Maria
Suriani la brigantessa?
Nell’ottocento
le donne erano “ le regine del focolare domestico”, le signore
dell’alta società erano considerate, invece, alla stregua di merce di
scambio per combinare vantaggiose alleanze. Le aristocratiche avevano come
vezzo quello di svenire, le popolane, invece, abituate al duro lavoro dei
campi, non disdegnavano
grandi sacrifici. Non desta meraviglia, quindi, che il gentil sesso abbia
avuto un ruolo attivo durante il brigantaggio, condividendo con i loro
colleghi maschi pericoli, rocambolesche fughe, oltre che ai lavori
forzati, per sottacere le torture e i plotoni d’esecuzioni.
Le
brigantesse
Queste
donne non erano solo e semplici “mantenungole”, cioè
collaborazioniste, “drude” o “ganze”, termine denigratorio per
indicare fidanzate, amanti, compagne o mogli dei briganti, molte di esse,
invece, erano vere e proprie brigantesse, molto più spietate e
determinate degli uomini rappresentando gli effettivi boss.
Molte
di esse furono incriminate come autrici di efferati delitti, per fortuna,
furono poche quelle che finirono giustiziate, poiché l’autorità
giudiziaria le condannava, di regola, a 15 anni di lavori forzati o
ergastoli, a differenza dei loro colleghi maschi che furono quasi tutti
torturati e giustiziati.
Esse
vestivano come uomini, maneggiavano le pistole, fucili coltelli e
qualsiasi altro strumenti di offesa, come degli esperti uomini d’arme,
nascondevano le loro lunghe capigliature sotto il cappello
all’aspramente, cioè a larghe falde, e alcune di loro riuscivano anche
a dissimulare gravidanze calcolate, così da usufruire i benefici della
legge; era difficile, quindi, per i soldati riconoscerle se non all’atto
dell’arresto.
Molte
donne furono seviziate dagli allora tutori dell’ordine e questo fu,
forse, causa di suicidio di molti militari di leva, che dovettero
assistere, tra le tante crudeltà, anche a efferatezze del genere.
Queste
brigantesse erano molto appassionate, cioè amavano i loro uomini fino a
lasciare il consorzio civile e “darsi alla macchia”; ma pretendevano
di essere ricambiate alla
stessa maniera e una volta tradite, esse non esitavano
a denunciarli o
ucciderli con le proprie mani.
Una
di queste figlie d'Eva dell’Italia preunitaria, si legò a un brigante,
diventando brigantessa a sua
volta. Quest’uomo violento, al disgregarsi della sua banda, andò a
vivere con la sua compagna, suo figlio piccolo e due cani feroci, in uno
dei tanti anfratti tra la Calabria e la Basilicata; l’uomo odiava suo
figlio e quando una sera, braccati dalla forza pubblica, il bambino iniziò
a piangere, l’uomo lo scaraventò contro una roccia appuntita e
fracassandoli la testolina.
La
donna, chiusasi in un mutismo pieno di odio, seppellì il bambino, ma
quando il bruto si addormentò gli sparò un colpo di pistola in mezzo
alla fronte; dopodiché, tagliatagli la testa, la portò al primo posto di
polizia riscuotendo la taglia che pendeva sul capo del suo compagno.
Questo fatto alquanto cruento ci dà la misura delle grandi passioni di
cui esse erano capaci.
Un’altra
di queste donne non esitò a trucidare la sorella quando seppe che aveva
avuto una relazione con il suo uomo, e nonostante la famiglia la ripudiò,
essa non si disse per nulla pentita dell’ omicidio.
Queste
“signore” erano per la maggior parte ex prostitute, ma non mancavano
donne oneste o addirittura anche aristocratiche come contesse, duchesse,
etc. affascinate da questi uomini “belli e dannati”.
Un
caso emblematico è quello della duchessa Anna Durante, figlia di un
inflessibile magistrato ucciso crudelmente dai briganti.
La
duchessa Anna
Il
duca Giovanni Durante era un magistrato molto severo, poiché aveva fatto
impiccare molti briganti ed era un alto funzionario della procura
pugliese. Egli era considerato un vero nemico di questi fuorilegge, così
i fratelli Vardarelli, Gaetano, soprannominato anche il “Gran Vardarello”,
Giovanni, Geremia e la sorella Anna Antonia Meomartino, che erano molto
temuti anche nella zona dell’alto vastese, un pomeriggio mentre
l’anziano magistrato riposava, lo presero ed impiccarono a un grosso
albero del suo giardino. Poco dopo si udirono dei colpi di fucile
dall’interno della casa e il Gran Vardarello, entrato di soppiatto,
catturò Anna Durante, mentre cercava di ricaricare il fucile. La leggenda
vuole che questa si innamorasse perdutamente del suo aguzzino e, rinnegata
dall’aristocrazia dell’epoca su di lei e sul suo grande amore scese
l’oblio.
Sarebbe
scontato pensare che questi fuorilegge fossero così efferati, in vero,
anche i tutori dell’ordine non erano così
benevoli nei confronti di queste persone “al limite”. Secondo
testimonianze dell’epoca, molti uomini e donne furono accusate
ingiustamente di crimini non commessi
e si videro confiscare i loro pochi beni da burocrati e funzionari
corrotti, i quali, per un semplice sospetto, potevano incriminare onesti
cittadini, i quali si davano alla macchia per potersi salvare. In quei
tempi così turbolenti si era diffuso un clima da “caccia alle
streghe” e un semplice pettegolezzo diffuso da persone maligne o
interessate, poteva diventare, in sede di tribunale, una condanna a morte
con conseguente rovina finanziaria di tutto il parentato.
Un
caso rappresentativo potrebbe essere quello di Maria Suriani la quale fu
probabilmente accusata ingiustamente di mantenungolismo.
Maria
Suriani
Nel
maggio del 1866 la banda Cannone ebbe uno scontro a fuoco con i militari
nelle campagne di Atessa, vistosi a mal partito il brigante Domenico
Valerio, detto Cannone, si disfece di diversi oggetti tra cui una tunica
decorata, nel cui interno vi erano dei fazzoletti ricamati e delle lettere
d’amore indirizzate a lui personalmente.
Queste
lettere portavano la firma di Maria Suriani, una bella ventenne bionda,
nata ad Atessa nel 1846 essa ebbe una storia d’amore con il brigante
Capitano Cannone ma il suo idillio si interruppe bruscamente nel 1863
Maria
Suriani di Pasquale, era una contadina benestante, e aveva un reddito di
circa “Mille Lire” di quel tempo; essa viveva con i suoi genitori
anche essi contadini. Questo “status sociale”attirò la rivalità di
alcuni parenti e vicini, che rosi dall'invidia non esitarono a denunziare
questa ragazza, forse, innocente.
Una
sera come tante altre Cannone e il suo luogotenente Policarpo Romagnoli
andarono a fare visita ai vicini e parenti dei Suriani, i Tano, passarono
alcune ore e Domenico Valerio e il suo vice entrarono come due furie nella
casa di Maria e avvicinatisi a Pasquale gli diedero un sonoro ceffone,
minacciandolo di morte se egli avesse fatto la spia presso le autorità.
Probabilmente i vicini avevano accusato i Suriani di essere degli
informatori al soldo dei “Militi”.
Intanto
si fece giorno e Pasquale andò, a denunziare questa intimidazione, il
sindaco lo rassicurò dicendogli che avrebbe mandato qualcuno per
verificare l’effettiva presenza dei briganti in zona. Il contadino uscì
trafelato dal Comune e riprese la strada verso casa; ma a casa lo
attendeva una dolorosa sorpresa: Domenico e Policarpo lo stavano
aspettando e dopo avergli mostrato una lettere del sindaco, nella quale si
diceva che il suddetto Pasquale li aveva denunziati per minacce, i due
bruti riempirono di botte il malcapitato e appena terminato la loro opera
i due andarono alla masseria dei Tano.
Passarono
alcune ore e sopraggiunsero anche i gendarmi, i quali non vedendo alcun
brigante da quelle parti, picchiarono di nuovo il povero contadino per
collaborazionismo con i briganti. La
figlia, allora raccolse il tumefatto padre e lo mise a letto dove restò
per sei mesi, sospeso tra la vita e la morte. Passarono alcuni mesi e
Maria fu arrestata con l’accusa di essere la “druda” di Cannone e
mandata a scontare le sue colpe in Sardegna; ma dopo nove mesi di custodia
cautelare, essa fu ospite delle carceri di Chieti, dove revisionata la
causa, fu prosciolta per mancanza di prove, visto che nessuno volle
testimoniare contro di lei.
Nel
1866 le lettere trovate nella tunica del Valerio rappresentavano quasi una
confessione, peccato però che Maria fosse del tutto analfabeta. La legge
voleva, comunque trovare in lei un capro espiatori e così il giudice
Raffale Finamore pensò bene di far perquisire la casa dello zio di Maria,
Fra Camillo, per trovarvi qualche traccia di quelle lettere, dato che in
casa di Maria non si era trovato nulla di compromettente; ma anche così
non si arrivò a nessuna prova concreta e schiacciante.
Maria,
comunque, fu condannata ai lavori forzati, ma dopo cinque mesi, con la
revisione del processo voluta da Maria stessa essa fu prosciolta per
mancanza di prove.
A
questo punto è legittimo dubitare se Maria fosse davvero l’autrice di
quelle lettere; se non le ha scritte lei chi fu l’autore di questo
macabro scherzo, infine perché Valerio si disfece solo della tunica e dei
fazzoletti che recavano la firma di Maria? E il mistero continua…
Il prossimo mesi ci
occuperemo dei “Segni”
Divini e non.
Di
Nicoletta
Travaglini
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