Tu mi chiedi quale sia lattuale situazione della poesia
romana.
Da quel poco che conosco non ravviso gran differenza tra il poetare
romano e quello fuori porta. Non sono in grado di fare sottilissimi
distinguo. Forse i "poeti" romani sono un po' più
incazzati a causa del traffico.
Ad ogni buon conto posso azzardare un'affermazione: avendo noi
appreso a scuola che la poesia è morta continuiamo a piangere
in prosa dietro al funerale.
Il crollo d'ogni vertigine creativa era inevitabile in quanto
coscienziosamente dovuto. Alcuni "poeti" cercano rimedi
pescando frammenti nel blabla iperversale tirandone fuori white
noise oral-poetico. (Ci ho provato anch'io.)
Oltretutto le migliaia, forse decine di migliaia di parole ritenute
utili, sono state quasi del tutto permutate dai cosiddetti poeti
e dai media, quindi il linguaggio è diventato stantio,
stanco, consumato.
Per ragioni forse biologiche le Voci tacciono o quantomeno non
transitano più dalla parte destra alla sinistra del cervello.
Possono apparire "poeti" forse i fisici, gli astrofisici,
i biologi; di sicuro gli ultimi genuini sono gli schizofrenici:
questi sentono le Voci e non si preoccupano di scrivere alcunché.
Rammento di averne incontrato uno qualche anno fa sul Lungotevere
all'altezza di Ponte Vittorio. Non so il Suo nome. Un Nessuno.
A me sembra che i testi di poesia, nella forma espressiva che
sappiamo, usino un linguaggio non più praticabile, inadatto
a stimolare una qualsiasi emozione o meraviglia. Emoziona di più
un buon testo di fisica delle particelle o di biologia.
Forse occorre introdurre un nuovo concetto e un diverso essere-uomo
che, fatti propri i nuovi mezzi, lo trasformi in un linguaggio
ex novo (come avvenne con l'avvento della scrittura), adeguato
a questa coscienza nuova.
Questo nuovo linguaggio sta spontaneamente iniziando senza il
contributo dei cosiddetti letterati professionisti? Boh!
Mi dispiace di non aver dato una risposta coerente alla domanda.
Questo è quel che riesco a pensare ora e quel poco che
conosco.