Introduzione
Le scritture di cui qui
presentiamo l’inventario comprendono gli anni che vanno dal 1927 al 1977 e
costituiscono ciò che rimane della liquidazione degli usi civici tra le carte
dell’Archivio storico del Comune in epoca contemporanea.
Con la legge del 16
giugno 1927[1]
e relativo regolamento del 1928 il legislatore volle definitivamente
disciplinare e chiudere l’antica, altalenante e contraddittoria questione
degli usi civici e dei demani comunali.
Questione non da poco
che rappresenta l’esito finale di quel lungo processo di usurpazione delle
terre comuni che, tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo, costituì il
passaggio dalla costituzione feudale del suolo alla moderna proprietà privata
della terra e, quindi, dal regime feudale a quello capitalistico borghese.
Ci sembra utile qui
ripercorrere le tappe salienti della legislazione che condurrà alla legge del
1927.
La
prammatica del 1787
I beni demaniali dei
comuni erano divenuti alienabili con la “prammatica” del viceré Caracciolo
del 1787[2]
che introduceva, di fatto, la loro privatizzazione.
Demani erano
considerati quei fondi aperti, comunali, feudali o ecclesiastici, sui quali i
cittadini esercitavano usi civici.
Usi civici erano quei
diritti di godimento spettanti alla comunità su terre comuni o di privati.
Erano usi civici il libero pascolo, l’abbeverare, il pescare, raccogliere
legna, ghiande e frutti, seminare, ecc.
[3]
Tali diritti
rappresentavano ciò che rimaneva dell’originaria comunanza d’uso della
terra e delle acque[4].
I demani comunali,
quindi non essendo destinati a produrre rendita, non essendo cioè assimilabili
ai beni patrimoniali che, di regola, erano dati in affitto o messi a censo,
erano destinati al godimento personale dei cittadini e perciò, secondo
l’antico diritto, inalienabili ed imprescrittibili.
A minare
l’inalienabilità e l’imprescrittibilità degli usi civici saranno le
trasformazioni economiche che a partire dal XVI secolo stravolgeranno le
consuetudini e, poi, gli assetti proprietari della terra finendo col restringere
gli usi imprescrittibili a quelli “essenziali per la vita”[5]
ed in tempi più recenti a liquidarli definitivamente in nome di quel “sistema
di emancipazione della proprietà” di cui parla Astengo nella sua
illustrazione della legge amministrativa del 1865[6].
La
costituzione del 1812
La costituzione del
1812 aboliva formalmente il feudalesimo trasformando i nobili feudatari in
proprietari allodiali, sgravandoli per di più da tutti gli oneri
precedentemente legati alle concessioni reali delle terre. Essa sopprimeva nel
medesimo tempo gli usi civici sui fondi baronali ed imponeva lo scioglimento
delle promiscuità.
La questione demaniale
era aperta ma ancora complessivamente irrisolta, se non per la parte che
riguardava i vantaggiosi nuovi diritti dei baroni. Restava sulla carta tutto
quanto concerneva le reintegre e la quotizzazione dei demani usurpati.
La reintegra era
un’azione possessoria tesa a reintegrare il Comune nel primitivo possesso di
un fondo provatamente demaniale. La quotizzazione costituiva l’operazione
finale della divisione dei demani che, appunto, dovevano essere ripartiti in
quote tra i cittadini.
La divisione restava,
quindi, un miraggio e così lo scioglimento delle promiscuità ovvero
l’attribuzione in piena proprietà a ciascuno dei possessori di una parte di
un fondo promiscuo, cioè goduto in condominio.
Ancora nel 1833
Leopoldo luogotenente di Sicilia scriveva al fratello Re Ferdinando II: “…in
tutto il tempo della mia luogotenenza per quanti ordini io abbia dati, non sono
riuscito a vedere terminate le cause dello scioglimento dei diritti promiscui
fra gli ex baroni ed i comuni…”[7]
Le lotte politiche tra
baroni e potere centrale, tra classi egemoni siciliane e napoletane e ancora tra
classi egemoni (baroni e borghesi divenuti proprietari fondiari) e contadini, si
snodano tra faide, tumulti e rivoluzioni testimoniando, spesso col sangue, il
tenore delle contraddizioni aperte dalla questione demaniale.
L’introduzione
della legge del 1816 e le istruzioni del 1841
Il susseguirsi di leggi
e regolamenti per la divisione dei demani e lo scioglimento dei diritti
promiscui non servirono a rendere più rapido il processo di trasformazione
della proprietà del suolo.
Nel 1838 è estesa alla
Sicilia la legge dell’12 dicembre 1816 che rimette in moto le operazioni di
scioglimento dei diritti promiscui e la divisione dei demani (articoli 180-192)
conferendo agli intendenti i poteri delle disciolte commissioni (articolo 177).
Le istruzioni dell’11
dicembre 1841, una sorta di summa di quanto fino ad allora prodotto in materia
di scioglimento di promiscuità e divisione dei demani, disciplinano le varie
operazioni dividendo il lavoro degli intendenti in tre classi: la prima relativa
alle divisioni non ancora ultimate perché impugnate; la seconda per quelle già
cominciate ma rimaste in sospeso e la terza per le divisioni ancora da
intraprendere o appena iniziate. Per la compensazione degli usi civici e lo
scioglimento delle promiscuità le istruzioni del 1841 introducono la prova
del possesso[8]
che sarà uno dei motivi formali delle pressoché totali sconfitte dei comuni
nella cause di rivendica.
Qui, tuttavia, occorre
ricordare ciò che scriveva il senatore Cordova alla Giunta per l’inchiesta
agraria[9]
a proposito delle operazioni di scioglimento degli anni ’40: “E’
inutile pretendere che le autorità municipali o provinciali, rese elettive,
possano o vogliano procedere allo scioglimento delle promiscuità, rivendiche e
distribuzioni di terre usurpate da loro stessi e che si godono tranquillamente
da settant’anni.”[10]
In effetti le vicende
relative allo scioglimento delle promiscuità sui demani di Lentini confermano
pienamente la tesi del Cordova[11].
Tesi che sarà implicita nelle accuse di omissione e colpevole inadempienza
lanciate contro il decurionato di Lentini dall’ispettore demaniale
Savagnone, di cui diremo in seguito, nella sua Relazione[12]
sulla liquidazione degli usi civici del 1933.
Con grandi difficoltà,
quindi, e sicuramente in modesta parte[13],
si procedette allo scioglimento ed allo scorporo dei feudi baronali[14].
Sostanzialmente elusa rimase invece, ancora una volta, la parte della legge che
prevedeva dopo la reintegra la divisione dei demani tra i cittadini.
E ciò rimase un
problema irrisolto anche dopo l’unità.
Se, tuttavia, almeno
dal punto di vista legislativo, la materia dei demani e delle promiscuità era
risolto, ciò che concerneva la liquidazione degli usi civici, rimaneva lo
scoglio da superare.
Tutte le leggi
liquidatrici avevano sempre eccettuato gli usi civici del pascolo e dei boschi
comunali per gli usi essenziali dei cittadini. Il decreto luogotenenziale del 2
gennaio 1861, che rendeva esecutiva la legge piemontese del 23 ottobre 1859, non
apportava nessuna modifica alle operazioni demaniali (art. 9).
Ripristinati i
commissari ripartitori al posto degli ex intendenti, il decreto del 3 luglio
1861, relativo alle operazioni demaniali, esclude ancora dalla divisione i
demani boschivi e quelli addetti al pascolo riservato agli usi civici (articoli
59 e 60)[15].
Bisognerà, quindi,
attendere la legge del 1927 con il suo regolamento dell’anno successivo[16],
per iniziare la liquidazione di ciò che rimaneva delle consuetudini e dei
diritti legati all’antica comunione della terra.
La
legge del 1927
La legge del 1927 e le
successive disposizioni ad essa riferite introducono criteri unici per
l’accertamento e la liquidazione generale degli usi civici e di qualsiasi
altro diritto di godimento promiscuo e la sistemazione (quotizzazione o
pagamento di canoni) per le terre provenienti dalla liquidazione.
Per l’esecuzione
della legge è nominato, con decreto reale e su proposta del Ministro per
l’economia nazionale, un Commissario per la liquidazione degli usi civici. Il
Commissario, scelto tra i magistrati di grado non inferiore a quello di
consigliere di corte d’appello (L. 1827, art. 27), su istanza degli
interessati o anche d’ufficio, procede all’accertamento ed alla liquidazione
degli usi civici, allo scioglimento delle promiscuità ed alla rivendica e
ripartizione delle terre (art. 29). Tra l’altro ha il compito di riesaminare
anche quelle promiscuità che per disposizioni anteriori si trovano autorizzate
per valutarne con gli interessati (Comuni ed associazioni agrarie) la
continuazione o lo scioglimento (Regolamento del 1928, art. 18).
Il Commissario, per la
formazione dei progetti di liquidazione, può nominare un istruttore che dovrà
preliminarmente compiere le ricerche necessarie all’accertamento degli usi
civici e delle usurpazioni (articoli 68-72). A tal scopo l’articolo 33 della
legge del 1927 prevedeva che “tutte le autorità, uffici ed archivi sono
obbligati a compiere ed eseguire tutti gli atti, a fornire notizie, a rilasciare
copie di documenti, a prestare ogni assistenza allorché ne siano richiesti dal
commissario.”.
La liquidazione
degli usi civici del Comune di Lentini
Fu indeciso il Comune
di Lentini a reclamare i suoi diritti. Indeciso e riluttante. La presentazione
della rivendica fu fatta come per inerzia su sollecito del Commissario Dato di
Palermo e sull’elenco delle terre e degli usi civici inviato da
quest’ultimo, senza nulla aggiungervi e, per di più, rimettendosi
passivamente a “quanto sarà per fare il R. Commissario ripartitore”[17].
Rischiò pure di cadere nella prescrizione non avendo completato nei modi dovuti
la domanda di rivendica.
Nell’ottobre del 1929
il Podestà dichiara “l’assoluta incertezza della sussistenza legale dei
pretesi diritti di questo Comune”[18]
rispondendo, così, all’Avv. Gugino[19]
che sollecitava il Comune ad occuparsi della questione demaniale lasciata
nell’oblio.
Nello stesso mese del
1929 l’Avv. Drago di Palermo scriveva al Podestà riproponendo la propria
assistenza professionale e criticando duramente l’inadempienza del Comune “che
non volle (come molti altri) provvedere ad una attenta istruzione
demaniale…Nessuno domanderà conto a codesto Municipio di aver fatto
prescrivere degli importanti diritti demaniali; poiché nessuno saprà mai
–meno qualche competente- ciò che cotesto Comune ha perduto.”[20]
Sarà l’istanza
d'esaurimento del procedimento di liquidazione degli usi nell’ex. Feudo
Bonvicino, presentata dal nuovo proprietario “Coop. Il Littorio”, a
rilanciare la rivendica del Comune[21].
La rivendica da parte
del Comune dei suoi diritti su gran parte del territorio (ex feudi, terre
comuni, borgesie[22]
e relative partenze[23]
e tenute) si configura sin
dall’inizio come un enorme, complesso rompicapo nel quale si intrecciano
storia del diritto e giurisprudenza, stato della documentazione archivistica e
interpretazioni delle fonti, computo dell’utile effettivo e delle potenziali
perdite, scontri d'interessi politici ed economici dai quali era immediatamente
possibile prevedere l’esplosione, tra l’altro, di innumerevoli liti.
Osserverà in proposito
l’avv. Sgalambro, incaricato dal Podestà di esprimere parere legale
sulla relazione per la liquidazione degli usi civici di Lentini:
“ E poiché tutta quella
massa di terre si trova oggi nel possesso di migliaia di persone private, è
evidente che la revindica degli usi e diritti predetti, sia se fatta sotto forma
di attribuzione in natura (come sarebbe desiderabile, specialmente dal punto di
vista sociale di far pervenire terre alle famiglie dei coltivatori diretti), sia
sotto forma di imposizioni di canoni, verrebbe a pesare enormemente sulla
economia agraria della intera circoscrizione. E’ del pari evidente che questa
revindica, urtando in conseguenza
ingenti e molteplici interessi, farà nascere, per la sua vastità,
numerosissimi litigi che richiederanno non lievi spese.”[24]
E ancora per quanto riguardava le borgesie:
“ …data la immensa estensione delle borgesie che abbracciavano
tutti i terreni non infeudati dell’Agro Leontino, …, significherebbe
attaccare tutte le proprietà private del nostro vasto territorio. La revindica
dovrebbe quindi limitarsi (per le terre in borgesia) ai canoni
rappresentanti le borgesie…”[25]
Nel marzo del 1928 a
seguito della domanda di rivendica inoltrata dal Comune di Lentini, il R.
Commissario per la liquidazione degli usi civici in Palermo nomina istruttore
demaniale il Prof. Francesco Guglielmo Savagnone[26].
Il Savagnone ha il
compito di accertare tutti gli elementi utili alla ammissibilità ed alla
definizione dell’istruttoria per la liquidazione degli usi civici del vasto
territorio di Lentini[27].
Quattro anni più
tardi, il 23 novembre 1932, il Savagnone deposita la sua relazione[28]:
“un lavoro pregevolissimo per l’accuratezza della ricerca documentale”[29],
scriverà l’Avv. Francesco Sgalambro.
La
relazione Savagnone
La legge del 1927
imponeva, per l’accertamento degli usi civici cessati anteriormente al 1800,
la produzione di prove documentali[30].
Queste, secondo la sentenza della Corte di Cassazione a S.U. del 18 marzo 1931,
potevano anche essere indirette, dalle quali, cioè, fosse possibile evincere
almeno in via presuntiva l’esistenza di usi civici sul territorio in questione
(prova indiretta era ad esempio l’accertamento della demanialità della città,
che di per sé presupponeva l’esistenza di terre di demanio comunale e quindi
di usi civici). Tuttavia, alle prove indirette occorreva accompagnare prove
documentali dirette sull’esercizio di fatto dell’uso civico (R. Commissario,
del 22 feb. 1931[31])
sul singolo feudo, borgesia, ecc. Insomma, per rivendicare gli usi civici non
bastava certo la produzione di qualche antico privilegio, ma una paziente
ricerca d’archivio ed una intelligente ricostruzione storica degli assetti del
territorio.
Saranno ben 272 le
fonti documentarie proposte dalla relazione Savagnone.
L’importanza della
relazione, oggi, per noi, quindi, non risiede tanto nell’indubbio valore
tecnico legale, ma propriamente nell’attenta ricostruzione storica degli
assetti proprietari e produttivi del territorio, nella sagace ricostruzione
degli eventi, dei toponimi, delle modalità contrattuali, delle trasformazioni
intervenute. In breve essa costituisce un insostituibile contributo alla storia
del territorio di Lentini[32].
A seguito della
relazione Savagnone il Comune, come detto, affida all’avv. Sgalambro[33]
la preparazione delle osservazioni da presentare al R. Commissario di Palermo.
“Osservazioni”
legali, quelle dello Sgalambro, che si soffermano sui punti salienti della
relazione Savagnone, ne individuano i limiti, propongono di allargare la
rivendica del Comune ad altri ex feudi non contemplati dalla relazione e, ai
fini di un maggiore fondamento giuridico dell’istanza di rivendica, indicano
ciò che ancora occorre in prove documentali.
Tra le raccomandazioni
che lo Sgalambro farà al Podestà ci sarà quella di “approfondire i punti
oscuri da noi sopra segnalati e di non ingolfarsi leggermente in quistioni
gravissime e dispendiosissime, se non si riuscirà a lumeggiare e chiarire in
modo preciso e inequivocabile tali punti…”[34].
I “punti oscuri”
indicati da Sgalambro e fatti propri dal Podestà Consiglio[35]
possono riassumersi in tre interrogativi:
1) perché, dalle per
altro “diligenti indagini” per la rivendica, il Savagnone esclude ben 14 ex
feudi?
2) Perché il Savagnone
opta per la richiesta di rivendica del solo jus pascendi scartando gli altri usi
civici?
3) Come mai il
Savagnone suggerisce, per lo scioglimento degli usi civici, l’imposizione di
canoni enfiteutici annui e non operazioni divisorie[36],
anche se solo in parte e sulle terre non migliorate?
Mentre si rimanda agli
studiosi l’approfondimento della questione, è certo che il R. Commissario in
Palermo adotterà nella sostanza (tranne che per i 14 ex feudi per i quali
accetterà l’ammissione a rivendica avanzata dal Comune-Sgalambro[37])
la linea del Savagnone, procedendo alla liquidazione tramite assegnazioni di
canoni anziché alla divisione proposta dal Comune nei casi dei terreni che non
hanno “ricevuto sostanziali e permanenti migliorie”.
I
progetti di liquidazione del Geom. Portuso
Nel novembre del 1956,
in sostituzione dell’istruttore Filangeri, che aveva curato nel 1932 la
liquidazione dell’uso di pascere dell’ex feudo di Bonvicino, è incaricato
della formazione dei progetti di liquidazione di tutti gli altri feudi, il Geom.
Portuso[38].
Il Portuso procederà
“in base alla relazione storico-giuridica dell’Avv. Prof. Francesco
Savagnone.”[39]
alla redazione dell’istruttoria generale e quindi alla predisposizione dei
piani particolareggiati con computo dei canoni, feudo per feudo.
Del suo lavoro
rimangono alcune relazioni accompagnate dalla planimetria generale e da quelle
particolari degli ex feudi Biviere (fasc.9), Carmito (fasc.12) e
Armicci-Valsavoia (fasc.16).
Di particolare
interesse risulta il “Quadro generale” degli antichi feudi e terre di cui si
componeva il territorio di Lentini[40].
Al momento dello
scioglimento, com’era previsto, furono numerose le liti e, tra queste, quella
che riguardò le terre dell’ex feudo Carmito[41]
(la più completa per documentazione) meglio descrive il conflitto di interessi
che si scatenarono intorno alla questione dello scioglimento.
I
documenti “fuori data”
Rimane a spiegare la
documentazione “fuori data” presente nel fasc. n.5. Si tratta di un rogito
notarile del 1834 e della causa per lo scioglimento dell’ex Feudo S.Lio
(1870-1898).
Queste scritture erano
state richieste, a seguito delle osservazioni dell’Avv. Sgalambro, dal R.
Commissario ed inviate in copia al medesimo dal Podestà Consiglio nel dicembre
del 1933. Trovate sciolte tra documenti di altra natura si è ritenuto opportuno
riunirle al carteggio dal quale riteniamo provenissero.
In particolare: il
documento del 1834, “un documento che non è stato esaminato dal Prof.
Savagnone”[42],
è una atto rogato dal Notaio Bajone stipulato dal Comune e dai propri creditori
di soggiogazioni passive[43].
Con tale atto il Comune cede le proprie borgesie in cambio dell’estinzione
delle soggiogazioni. Sono facilmente deducibili le difficoltà, ben
evidenziate dallo Sgalambro nelle sue osservazioni, che una stipula del genere
comporta al momento della rivendica degli usi civici sulle borgesie cedute.
Anche la causa/sentenza
per l’ex feudo S.Lio pare non fosse stata consultata dal Savagnone. In seguito
allo scioglimento dei diritti promiscui (1838) pervenne al Comune (nel 1843) una
piccola parte dell’ex Feudo S. Lio e precisamente le “terre della città
vecchia” ovvero le terre dove era sita la città di Lentini prima del
terremoto del 1693. Queste terre, con sentenza del 30 giugno 1876, furono tolte
al Comune a favore del suo creditore D. Mario Scammacca. Tornarono, quindi, ad
essere oggetto di rivendica nel 1897, ma il Tribunale Civile di Siracusa
respinse la domanda. Con la relazione Savagnone, infine, tornano ad essere
oggetto di rivendica.
Delle cause per la
liquidazione degli usi civici di Lentini ne rimane aperta solamente una: quella
relativa all’ex feudo del Biviere. La Sentenza del 1983 dichiara estinto
l’uso civico di pesca sul lago mentre dichiara l’uso civico di pascere sulle
altre terre dell’ex feudo[44].
Tutte le altre cause si
sono chiuse con il riconoscimento degli usi civici e l’imposizione di canoni.
Manca ancora uno studio
degli esiti della liquidazione degli usi civici, ma certo è che le rosee
previsioni dello Sgalambro e gli auspici del Savagnone sulla grande ricchezza
che sarebbe venuta al Comune dal pagamento dei canoni e dalla quotizzazione si
sono dimostrate quanto meno azzardate e a tutt’oggi sarebbe da valutare il
rapporto tra entrate ed uscite per spese legali, perizie, ecc.
Di gran lunga più
consistente sarebbe dovuta essere la documentazione sugli usi civici del
territorio di Lentini, ma, com’è noto, non sempre si è riservata la giusta
attenzione alla conservazione delle fonti storiche.
Presso l’ufficio
legale del Municipio sono attualmente conservate tre buste con documentazione
relativa agli usi civici e ancora tre fasci di scritture[45]
si trovano presso il Commissariato per la liquidazione degli usi civici in
Palermo.
Ciò che resta
nell’archivio storico del Comune, tuttavia, con la relazione Savagnone, le
osservazioni dell’Avv. Sgalambro ed i disegni, è decisamente importante e di
sicuro valore per chi volesse intraprendere una nuova storia del territorio di
Lentini, delle sue usurpazioni, delle vicissitudini che portarono con la sua
moderna privatizzazione alla liquidazione dei diritti di uso comune
Salvatore
Stefano Bombaci
ARCHIVIO STORICO COMUNE di LENTINI
USI CIVICI
LIQUIDAZIONE
Fascicoli 1-17
[1]
La legge n.1766 del 16 giugno 1927
convertiva i RR.DD. del 24 maggio 1924 n. 751, del 28 agosto 1924 n 1484 e
del 16 maggio 1926 n. 859. Il regolamento attuativo del 26 marzo 1928 è il
n.332.
[2]
Il regolamento attuativo redatto da Tommaso Natale è del 1789. Com’è
noto all’eversione dell’asse demaniale municipale si accompagna
l’eversione dell’asse ecclesiastico che, già colpito nel 1768 con la
lottizzazione dei beni dei gesuiti, trova un primo punto d’arrivo con la
messa a censo dei beni delle chiese di regio patronato. Il colpo definitivo
sarà dato in epoca postunitaria con lo scioglimento delle corporazioni
religiose (1867).
[3]
Gli usi civici di cui fu fatta rivendica erano: il diritto di pascere, di
legnare, di far calce, di raccogliere mignatte (sanguisughe), far
mole, far sugheri, far giunco, cacciare, pescare, acquare, far canne, far
buda (erba).
In seguito gli usi civici
furono divisi in classi: essenziali, utili e dominicali
[4]
Per una storia degli usi civici: Romualdo Trifone, Gli usi civici, A.
Giuffrè ed.1963. Giovanni Cassandro, Storia delle terre comuni e degli
usi civici nell’Italia Meridionale, Biblioteca Cultura Moderna.
[5]
Si veda l’articolo 176 della legge
amministrativa del 12 dicembre 1816 e l’articolo 5 del R.D. del 19
dicembre 1838.
[6]
Astengo, Nuove
illustrazioni della legge comunale e provinciale del 20 marzo 1865,
in appendice alla Guida Amministrativa, 1870.
[7]
La citazione è tratta da Scirocco in “Ferdinando II e la Sicilia: gli
anni della speranza e della delusione (1830-1837) ” in “I moti
del 1837 a Siracusa e la Sicilia degli anni trenta”, Ediprint 1987, a
cura di Salvatore Russo.
[8]
Prova di possesso comunale anteriore all’usurpazione e prova della
illegittima occupazione posteriormente al possesso che si assume.
[9]
La relazione per la Sicilia è del 1883.
[10]
La citazione è tratta da Aristide Battaglia, L’evoluzione sociale in
rapporto alla proprietà fondiaria in Sicilia, 1895. Riedizione a cura
della Regione Siciliana nel 1974.
[11]
Ci riferiamo al carteggio tra il Sindaco e l’Intendente sull’esistenza
di usi civici sul territorio di Lentini. “In questa comune non esistono
demani di sorta veruna” così rispondevano nel 1842 il decurionato e
il Sindaco Scapellato alle insistenti richieste dell’Intendente di
Siracusa (ASCL, C, Reg. Deliberazioni, n°9, c.65). Si vedano
anche le cause per lo scioglimento su 11 ex feudi, in particolare sul feudo
del Bosco in possesso al Barone Beneventano (ASCL, B, n°149 e 150).
[12]
F. G. Savagnone, Relazione sugli usi civici e sul demanio universitario
di Lentini”
in ASCL, Usi civici, fasc. n°4
[13]
Di diverso avviso sembra essere il Renda si veda il suo articolo citato
nella nota n°39
[14]
Ai comuni spettava 1/3,1/4 e 1/5 del fondo a seconda che gli usi civici
dimostrati fossero di 1°, 2° o 3° classe.
[15]
Astengo, Nuove illustrazioni della legge comunale e provinciale del 20
marzo 1865, in appendice alla Guida Amministrativa, 1870.
[16]
La legge n.1766 del 16 giugno 1927 convertiva i RR.DD. del 24 maggio 1924 n.
751, del 28 agosto 1924 n 1484 e del 16 maggio 1926 n. 859. Il regolamento
attuativo del 26 marzo 1928 è il n.332.
[17]
ASCL, Usi Civici, fasc. n°2. Lettera del Podestà Cicirata al
Prefetto di Siracusa dell’8 set. 1930.
[18]
ASCL, idem, fasc. n° 3. Lettera
del Podestà Cicirata all’Avv. Alfonso Gugino del 29 ott. 1929
[19]
ASCL, idem, 1929 ott. 8. La lettera dell’Avv. Gugino scritta “nell’interesse
mio e di tuo padre” è indirizzata ad Alfio Cicirata, figlio del
Podestà Francesco, “poiché il Comune sino ad oggi non si è occupato
della quistione”.
[20]
ASCL, Usi Civici, fasc. n°3. Lettera dell’Avv. Giuseppe Drago al
Podestà, del 14 ott. 1929
[21]
L’art.3 della legge del 1927 prevedeva che l’azione legale di
scioglimento potesse essere avanzata anche da parte di privati.
[22]
Il termine borgesia, in senso stretto, denotava il diritto di pubblico
pascolo con pagamento del relativo erbaggio. Borgesia era ancora la terra
comune concessa a privati per far masseria. Il contratto di borgesia
consisteva nella concessione in possesso di un determinato fondo. Tuttavia
la disponibilità del fondo in possesso era ristretta a sole due terze parti
ed in subordine al diritto di pascere che il Comune si riservava in quanto
proprietario. Si trattava quindi di un possesso limitato al godimento del
jus arandi, al diritto di compascolo, a quello di farvi masseria (arbitrio).
La concessione in possesso era a tempo indefinito, gratuita ed esente da
canone ed avveniva per richiesta del contadino. Il contadino divenuto
borgese non era quindi proprietario allodiale né enfiteutico, ma possessore
con limitato uso del possesso.
Per una più estesa e
puntuale trattazione vedi la “Relazione” di Savagnone, vol. 1°, pgg
256-284.
[23]
Le Borgesie non si gabellavano in blocco, ma in partenze (lotti)
distinte topograficamente.
Il gabelloto ovvero
l’appaltatore (liberatario) della tassa sulle pecore e capre possedute
(che comportava il diritto di pascere sulle terre comuni e su quelle date in
borgesia), pagava in blocco la cifra risultante dall’incanto e riscuoteva
le singole partite dai borgesi per il compascolo sulle borgesie e dai
contadini per il pascolo sulle borgesie e terre comuni.
[24]
ASCL, Usi Civici, fasc. n.5, “Osservazioni” dell’Avv.
Francesco Sgalambro sulla relazione Savagnone per lo scioglimento degli usi
civici della città di Lentini, 1933 feb. 10
[25]
ASCL, idem
[26]
ASCL, idem, fasc. n.1
[27]
E’ del 1857 la spartizione del territorio di Lentini con Carlentini: al
primo resteranno i 3/5 al secondo andranno i 2/5.
[28]
ASCL, Usi Civici, fasc. n.4
[29]
ASCL, idem, fasc. n.5
[30]
Qualora fosse stato impossibile produrre documenti era “ammesso
qualunque altro mezzo legale di prova” (art. 2).
[31]
In Reg. G. It. 1931, voce “usi civici”, nn.159 e 162
[32]
Va inoltre detto che anche grazie alla gran quantità di documenti che il
Savagnone cita come carte dell’Archivio di Lentini, si ha conto di ciò
che è andato perduto in documentazione, come ad esempio l’importante “Libro
di varj privilegi”.
[33]
ASCL, Usi Civici, fasc. n.5
[34]
ASCL, idem, fasc. n°5
[35]
ASCL, idem, “Osservazioni del Podestà” del 20 febbraio 1933
[36]
La liquidazione prevedeva come compenso una porzione del fondo gravato (o
della parte del fondo gravata) dagli usi civici, che variava secondo la
classe (prima: essenziali; seconda: utili). Solo nel caso in cui le terre
fossero state occupate da più di dieci anni e vi fossero state apportate
stabili ed opportune migliorie era prevista l’imposizione dei canoni di
natura enfiteutica in luogo della divisione.
[37]
ASCL, idem, lettera del R. Commissario al Podestà del 1 giugno 1933
[38]
ASCL, Usi civici, fasc. n.11
[39]
idem
[40]
idem, sottofasc. “Planimetria” 1958
[41]
idem, fasc. n.15
[42]
idem, fasc. n.5, “osservazioni” Avv. Sgalambro
[43]
Le soggiogazioni consistevano, in breve, nel diritto contrattuale del
creditore (soggiogante) a percepire una rendita sui beni stabili del
debitore (soggiogatario). Tuttavia la soggiogazione poteva
anche essere frutto di libera donazione ad un beneficiario (persona o
istituzione che fosse) senza alcuna contropartita. Per una più estesa
trattazione e per una descrizione di ciò che comportò la trasformazione
delle soggiogazioni in prestiti ipotecari, vedi Renda, “La
Sicilia e le leggi agrarie borboniche” in “I moti del 1837 a
Siracusa e la Sicilia degli anni trenta”, Ediprint 1987, a cura di
Salvatore Russo.
[44]
Archivio del Commissariato per la liquidazione degli usi civici in Sicilia, Lentini,
Prospetto riassuntivo delle cause di liquidazione, 1934-1983.
[45]
Ma anche in questo caso è certo che la documentazione avrebbe dovuto essere
di gran lunga più consistente.