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Quale strada, quale città?

Farzaneh Sianpour

 

Quella mattina, al momento in cui lei stava infilando le scarpe per uscire e andare al lavoro, la madre, mentre sparecchiava la tavola della colazione, starnutì. Non portava bene, per niente. "Aspetta un po' ", le disse raggiungendola sulla porta, "prendi un altro tè... Questa notte ho fatto un brutto sogno... sono preoccupata... aspetta ancora un pochino..."
"No, è già qualche giorno che arrivo tardi, penseranno che me ne approfitto... Se continuo così, c'è il pericolo che mi licenzino."
"Stai attenta, figlia mia... bada e te stessa... Dio ti protegga", e si mise a pregare.

Fino alla fine, fino a quando non avevano pronunciato la sentenza di condanna, lei aveva pensato che stessero scherzando. Perché proprio non capiva quale reato avesse potuto commettere. Poi un uomo barbuto di mezz'età, viso tirato, occhi aguzzi, naso a becco di pappagallo, capelli lisci che nascevano a metà della fronte, si presentò come il signor Mohammadì. Tirò a sé la poltrona di tela marrone e da un cassetto prese qualcosa. Fece vedere quello che aveva in mano: due pezzi di tubo metallico neri, uno più sottile e uno più spesso. Accostò al volto della ragazza la sua barba unta, non lavata da parecchi giorni, e ghignando chiese:
"Quale?". Aprì ancora la bocca. Lei vide i suoi denti cariati: "Ehi! Ce l'ho con te! Quale preferisci ?". Mostrava il tubo più spesso: "Non è meglio questo?". La ragazza non rispondeva. Allora alzò in aria, a mo' di frusta, il tubo più sottile e disse: "Questo fa più male a un'immondizia come te". Lo additava con l'indice dell'altra mano, scuoteva ritmicamente la testa a dire "sì, sì, sì". Poi si fermò: "Adesso ti faccio vedere".

Lei era disperata. L'aveva guardato, ma poi aveva sùbito chinato la testa: non voleva incrociare quello sguardo, le faceva troppo terrore.
Ormai non sapeva più quanto tempo fosse trascorso dal momento in cui era stata chiusa nel carcere, per quanto tempo aveva camminato in su e in giù dentro quella stanzuccia di sei metri quadrati. A forza di rincorrere dentro di sé la fine di quel gioco terribile e ridicolo, adesso non possedeva più energia interna. Non aveva fame. Solamente le bruciava lo stomaco.
Aveva cercato con la mano nella tasca del cappotto e ne aveva tirato fuori il suo specchietto. Lo portava sempre con sé. Gli occhi le si erano infossati. Il volto era pallido come la luna. Sulle guance ancora qualche segno di trucco. Si era detta di essere diventata più bella: il trucco non le stava male, anzi sembrava più logico.
Ora si domandava: "Ma che cosa mi sta succedendo?". Pensò: "Sto per morire. Non vedrò più nessuno...".

L'uomo d'un tratto parlò: "Hai paura? Sei diventata muta, eh?! Non hai più la lingua di prima! Ti piaceva chiacchierare al telefono con la gente, eh! Adesso hai finito le parole. Noi però qui abbiamo rieducato molte persone".

La ragazza guardava. L'uomo aveva la camicia bianca abbottonata fino al collo. Cominciò a rimboccarsi le maniche e le disse: "Alzati e vieni con me. Voglio farti vedere cose che non hai mai visto in vita tua".

Lasciarono la cella senza finestre dal pavimento giallo sporco e dopo un po' si fermarono in un corridoio stretto. L'uomo aprì la porta che aveva davanti a sé, entrò e comandò alla ragazza: "Entra".

La cella era più grande. I muri sporchi facevano capire con difficoltà che in origine il loro colore era stato il bianco. Al centro un grosso lastrone. C'erano un paio di grembiuli dotati di stringhe da legare dietro la schiena. L'uomo ne prese uno e chiese con atteggiamento arguto: "Sai dove siamo?". La ragazza deglutì, abbassò la testa e non rispose. "Siamo in un locale scucibocca". La guardò con un sorriso e aggiunse: "Se non ti senti comoda con quel vestito, puoi metterti questo grembiule".

La ragazza tremava. Rispose: "Non ho l'abitudine di usare gli abiti altrui. Sto bene così".
"Ci farai l'abitudine", osservò l'uomo aprendo la porta e uscì.

Sola, gli mancò il respiro. La paura non aveva più limiti. Non voleva pensare più a niente, non voleva pensare. La bocca secca e amara. Soffocava. Il cuore le ribolliva in petto, tentava di scoppiare. Aveva un battito acceleratissimo. In fretta allungò la mano e nella borsa afferrò il flaconcino con le pasticche. Cercò di ingerirle, ma la gola secca glielo impediva. La pasticca non andava né giù né su, era aspra.

La porta tornò ad aprirsi ed entrarono l'uomo di prima e un altro, che ghignava fisso e aveva una frusta in mano. L'uomo dal ghigno fisso frustava e l'altro contava:
"Uno... due... conta anche tu, così puoi controllare che non ti diamo più frustate di quante te ne spettano... tre...".

Lei irrigidiva i muscoli di tutto il corpo per sentire meno dolore. Promise a se stessa di non piangere, neppure se il dolore l'avrebbe fatta morire. Aveva un nodo in gola, che non capiva se fosse di dolore o rabbia. Pensò che lei non sopportava nessun dolore, addirittura non aveva sopportato una iniezione di penicillina. In silenzio contava: "... sette... otto...".

Arrivò il "dieci". Quando cominciò la seconda serie di dieci colpi, non ce la fece a mantenere il silenzio. Disse: "Ah!" e si mise a piangere.

L'uomo dal ghigno fisso non possedeva né scopo né dignità, semplicemente alzava il braccio e colpiva il corpo della donna. L'altro chiese:
"Ti fa male?". Nessuna risposta. Allora argomentò: "La sera vai a distribuire i volantini, eh!? Vedrai che te ne penti... Saied, tu conta fino a cento".

Lei non riusciva più a immettere aria nei polmoni. Si lamentò: "Fatemi almeno respirare!". Nel suo silenzio, dentro di sé delirava: "Quando arriveremo a cento, capirò che era solo un sogno, un brutto sogno, e a centouno mi risveglio".

Aveva smesso di lavorare alle otto. Seduta nel sedile posteriore del taxi osservava la città morta e muta. All'incrocio due bambini di cinque, sei anni vendevano sigarette. Uno di essi s'era accostato al finestrino e aveva detto: "Signora, signora, compra una sigaretta?". L'automobile aveva ripreso la sua strada.

Al semaforo successivo si era avvicinata una zingara. Aveva un bambino in braccio. Inchinando la sua fronte tatuata verso la ragazza, faceva oscillare un piccolo turibolo dorato: "Che bel corso lunare hai! Vuoi che il male si allontani per sempre da te?". Intanto aggiungeva incenso al turibolo. Quando però si era accorta che il taxi sarebbe andato via senza guadagno per lei, aveva gridato: "Brutta! Quanto sei brutta! Ma chi ti guarda a te, scimmia!".

Lei era rimasta soprappensiero e fu sorpresa quando la voce dell'autista le comunicò: "Signora, ho l'impressione che quella mercedes bianca ci stia seguendo...".

A quelle parole aveva avuto un sussulto al cuore e le era tornato in mente il tempo in cui un'altra mercedes bianca, senza targa, l'aveva pedinata per giorni mentre andava da casa al lavoro e dal lavoro all'università. Una volta quell'automobile aveva sorpassato il taxi in cui lei si trovava con altre persone e l'aveva fatto con una mossa così rapida e brusca, e a distanza così ravvicinata, che gli altri si erano spaventati. "Sembrano matti... non hanno nemmeno la targa", avevano commentato. Un'altra volta era stata invece una volkswagen a piazzarsi stabilmente davanti al suo ufficio.

L'autista aveva confermato: "Sono sicuro, signora, sta seguendo noi". Dopo qualche minuto, la mercedes aveva deciso improvvisamente di sorpassare il taxi e di tagliargli la strada. Il taxi si era fermato. Dalla mercedes erano scesi due uomini che, senza badare all'autista, avevano aperto lo sportello posteriore e le avevano intimato: "Scendi, scendi e vieni con noi".
zza si era rifiutata di uscire dal suo abitacolo. Aveva chiesto che si identificassero.

"Ecco qua", aveva detto uno dei due indicando l'arma dentro la giacca.

L'autista aveva cercato di intervenire ragionando che la cliente stava dentro il suo taxi e per questo si trovava sotto la sua responsabilità, ma i due lo avevano minacciato con le armi. Così aveva preferito pensare alla propria pelle.

La ragazza era uscita dal taxi, si era seduta nel sedile posteriore con uno dei due uomini e la mercedes era partita. L'uomo accanto a lei aveva cercato nella tasca della giacca, aveva tirato fuori un fazzoletto nero e le aveva detto di bendarsi gli occhi.

"Dove mi volete portare?!", aveva gridato mentre lui le infilava il fazzoletto nero in mano. "Che cosa volete da me?!"
"Sta' zitta. Poi capirai. Adesso fàsciati gli occhi. "
Con le mani tremanti la ragazza si era bendata. L'uomo aveva stretto forte il nodo dietro la sua testa.
Nella macchina era venuto il silenzio. Per tutto il tragitto i due non avevano più parlato. Lei impazziva di terrore. Si chiedeva dove la stessero conducendo e non sapeva rispondere. Dopo circa tre quarti d'ora l'automobile aveva frenato. Erano arrivati. L'avevano fatta scendere e condotta lungo un itinerario che non aveva decifrato.

Quando le avevano tolto la benda, era in una stanza. Qualcuno l'aveva spintonata verso una panca e una voce aveva comandato: "Siedi!".
"Dove mi trovo?", chiese. Era terrorizzata. "Cosa volete?"
"Dopo capirai."
Due ore, circa. Dopo l'avevano portata in una cella dal pavimento giallo scuro. Due sedie e un tavolo.

Sentiva che le stavano venendo le convulsioni e aveva tentato di calmarsi. Un solo pensiero: "Questa è la fine".
Il tempo passava. Nulla. La porta si era aperta ed era entrato un uomo di mezza età, barbuto, viso tirato, occhi aguzzi, naso a becco di pappagallo, capelli lisci che nascevano a metà della fronte. Mentre percorreva la distanza fra la porta e la sedia, era andato lisciandosi la barba. Poi aveva aperto una cartellina verde e alzando lo sguardo su di lei aveva detto:
"Guarda che faccia! Copri quei capelli, stronza, anche qui vuoi fare la scollacciata?". Lei pazientemente si era portata una mano sul quel poco di capelli che fuoriuscivano dal velo. "Allora, che notizie ci dài dei tuoi colleghi? Intendo i tuoi colleghi stranieri".
"Mah, non capisco di cosa stia parlando..."
"Fai silenzio, stronza... Quando t'interrogo, rispondi a tono... Lo sai benissimo di chi sto parlando... di quello a cui mandi i tuoi fax e che ti manda i suoi, che tu poi distribuisci... Che cosa avevate in testa? di vivere in una società senza padrone, senza regole, dove potete fare tutto quello che cazzo vi pare!"

"Quando arriva a cento? Perché non finisce?", si chiedeva la ragazza singhiozzando. L'uomo dal ghigno fisso frustava con tutta la forza. Forse pensava che dovesse pagare con il sangue il suo delitto.

Lei, ogni volta che riceveva un colpo, aveva un sussulto violento, incontrollabile. Se ne stava rannicchiata come una palla, con il viso tra le mani, per evitare che che la frusta la ferisse lì. Ogni tanto l'uomo aggiungeva un calcio al costato.
L'uomo aveva preso la borsa di lei, l'aveva messa sul tavolo, l'aveva aperta e ne aveva versato fuori tutto il contenuto
"Hai anche la tessera universitaria. Guarda un po', se gente come te deve infiocchettarsi con titoli sacri come questi... Certo che l'università ha proprio bisogno di una bella ripulita... tu e i tuoi simili avete trascinato l'università nella merda..."

"Ero studentessa... adesso non lo sono più... mi hanno espulso...", aveva sorriso lei conciliante.
"Hanno fatto benissimo!", aveva gridato lui. "L'università è di quei giovani mussulmani che hanno messo a disposizione la propria vita per difendere l'Islam e l'Iman... Loro hanno combattuto al fronte per far vivere a te e a quelli simili a te una vita tranquilla, e invece voi vendete il paese e ridete di loro... ridete di noi... Ma che cosa volete?! Cosa vi manca?! Non avete forse la libertà di dire tutto quello che vi pare?! Dentro quei vostri libri e quelle vostre riviste scrivete, scrivete e confondete le idee alla gente. Non passa giorno che uno scrittore non parli alle sedicenti radio straniere delle proprie sofferenze... Però dite che non c'è libertà!"

"Mah", aveva obiettato meravigliata, "i libri censurati dal Ministero della cultura islamica, le riviste sequestrate, le persone che non devono pubblicare...".
"Ma è ovvio", aveva interrotto lui, "che in una società islamica siano proibiti i libri che corromperebbero la gioventù islamica. Semplicemente non permettiamo che si scriva contro... Dove pensate di vivere? Siete in Iran e l'Iran è un paese islamico. Se non lo volete capire, prendete le vostre cose e andatevene affanculo."
cercato meglio nel portafogli di lei e aveva trovato altre tessere e biglietti da visita. "Cosa sono queste cose?" Tessere di giornali, fra cui Le monde e il New York Times. S'era messo a giocare con la propria barba, lentamente, dall'alto in basso, pensando. Poi aveva levato lo sguardo su di lei per inveire: "Che cazzo ci fai con queste, se non ti servono per fare la spia?" "È che i giornalisti...", s'era difesa lei, "tutti i giornalisti le hanno, in tutto il mondo... mica vuol dire fare spionaggio..."

Scuotendo minaccioso la testa, aveva infilato quelle carte e tessere nella cartellina verde. Poi tra gli oggetti che erano caduti fuori dalla borsa aveva afferrato un libro, aveva osservato con attenzione il nome dell'autore e s'era messo a sfogliarlo. Sulla prima pagina bianca c'era una dedica: "Ah, certo! Ti vuole tanto bene. È così che fate voi. Vi incensate a vicenda. Vi dedicate le poesie. Vi scrivere lettere di apprezzamento. Poi però non vi potete vedere uno con l'altro... Vi drogate... siete debosciati... pensate che tutta la vita sia sesso, fumo e alcool... Se fosse per me, avrei già eliminato la vostra razza... per la nostra società siete droga... un mazzo di personaggi bacati. Noi abbiamo tanti di quegli scrittori mussulmani, tanti di quei poeti... che un loro verso vale tutti i vostri libri messi assieme... Dimmi questo: hai letto i libri di Mehdi Shogiai o di Alì Mohrum?".

Lei su quel piano si sentiva in parità, quindi aveva affermato: "Decido io cosa leggere".
"Perché nessuno di quegli scrittori cui vuoi tanto bene ha mai scritto un romanzo sulla guerra? Eppure vivono in questo paese! Che, forse, non sono iraniani?".
"Ci sono scrittori che sono contro la guerra, contro le condanne a morte, contro ogni spargimento di sangue. Questi, se decidono di scrivere sulla guerra, dicono cose che non vi piacciono". Lui taceva, allora lei aveva preso coraggio e aveva chiesto: "Ma se avete già tanti scrittori mussulmani fedeli, che v'importa di noi?".

"Il tuo maestro t'ha insegnato ad avere la lingua lunga, eh! Troia... Ma chi ti credi di essere? Farò in modo che anche gli uccelli del cielo piangeranno per te! Ah, tu credevi che le tue telefonate non fossero sotto controllo... Ti faccio vedere io... Ti mando in un posto che non dimenticherai tanto facilmente"."Quando arriva a cento? Perché non finisce? Perché piango e non sopporto il dolore? Perché perdo così la mia dignità? Perché...? "

Quando la lasciarono stare e se ne andarono, era quasi priva di sensi.
Poi trascorse tanto tempo. Ore? Giorni? Quanto tempo? Non sapeva se fosse giorno o notte, solo sapeva che era stanca, molto stanca, stanchissima.
Si rendeva conto di essere su un'automobile. L'automobile marciava a bassa velocità, era quasi ferma quando una portiera si aprì e il suo corpo venne gettato fuori: "Adesso vallo a raccontare ai tuoi colleghi".
Riprese i sensi a poco a poco. Non capiva dove fosse. Su un'autostrada? Su una strada? Quale strada? Quale città?
Non riconosceva nulla. Lei che sapeva la città a palmo a palmo non si ritrovava. Adesso era tutto sconosciuto
Cercò di alzarsi. Si scosse un poco. A fatica si alzò in piedi. Tentò un passo. Le ginocchia si piegarono. Pianse senza vergogna.
Una macchina si fermò qualche metro più avanti, fece retromarcia fino a lei. Un uomo in ansia: "Sorella, hai avuto un incidente? Sei stata investita? Non ti senti bene? Vuoi andare all'ospedale?".
La ragazza scostò dura quella mano che cercava di aiutarla e piangendo disse: "No. Non è qui il mio posto. Io non sono di qui. Devo andare. Sono sicura che sono preoccupati per me. Devo andare".

Colonia-Roma 1999

 


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