introducono criteri unici per l’accertamento e la liquidazione generale degli usi civici e di qualsiasi altro diritto di godimento promiscuo e la sistemazione (quotizzazione o pagamento di canoni) per le terre provenienti dalla liquidazione.

Per l’esecuzione della legge è nominato, con decreto reale e su proposta del Ministro per l’economia nazionale, un Commissario per la liquidazione degli usi civici. Il Commissario, scelto tra i magistrati di grado non inferiore a quello di consigliere di corte d’appello (L. 1827, art. 27), su istanza degli interessati o anche d’ufficio, procede all’accertamento ed alla liquidazione degli usi civici, allo scioglimento delle promiscuità ed alla rivendica e ripartizione delle terre (art. 29). Tra l’altro ha il compito di riesaminare anche quelle promiscuità che per disposizioni anteriori si trovano autorizzate per valutarne con gli interessati (Comuni ed associazioni agrarie) la continuazione o lo scioglimento (Regolamento del 1928, art. 18).

Il Commissario, per la formazione dei progetti di liquidazione, può nominare un istruttore che dovrà preliminarmente compiere le ricerche necessarie all’accertamento degli usi civici e delle usurpazioni (articoli 68-72). A tal scopo l’articolo 33 della legge del 1927 prevedeva che “tutte le autorità, uffici ed archivi sono obbligati a compiere ed eseguire tutti gli atti, a fornire notizie, a rilasciare copie di documenti, a prestare ogni assistenza allorché ne siano richiesti dal commissario.”.

 

La liquidazione degli usi civici del Comune di Lentini

 

Fu indeciso il Comune di Lentini a reclamare i suoi diritti. Indeciso e riluttante. La presentazione della rivendica fu fatta come per inerzia su sollecito del Commissario Dato di Palermo e sull’elenco delle terre e degli usi civici inviato da quest’ultimo, senza nulla aggiungervi e, per di più, rimettendosi passivamente a “quanto sarà per fare il R. Commissario ripartitore[17]. Rischiò pure di cadere nella prescrizione non avendo completato nei modi dovuti la domanda di rivendica.

Nell’ottobre del 1929 il Podestà dichiara “l’assoluta incertezza della sussistenza legale dei pretesi diritti di questo Comune[18] rispondendo, così, all’Avv. Gugino[19] che sollecitava il Comune ad occuparsi della questione demaniale lasciata nell’oblio.

Nello stesso mese del 1929 l’Avv. Drago di Palermo scriveva al Podestà riproponendo la propria assistenza professionale e criticando duramente l’inadempienza del Comune “che non volle (come molti altri) provvedere ad una attenta istruzione demaniale…Nessuno domanderà conto a codesto Municipio di aver fatto prescrivere degli importanti diritti demaniali; poiché nessuno saprà mai –meno qualche competente- ciò che cotesto Comune ha perduto.”[20]

Sarà l’istanza d'esaurimento del procedimento di liquidazione degli usi nell’ex. Feudo Bonvicino, presentata dal nuovo proprietario “Coop. Il Littorio”, a rilanciare la rivendica del Comune[21].

La rivendica da parte del Comune dei suoi diritti su gran parte del territorio (ex feudi, terre comuni, borgesie[22] e relative partenze[23] e tenute) si configura sin dall’inizio come un enorme, complesso rompicapo nel quale si intrecciano storia del diritto e giurisprudenza, stato della documentazione archivistica e interpretazioni delle fonti, computo dell’utile effettivo e delle potenziali perdite, scontri d'interessi politici ed economici dai quali era immediatamente possibile prevedere l’esplosione, tra l’altro, di innumerevoli liti.

Osserverà in proposito l’avv. Sgalambro, incaricato dal Podestà di esprimere parere legale sulla relazione per la liquidazione degli usi civici di Lentini:

 “ E poiché tutta quella massa di terre si trova oggi nel possesso di migliaia di persone private, è evidente che la revindica degli usi e diritti predetti, sia se fatta sotto forma di attribuzione in natura (come sarebbe desiderabile, specialmente dal punto di vista sociale di far pervenire terre alle famiglie dei coltivatori diretti), sia sotto forma di imposizioni di canoni, verrebbe a pesare enormemente sulla economia agraria della intera circoscrizione. E’ del pari evidente che questa revindica, urtando in conseguenza ingenti e molteplici interessi, farà nascere, per la sua vastità, numerosissimi litigi che richiederanno non lievi spese.”[24]

E ancora per quanto riguardava le borgesie:

…data la immensa estensione delle borgesie che abbracciavano tutti i terreni non infeudati dell’Agro Leontino, …, significherebbe attaccare tutte le proprietà private del nostro vasto territorio. La revindica dovrebbe quindi limitarsi (per le terre in borgesia) ai canoni rappresentanti le borgesie…”[25]

Nel marzo del 1928 a seguito della domanda di rivendica inoltrata dal Comune di Lentini, il R. Commissario per la liquidazione degli usi civici in Palermo nomina istruttore demaniale il Prof. Francesco Guglielmo Savagnone[26].

Il Savagnone ha il compito di accertare tutti gli elementi utili alla ammissibilità ed alla definizione dell’istruttoria per la liquidazione degli usi civici del vasto territorio di Lentini[27].

Quattro anni più tardi, il 23 novembre 1932, il Savagnone deposita la sua relazione[28]: “un lavoro pregevolissimo per l’accuratezza della ricerca documentale”[29], scriverà l’Avv. Francesco Sgalambro.

La relazione Savagnone

 

La legge del 1927 imponeva, per l’accertamento degli usi civici cessati anteriormente al 1800, la produzione di prove documentali[30]. Queste, secondo la sentenza della Corte di Cassazione a S.U. del 18 marzo 1931, potevano anche essere indirette, dalle quali, cioè, fosse possibile evincere almeno in via presuntiva l’esistenza di usi civici sul territorio in questione (prova indiretta era ad esempio l’accertamento della demanialità della città, che di per sé presupponeva l’esistenza di terre di demanio comunale e quindi di usi civici). Tuttavia, alle prove indirette occorreva accompagnare prove documentali dirette sull’esercizio di fatto dell’uso civico (R. Commissario, del 22 feb. 1931[31]) sul singolo feudo, borgesia, ecc. Insomma, per rivendicare gli usi civici non bastava certo la produzione di qualche antico privilegio, ma una paziente ricerca d’archivio ed una intelligente ricostruzione storica degli assetti del territorio.

Saranno ben 272 le fonti documentarie proposte dalla relazione Savagnone.

L’importanza della relazione, oggi, per noi, quindi, non risiede tanto nell’indubbio valore tecnico legale, ma propriamente nell’attenta ricostruzione storica degli assetti proprietari e produttivi del territorio, nella sagace ricostruzione degli eventi, dei toponimi, delle modalità contrattuali, delle trasformazioni intervenute. In breve essa costituisce un insostituibile contributo alla storia del territorio di Lentini[32].

A seguito della relazione Savagnone il Comune, come detto, affida all’avv. Sgalambro[33] la preparazione delle osservazioni da presentare al R. Commissario di Palermo.

“Osservazioni” legali, quelle dello Sgalambro, che si soffermano sui punti salienti della relazione Savagnone, ne individuano i limiti, propongono di allargare la rivendica del Comune ad altri ex feudi non contemplati dalla relazione e, ai fini di un maggiore fondamento giuridico dell’istanza di rivendica, indicano ciò che ancora occorre in prove documentali.

Tra le raccomandazioni che lo Sgalambro farà al Podestà ci sarà quella di “approfondire i punti oscuri da noi sopra segnalati e di non ingolfarsi leggermente in quistioni gravissime e dispendiosissime, se non si riuscirà a lumeggiare e chiarire in modo preciso e inequivocabile tali punti…[34].

I “punti oscuri” indicati da Sgalambro e fatti propri dal Podestà Consiglio[35] possono riassumersi in tre interrogativi:

1) perché, dalle per altro “diligenti indagini” per la rivendica, il Savagnone esclude ben 14 ex feudi?

2) Perché il Savagnone opta per la richiesta di rivendica del solo jus pascendi scartando gli altri usi civici?

3) Come mai il Savagnone suggerisce, per lo scioglimento degli usi civici, l’imposizione di canoni enfiteutici annui e non operazioni divisorie[36], anche se solo in parte e sulle terre non migliorate?

Mentre si rimanda agli studiosi l’approfondimento della questione, è certo che il R. Commissario in Palermo adotterà nella sostanza (tranne che per i 14 ex feudi per i quali accetterà l’ammissione a rivendica avanzata dal Comune-Sgalambro[37]) la linea del Savagnone, procedendo alla liquidazione tramite assegnazioni di canoni anziché alla divisione proposta dal Comune nei casi dei terreni che non hanno “ricevuto sostanziali e permanenti migliorie”.

 

I progetti di liquidazione del Geom. Portuso

 

Nel novembre del 1956, in sostituzione dell’istruttore Filangeri, che aveva curato nel 1932 la liquidazione dell’uso di pascere dell’ex feudo di Bonvicino, è incaricato della formazione dei progetti di liquidazione di tutti gli altri feudi, il Geom. Portuso[38].

Il Portuso procederà “in base alla relazione storico-giuridica dell’Avv. Prof. Francesco Savagnone.”[39] alla redazione dell’istruttoria generale e quindi alla predisposizione dei piani particolareggiati con computo dei canoni, feudo per feudo.

Del suo lavoro rimangono alcune relazioni accompagnate dalla planimetria generale e da quelle particolari degli ex feudi Biviere (fasc.9), Carmito (fasc.12) e Armicci-Valsavoia (fasc.16).

Di particolare interesse risulta il “Quadro generale” degli antichi feudi e terre di cui si componeva il territorio di Lentini[40].

Al momento dello scioglimento, com’era previsto, furono numerose le liti e, tra queste, quella che riguardò le terre dell’ex feudo Carmito[41] (la più completa per documentazione) meglio descrive il conflitto di interessi che si scatenarono intorno alla questione dello scioglimento.

 

I documenti “fuori data”

 

Rimane a spiegare la documentazione “fuori data” presente nel fasc. n.5. Si tratta di un rogito notarile del 1834 e della causa per lo scioglimento dell’ex Feudo S.Lio (1870-1898).

Queste scritture erano state richieste, a seguito delle osservazioni dell’Avv. Sgalambro, dal R. Commissario ed inviate in copia al medesimo dal Podestà Consiglio nel dicembre del 1933. Trovate sciolte tra documenti di altra natura si è ritenuto opportuno riunirle al carteggio dal quale riteniamo provenissero.

In particolare: il documento del 1834, “un documento che non è stato esaminato dal Prof. Savagnone[42], è una atto rogato dal Notaio Bajone stipulato dal Comune e dai propri creditori di soggiogazioni passive[43]. Con tale atto il Comune cede le proprie borgesie in cambio dell’estinzione delle soggiogazioni. Sono facilmente deducibili le difficoltà, ben evidenziate dallo Sgalambro nelle sue osservazioni, che una stipula del genere comporta al momento della rivendica degli usi civici sulle borgesie cedute.

Anche la causa/sentenza per l’ex feudo S.Lio pare non fosse stata consultata dal Savagnone. In seguito allo scioglimento dei diritti promiscui (1838) pervenne al Comune (nel 1843) una piccola parte dell’ex Feudo S. Lio e precisamente le “terre della città vecchia” ovvero le terre dove era sita la città di Lentini prima del terremoto del 1693. Queste terre, con sentenza del 30 giugno 1876, furono tolte al Comune a favore del suo creditore D. Mario Scammacca. Tornarono, quindi, ad essere oggetto di rivendica nel 1897, ma il Tribunale Civile di Siracusa respinse la domanda. Con la relazione Savagnone, infine, tornano ad essere oggetto di rivendica.

 

Delle cause per la liquidazione degli usi civici di Lentini ne rimane aperta solamente una: quella relativa all’ex feudo del Biviere. La Sentenza del 1983 dichiara estinto l’uso civico di pesca sul lago mentre dichiara l’uso civico di pascere sulle altre terre dell’ex feudo[44].

Tutte le altre cause si sono chiuse con il riconoscimento degli usi civici e l’imposizione di canoni.

Manca ancora uno studio degli esiti della liquidazione degli usi civici, ma certo è che le rosee previsioni dello Sgalambro e gli auspici del Savagnone sulla grande ricchezza che sarebbe venuta al Comune dal pagamento dei canoni e dalla quotizzazione si sono dimostrate quanto meno azzardate e a tutt’oggi sarebbe da valutare il rapporto tra entrate ed uscite per spese legali, perizie, ecc.

Di gran lunga più consistente sarebbe dovuta essere la documentazione sugli usi civici del territorio di Lentini, ma, com’è noto, non sempre si è riservata la giusta attenzione alla conservazione delle fonti storiche.

Presso l’ufficio legale del Municipio sono attualmente conservate tre buste con documentazione relativa agli usi civici e ancora tre fasci di scritture[45] si trovano presso il Commissariato per la liquidazione degli usi civici in Palermo.

Ciò che resta nell’archivio storico del Comune, tuttavia, con la relazione Savagnone, le osservazioni dell’Avv. Sgalambro ed i disegni, è decisamente importante e di sicuro valore per chi volesse intraprendere una nuova storia del territorio di Lentini, delle sue usurpazioni, delle vicissitudini che portarono con la sua moderna privatizzazione alla liquidazione dei diritti di uso comune

 

Salvatore Stefano Bombaci

  Hanno lavorato alla schedatura ed al riordino: Ersilia Inserra, Gabriella Sferrazzo, Mirella Vinci, Lucia Giannì e Fabio Pulvirenti.

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ARCHIVIO STORICO COMUNE di LENTINI

 USI CIVICI

LIQUIDAZIONE

Fascicoli 1-17

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[1] La legge n.1766 del 16 giugno 1927 convertiva i RR.DD. del 24 maggio 1924 n. 751, del 28 agosto 1924 n 1484 e del 16 maggio 1926 n. 859. Il regolamento attuativo del 26 marzo 1928 è il n.332.

[2] Il regolamento attuativo redatto da Tommaso Natale è del 1789. Com’è noto all’eversione dell’asse demaniale municipale si accompagna l’eversione dell’asse ecclesiastico che, già colpito nel 1768 con la lottizzazione dei beni dei gesuiti, trova un primo punto d’arrivo con la messa a censo dei beni delle chiese di regio patronato. Il colpo definitivo sarà dato in epoca postunitaria con lo scioglimento delle corporazioni religiose (1867).

[3] Gli usi civici di cui fu fatta rivendica erano: il diritto di pascere, di legnare, di far calce, di raccogliere mignatte (sanguisughe), far mole, far sugheri, far giunco, cacciare, pescare, acquare, far canne, far buda (erba).

In seguito gli usi civici furono divisi in classi: essenziali, utili e dominicali

[4] Per una storia degli usi civici: Romualdo Trifone, Gli usi civici, A. Giuffrè ed.1963. Giovanni Cassandro, Storia delle terre comuni e degli usi civici nell’Italia Meridionale, Biblioteca Cultura Moderna.

[5] Si veda l’articolo 176 della legge amministrativa del 12 dicembre 1816 e l’articolo 5 del R.D. del 19 dicembre 1838.

[6] Astengo, Nuove illustrazioni della legge comunale e provinciale del 20 marzo 1865, in appendice alla Guida Amministrativa, 1870.

[7] La citazione è tratta da Scirocco in “Ferdinando II e la Sicilia: gli anni della speranza e della delusione (1830-1837) ” in “I moti del 1837 a Siracusa e la Sicilia degli anni trenta”, Ediprint 1987, a cura di Salvatore Russo.

[8] Prova di possesso comunale anteriore all’usurpazione e prova della illegittima occupazione posteriormente al possesso che si assume.

[9] La relazione per la Sicilia è del 1883.

[10] La citazione è tratta da Aristide Battaglia, L’evoluzione sociale in rapporto alla proprietà fondiaria in Sicilia, 1895. Riedizione a cura della Regione Siciliana nel 1974.

[11] Ci riferiamo al carteggio tra il Sindaco e l’Intendente sull’esistenza di usi civici sul territorio di Lentini. “In questa comune non esistono demani di sorta veruna” così rispondevano nel 1842 il decurionato e il Sindaco Scapellato alle insistenti richieste dell’Intendente di Siracusa (ASCL, C, Reg. Deliberazioni, n°9, c.65). Si vedano anche le cause per lo scioglimento su 11 ex feudi, in particolare sul feudo del Bosco in possesso al Barone Beneventano (ASCL, B, n°149 e 150).

[12] F. G. Savagnone, Relazione sugli usi civici e sul demanio universitario di Lentini” in ASCL, Usi civici, fasc. n°4

[13] Di diverso avviso sembra essere il Renda si veda il suo articolo citato nella nota n°39

[14] Ai comuni spettava 1/3,1/4 e 1/5 del fondo a seconda che gli usi civici dimostrati fossero di 1°, 2° o 3° classe.

[15] Astengo, Nuove illustrazioni della legge comunale e provinciale del 20 marzo 1865, in appendice alla Guida Amministrativa, 1870.

[16] La legge n.1766 del 16 giugno 1927 convertiva i RR.DD. del 24 maggio 1924 n. 751, del 28 agosto 1924 n 1484 e del 16 maggio 1926 n. 859. Il regolamento attuativo del 26 marzo 1928 è il n.332.

 

[17] ASCL, Usi Civici, fasc. n°2. Lettera del Podestà Cicirata al Prefetto di Siracusa dell’8 set. 1930.

[18] ASCL, idem, fasc. n° 3. Lettera del Podestà Cicirata all’Avv. Alfonso Gugino del 29 ott. 1929

[19] ASCL, idem, 1929 ott. 8. La lettera dell’Avv. Gugino scritta “nell’interesse mio e di tuo padre” è indirizzata ad Alfio Cicirata, figlio del Podestà Francesco, “poiché il Comune sino ad oggi non si è occupato della quistione”.

 

[20] ASCL, Usi Civici, fasc. n°3. Lettera dell’Avv. Giuseppe Drago al Podestà, del 14 ott. 1929

[21] L’art.3 della legge del 1927 prevedeva che l’azione legale di scioglimento potesse essere avanzata anche da parte di privati.

[22] Il termine borgesia, in senso stretto, denotava il diritto di pubblico pascolo con pagamento del relativo erbaggio. Borgesia era ancora la terra comune concessa a privati per far masseria. Il contratto di borgesia consisteva nella concessione in possesso di un determinato fondo. Tuttavia la disponibilità del fondo in possesso era ristretta a sole due terze parti ed in subordine al diritto di pascere che il Comune si riservava in quanto proprietario. Si trattava quindi di un possesso limitato al godimento del jus arandi, al diritto di compascolo, a quello di farvi masseria (arbitrio). La concessione in possesso era a tempo indefinito, gratuita ed esente da canone ed avveniva per richiesta del contadino. Il contadino divenuto borgese non era quindi proprietario allodiale né enfiteutico, ma possessore con limitato uso del possesso.

Per una più estesa e puntuale trattazione vedi la “Relazione” di Savagnone, vol. 1°, pgg 256-284.

[23] Le Borgesie non si gabellavano in blocco, ma in partenze (lotti) distinte topograficamente.

Il gabelloto ovvero l’appaltatore (liberatario) della tassa sulle pecore e capre possedute (che comportava il diritto di pascere sulle terre comuni e su quelle date in borgesia), pagava in blocco la cifra risultante dall’incanto e riscuoteva le singole partite dai borgesi per il compascolo sulle borgesie e dai contadini per il pascolo sulle borgesie e terre comuni.

[24] ASCL, Usi Civici, fasc. n.5, “Osservazioni” dell’Avv. Francesco Sgalambro sulla relazione Savagnone per lo scioglimento degli usi civici della città di Lentini, 1933 feb. 10

[25] ASCL, idem

[26] ASCL, idem, fasc. n.1

[27] E’ del 1857 la spartizione del territorio di Lentini con Carlentini: al primo resteranno i 3/5 al secondo andranno i 2/5.

[28] ASCL, Usi Civici, fasc. n.4

[29] ASCL, idem, fasc. n.5

[30] Qualora fosse stato impossibile produrre documenti era “ammesso qualunque altro mezzo legale di prova” (art. 2).

[31] In Reg. G. It. 1931, voce “usi civici”, nn.159 e 162

[32] Va inoltre detto che anche grazie alla gran quantità di documenti che il Savagnone cita come carte dell’Archivio di Lentini, si ha conto di ciò che è andato perduto in documentazione, come ad esempio l’importante “Libro di varj privilegi”.

[33] ASCL, Usi Civici, fasc. n.5

[34] ASCL, idem, fasc. n°5

[35] ASCL, idem, “Osservazioni del Podestà” del 20 febbraio 1933

[36] La liquidazione prevedeva come compenso una porzione del fondo gravato (o della parte del fondo gravata) dagli usi civici, che variava secondo la classe (prima: essenziali; seconda: utili). Solo nel caso in cui le terre fossero state occupate da più di dieci anni e vi fossero state apportate stabili ed opportune migliorie era prevista l’imposizione dei canoni di natura enfiteutica in luogo della divisione.

[37] ASCL, idem, lettera del R. Commissario al Podestà del 1 giugno 1933

[38] ASCL, Usi civici, fasc. n.11

[39] idem

[40] idem, sottofasc. “Planimetria” 1958

[41] idem, fasc. n.15

[42] idem, fasc. n.5, “osservazioni” Avv. Sgalambro

[43] Le soggiogazioni consistevano, in breve, nel diritto contrattuale del creditore (soggiogante) a percepire una rendita sui beni stabili del debitore (soggiogatario). Tuttavia la soggiogazione poteva anche essere frutto di libera donazione ad un beneficiario (persona o istituzione che fosse) senza alcuna contropartita. Per una più estesa trattazione e per una descrizione di ciò che comportò la trasformazione delle soggiogazioni in prestiti ipotecari, vedi Renda, “La Sicilia e le leggi agrarie borboniche” in “I moti del 1837 a Siracusa e la Sicilia degli anni trenta”, Ediprint 1987, a cura di Salvatore Russo.

[44] Archivio del Commissariato per la liquidazione degli usi civici in Sicilia, Lentini, Prospetto riassuntivo delle cause di liquidazione, 1934-1983.

[45] Ma anche in questo caso è certo che la documentazione avrebbe dovuto essere di gran lunga più consistente.

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