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La trimurti del romanzo americano: Hemingway, Faulkner, Scott-Fitzgerrald

Pier Francesco Paolini

 

 
 

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I. DILETTANTI E PROFESSIONISTI DELLA VITA IN HEMINGWAY

Ai piedi del monte Kilimangiaro, in Africa, un uomo giace — in attesa della morte — su una branda, all'ombra di una mimosa, guardato a vista da alcuni avvoltoi. La gangrena lo sta divorando, da quando si è graffiato con uno spino durante un safari. Quest'uomo, a nome Harry, è uno scrittore che ha "distrutto il proprio talento a furia di non usarlo". E ora, rivangando il passato, si rende conto di aver tradito sé stesso perché ha rinunciato ad essere un serio professionista per condurre una vita da allegro dilettante. Ormai è troppo tardi e, nel corso dei suoi amari rimuginamenti, incorriamo in questo illuminante scambio di battute fra il moribondo e sua moglie:

Mi sto annoiando da morire — egli pensò — come di qualsiasi altra cosa. "È una noia," disse ad alta voce. "Che cosa, mio caro?" "Qualunque cosa che tu fai troppo maledettamente a lungo."

La citazione è tratta dal celeberrimo racconto "Le nevi del Kilimangiaro" di Ernest Hemingway. In un altro racconto dal titolo "Un idillio alpino" troviamo questo identico concetto — sebbene in un contesto tutt'altro che drammatico — espresso nel dialogo fra due turisti reduci da un'escursione in montagna.

"M'ero scordato il sapore della birra." "Io invece no," disse John. "Su alla baita, ci ho pensato un bel po'." "Mah," dissi io, "adesso ce n'abbiamo." "Non si dovrebbe mai fare alcuna cosa troppo a lungo." "No. Siamo rimasti lassù troppo a lungo." "Troppo maledettamente a lungo," disse John. "Non è bene fare una cosa troppo a lungo."

Questo tema, di qualcosa che "si protrae troppo a lungo" — sia l'attesa della morte o sia la mancanza di birra — spunta con tanta frequenza e insistenza qua e là, in tutta l'opera di Hemingway, da indurci a ritenere che si tratti di un sintomo ben preciso. Il sintomo di un malessere che affligge alcuni personaggi hemingweiani — quelli cioè che vivono la vita con spirito da "dilettante" nel senso più vasto del termine, in netto contrasto con quei pochi "eroi" che invece vivono da professionisti, quale che sia la loro vocazione, quali che siano il loro mestiere e il loro talento. Gli uni, i dilettanti, sono destinati alla sconfitta — morale o materiale — sono insomma dei falliti, mentre gli altri — i professionisti — saranno invece dei vincitori, anche quando "non prendono nulla" ("Winners Take Nothing" è un celebre titolo di Hemingway) e saranno, anche quando soccombono, degli invitti. "L'invitto" (The Undefeated) è appunto il titolo di uno dei maggiori racconti di Hemingway. È la storia di un anziano torero alle sue ultime armi, Manuel Garcia. Quando Manuel Garcia, appena uscito dall'ospedale, si presenta a un impresario di corride, la sua posizione di "professionista" si delinea dalle primissime battute.

"Perché non ti cerchi un impiego e non ti metti a lavorare?" "Non voglio lavorare. Sono un torero."

Anche ai consigli dell'amico Zurito, che gli chiede perché non la smette e non si taglia la coleta (cioè la treccina caratteristica dei toreadores) Manuel Garcia risponde con la stessa tenace semplicità: "Non lo so. Ma devo." E poi alla fine (sconfitto ma invitto) anche sul tavolo operatorio troverà in punto di morte la forza di opporsi al taglio di quel segno emblematico della sua professione e della sua illusione.

Dilettante è, dunque, bene spesso sinonimo di "fallito" nel mondo di Hemingway. E il malessere che affligge i suoi falliti è soprattutto una "noia" di tipo speciale, diversa dalla noia romantica degli eroi di Stendhal, dal tedio filosofico di Leopardi, o dalla inerzia di Oblomov, per fare tre esempi disparati. La noia di marca hemingweiana deriva dalla mancanza di un ubi consistam, di un perno intorno al quale ruotino il senso del dovere, l'impegno, l'ideale insomma di una vita professionalmente vissuta. Questo tema, con le sue variazioni, ricorre — come si è detto — in tutta l'opera di Hemingway. Se ne colgono rifrazioni in un racconto minore come Oggi è venerdì:

SECONDO SOLDATO: È che sei rimasto qui troppo a lungo.
TERZO SOLDATO: Non è questo, no. È che mi sento da cani.
SECONDO SOLDATO: Sei stato qui troppo a lungo. Ecco tutto. Se ne percepisce l'eco nel bellissimo racconto Colline come elefanti bianchi, allorché la ragazza che ha accettato, controvoglia, di abortire, dà obliquamente sfogo alla sua disperazione, dicendo:

"Non è forse, questo, tutto quello che facciamo? Guardare cose nuove e assaggiare nuove bibite?"

E così pure nel celebre racconto "The Killers" (I sicari) laddove un uomo braccato che attende l'arrivo dei suoi uccisori dice al giovane ch'è andato ad avvertirlo perché si metta in salvo:

"No, sono stufo di girare da un posto all'altro."

E così pure in quel capolavoro che è Il sole sorge ancora, da cui citiamo due diversi passi:

"Ascolta, Jake... Non hai mai la sensazione che tutta la vita ti passa accanto e tu... tu non riesci a trarne alcun profitto?" "Ascolta, Robert... andare in un altro paese non fa alcuna differenza. Ho tentato tutto questo, io. Non puoi sfuggire a te stesso spostandoti da un posto all'altro. Non c'è niente da fare."

In queste e altre consimili battute (ora dritte come frecciate, ora svagate come ritornelli; ora in situazioni centrali, ora in marginali episodi) ci è dato individuare un importante aspetto del dissidio interiore che angoscia chi non ha impegnato la propria anima, pienamente, in alcunché, ed è abbastanza cosciente e intelligente da rendersene dolorosamente conto. Uno smagliante esempio del conflitto, predominante nell'opera di Hemingway, fra queste due opposte concezioni di vita — che abbiamo, per comodità, definito "da dilettante" e "da professionista" — ci è offerto dal grande racconto Breve la vita felice di Francis Macomber. Al pari del protagonista delle Nevi del Kilimangiaro, anche Macomber è finora vissuto in un ambiente di ingannevole ricchezza, di "accidia e snobismo", ma ecco che, durante una battuta di caccia al leone, egli si rivela per quello che è in sostanza: un codardo. Ora, per lui il leone rappresenta il momento della verità, della crisi, del redde rationem. A questo dilettante si contrappone un professionista per antonomasia: il cacciatore bianco Robert Wilson, che sotto la maschera quasi cinica di uno che fa qualcosa solo perché è pagato per farlo, cela il volto di un vero umanista — a suo modo. Oltretutto, cita Shakespeare. Fra i due si inserisce la moglie di Macomber, Margot, la quale — obbedendo all'istinto primordiale e ferino di una lupa che sceglie il più forte del branco — per punire la codardia del marito, si concede al cacciatore di professione. Quando Macomber trova la forza e il coraggio di riscattarsi, la donna — con fredda determinazione, simulando un incidente di caccia — lo uccide. Leggiamo alcuni passi essenziali di questo stupendo racconto:

[Macomber] per la prima volta in vita sua non aveva alcuna paura. Anziché paura, dentro di sé provava un ben preciso senso di slancio vitale.
...Wilson lo guardò con ammirazione. Strano tipo costui, accidenti — pensò. Ieri era verde di paura e oggi eccolo là ... sembra un ammazzasette.
...Macomber provava una selvaggia irragionevole felicità, che mai aveva provato prima, in vita sua. ..."Sapete, non credo che avrò mai più paura di nulla, in vita mia," disse Macomber al cacciatore bianco. "Qualcosa è accaduto in me, dianzi: come alla rottura di una diga
... Mi sento assolutamente diverso...
Me la sentirei, sapete, di affrontare un altro leone. Non ho più paura di loro, adesso. Dopotutto, cosa possono farti?"
"Appunto," disse Wilson, "tutt'al più possono ammazzarti. Come dice, in Shakespeare?...
Vediamo, se me ne ricordo. 'Affé di dio, non me ne importa. L'uomo non può morire che una volta. A Dio dobbiamo una morte sola. E, vada come vada, chi muore oggi è franco per domani.' Dice bene, eh?"

Ma un colpo di fucile a tradimento arresta Macomber nel pieno del suo slancio vitale. Orbene, per Macomber il momento maligno della morte rappresenta il momento radioso e culminante della su "breve vita felice" e, quasi, il suggello del suo trionfo: la vittoria cioè della parte migliore di sé sulla paura che sta, oltretutto, a simboleggiare quanto c'è di dispersivo, di ignobile, e, nel senso tutto speciale — e specifico hemingwayano — che qui si è dato a questo termine, di "dilettantesco" nella vita umana.

***

Ernest Hemingway, di cui ricorreva nel 1999 il centenario della nascita, conobbe il successo ancor molto giovane; giunse all'apice di esso sui trent'anni, dopo la pubblicazione, nel 1926, del suo primo — e forse migliore — romanzo: The Sun Also Rises, Il sole sorge ancora — titolo alternativo Fiesta — e tre decenni prima che il Premio Nobel lo consacrasse ufficialmente, nel 1954. Un successo di stima, assai lusinghiero, gli aveva arriso — da parte di critici del calibro di Edmund Wilson e Lionel Trilling — fin dalla comparsa dei Primi racconti, pubblicati quasi alla macchia nel 1923-24 in edizioni di poche centinaia di esemplari. Il successo ben presto straripò — negli anni Venti — oltre i confini della patria, procurandogli in tutto il mondo estimatori e imitatori.
E il successo — si può paradossalmente dire — perseguitò poi Hemingway per tutta la vita, fino alla morte che, nel 1961, a soli sessantadue anni, egli si diede — come direbbe Shakespeare — "by self and violent hands" — di sua violenta mano. Perseguitato dal successo ... Tanto per fare della psicanalisi spicciola, non potrebbe esser questa la radice di quella mania di persecuzione che afflisse Hemingway — per citare ancora Shakespeare — fin sull'orlo dell'abisso estremo? Se non altro, questa ossessione ci aiuterebbe a spiegare la strana e — cito il critico Frederick Carpenter — "brusca alternanza di brillanti risultati e penosi fallimenti che caratterizza la carriera di narratore di Hemingway." E spiegare altresì, per insistere su un freudismo da orecchianti, i lunghi silenzi del grande scrittore: un silenzio di ben dieci anni, fra l'universale ma controverso successo di Per chi suona la campana apparso nel 1940 — e il 1950, allorché al "flaccido" e precocemente senile romanzo Oltre il fiume e tra gli alberi la critica decretò — con unanime disappunto e malcelato imbarazzo — un risonante e ben motivato insuccesso. Scrive al riguardo il critico tedesco Papajevski:

I personaggi di Oltre il fiume e tra gli alberi ci ricordano in modo eccessivo altri personaggi di precedenti opere di Hemingway: ma, mentre quelli balzavano fuori da una situazione originale ed erano sorretti da un'approfondita analisi dell'esistenza, questi, invece, non acquistano vita. La loro mancanza di originalità e, soprattutto, la loro dipendenza dall'imitazione fanno sì che risultino, non già di carne e ossa, bensì pressoché delle ombre.

 

 
 

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