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Il disastro del 1883

Una ricostruzione degli avvenimenti

Articolo da L'Araldo. Altri articoli.


La via sale sempre dolcemente verso Corenno. In fondo una delle ultime case è un'osteria linda, dai muri dipinti a rosso, all'insegna del SOLLIEVO, che a caratteri cubitali verdi campeggia in una delle facciate. Di faccia a questa è il sito della catastrofe.
Il SOLLIEVO - che ironia di nomi - ha uno STALLAZZO di faccia. Questo al pianterreno una scuderia, al primo piano uno stanzone, che serve da fienile e da ripostiglio. Fu qui che ebbe luogo la rappresentazione. Esso dà sulla strada, e dalla parte opposta sopra un cortile, confinante con vigne, il quale è riservato al gioco delle bocce.
Del cornicione del tetto rimangono alcune travi, il tetto fu completamente distrutto.
Si sente un odore che va alla testa di carni e di vesti bruciate...
Dinanzi alla porta vi è un centinaio di persone; ognuna di esse ha un lutto in famiglia. I loro lamenti sono strazianti.
Entriamo da una porticina in un andito, che va direttamente nel cortile. Al muro è ancora attaccato il manifesto dello spettacolo; nessuno ha pensato di toglierlo.
A sinistra una porta conduce nella scuderia - vuota.
Ma noi abbiamo fretta di entrare nel cortile, ove alcuni uomini stanno inchiodando le casse delle vittime. Sono una in fila all'altra. I cadaveri sono uno per cassa con un numero sopra scritto a lapis sopra un pezzo di carta, numero che fu il primo segno per ordinarli e cercare di riconoscerli.
Il Sindaco ci aspetta. E' un bell'uomo, tipo di campagnolo. Veste quasi da contadino con un gran cappellone di paglia. Sulla faccia gli si leggono i sentimenti che gli sconvolgono l'anima. E' pallido, quasi stralunato; si direbbe che si sveglia da un sogno crudele e non sa ancora se dorma o sia desto. Egli ci guida nella visita dei cadaveri...
Ah no, io non avrò mai il coraggio di tentare nemmeno una descrizione di questo spettacolo. Li veggo ancora rannicchiati fra quei legni bianchi, con poche vesti lacere in dosso.
Alcuni sono mummificati, neri, irriconoscibili; altri conservano quasi intatta la figura e la faccia; chi manca di un piede, chi di un braccio ed i filamenti carnosi si protendono innanzi mostrando lo stiramento di un orribile strappo. I cadaveri sono gonfi, in pose disperate quasi tutti con le braccia in su - per farne uno schermo contro la folla che li schiacciava. Le carni hanno colori che rivoltano; la pelle è in molte parti sollevata, divelta, incartocciata...
La prima cassa contiene un uomo, ha i calzoni e le scarpe che non si direbbero tocche dal fuoco. La seconda è una giovane, una di quelle ragazze forti, robuste di queste montagne. Poi tre bambini, e avanti, avanti più si prosegue e più si sente mancare il coraggio di finire la visita.
In fondo alla prima fila tre casse: quella di mezzo è una donna incinta; tra le ginocchia tiene un bambino di pochi mesi carbonizzato col cranio spezzato che lascia vedere il cervello; le due casse ai lati servono di asilo a due ragazzetti figli della stessa donna - una bambina ed un maschio. Una intera famiglia.
Un uomo vicino a noi, ancor giovane, piccolo, dall'occhio straordinariamente brillante, con verbosità con verbosità che fa stupore ci spiega:
- Questa è mia moglie e questi sono i miei figli. Non ho più nessuno.
E dice ciò con il sorriso e l'indifferenza che se quelli dormissero Egli ci segue poi dappertutto spiegandoci minutamente ogni cosa, con un sangue freddo da sbalordire. Lo dicono scemo - è semplicemente pazzo.
Ha nome Giovanni Battista Carrera e lavora da fabbro. Dal principio alla fine egli assistette a tutti gli episodi della catastrofe e fu uno dei più pronti ed operosi nel recare i soccorsi. Il Carrera stava alla porta di ingresso aiutando la sorella del marionettista - quasi cieca - a raccogliere i biglietti.
Dal cortile si sale alla stanza superiore mediante una scaletta di pietra senza ripari, di diciotto gradini che termina in un piccolo pianerottolo sul quale si apre la porta. La sala è larga m. 5,80 e lunga circa 10 metri. Dalla parte della strada ha tre finestre che prospettano l'osteria del Sollievo. Dalla parte opposta vi sono oltre la porta due altre aperture. Tutte erano senza vetri o imposte. E' quindi inconcepibile come pochi abbiano avuto la presenza di spirito di gettarsi per quella via e salvarsi. Il salto non è pericoloso - cinque metri circa. Nel momento del panico tutti si gettarono verso la porta e stretti uno contro l'altro successe l'ecatombe.
Il marionettista Sartirana Alessandro di Milano era da alcuni giorni a Dervio. Stava con la moglie, una figlia e la sorella che lo aiutavano. Avevano cominciato a recitare in una osteria distante dal Sollievo, poi avevano chiesto al Sindaco di passare nello Stallazzo di questo, ma il Sindaco rifiutò il permesso non già perché il sito presentasse pericolo - questa idea non gli passò neanche per la mente - ma perché il Sartirana non non voleva o non poteva pagare la tassa di bollo sulla licenza. Nonostante la mancanza di permesso il Sartirana aveva trasportato le sue robe e sabato diede la prima rappresentazione nel nuovo locale. Tutto andò benissimo; il Sindaco non ebbe il coraggio di prendere una iniziativa che riteneva odiosa ed il Sartirana dette la rappresentazione di domenica sera che finì come sappiamo.
Il palcoscenico era posto sopra un mucchio di fieno (!!!) ricoperto di uno strato di bruco. In fondo alla sala, vicino all'ingresso, un altro palchetto raccoglieva i fortunati che potevano permettersi il lusso di andare nei primi posti. Il rimanente della sala era occupato da posti ordinari.
La rappresentazione andò senza incidenti fin verso la fine. Vi erano circa ottanta persone. Al momento in cui Santa Filomena sale in paradiso, fu acceso il fuoco d'artificio cui si deve il disastro.
Una scena fu la prima ad andare in fiamme. Una lingua di fuoco irruppe nella sala. Il brigadiere delle guardie di finanza della brigata di Dervio - Nodari Bettino - che si trovava lì con due guardie - essendo vicino all'orchestra e quindi al palcoscenico, si slanciò subito con le mani avanti per arrestarla. Ma in un attimo il fuoco investiva la sala. Il vento che soffiava dalle finestre fece viemmeglio avvampare le fiamme.
La gente corse all'uscita. Le due guardie saltarono in strada e non si fecero alcun male. I primi vicino alla porta scesero a precipizio le scale. Tutti volevano passare in una volta sola. Un ragazzo di quattordici anni, certo Dettamanti Aronne, figlio del padrone dell'osteria Del Popolo, inciampò e cadde. Su quel primo ostacolo s'arrestò l'onda della folla e cinquanta individui s'ammucchiarono in uno spazio di due o tre metri quadrati.
In un attimo tutto il paese si precipitò allo Stallazzo. Il Sindaco corse a prendere la pompa; le campane suonarono per chiamare aiuto. Le fiamme furono viste da Corenno, da Bellano. Da entrambi i paesi partì tosto della gente.
Da Corenno corse il sindaco sig. Leonardo Andreani ed il fratello Gerolamo. Il primo si trovava già a letto e fu svegliato dai rintocchi della campana.
Da Bellano partì il dott. Cattaneo Rodolfo assieme ai signori Cariboni Luigi, Mazzoleni Giovanni, Magni Amilcare e Callegari Giuseppe. Due carabinieri partirono di corsa appena avutone avviso ed in quindici minuti superarono la distanza di circa cinque chilometri che vi è da Bellano a Dervio. Essi giunsero prima del loro brigadiere che era stato invitato su una vettura da alcuni signori che si stavano recando sul luogo dell'incendio. E da Bellano partì pure quel signor Pretore - il signor Giovanni Fantini - che in questa circostanza spiegò un'attività e una intelligenza superiori ad ogni elogio.
Ma dove cominciare l'opera di salvataggio?
Lo Stallazzo era un'immensa fiamma. In pochi istanti crollò il tetto. Due o tre persone - fra questi una donna ed il brigadiere Nodari - poterono saltare sopra le teste delle vittime e scampare da certa morte. Le scene più strazianti successero da mezzanotte al mattino. Soltanto verso le due l'incendio fu spento in modo da poter pensare alle vittime.
Verso quell'ora il sig Callegari salì la scaletta. La porta era barricata di cadaveri, l'un sopra l'altro. Su tutti sovrastava un uomo tarchiato che era riuscito a rimanere in piedi. Era morto, ma nell'atteggiamento di un gladiatore che tenta uno sforzo di muscoli disperato per liberarsi dalle strette di una fiera.
Un ragazzo - certo Arrigoni - viveva ancora e fu tolto di là sotto in modo che si spera di salvarlo. Un uomo si era aggrappato alle guance di una donna e le aveva conficcato le unghie nella carne quasi da strappargliela. Il signor Callegari raccontandoci questo quadro rabbrividiva ancora.
Quel tal Carrera di cui narrai il caso atroce instancabile nell'opera sua. Prima andò in cerca della moglie e dei figli e li tolse fuori adagiandoli lui stesso con indifferenza rara nel cortile. Poi lavorò efficacemente, eroicamente.
Si dovette entrare dalle finestre e cominciare a sciogliere il mucchio dei cadaveri. [...]


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