Accanto a un'aiuola rastrellata di fresco mio nonno è in piedi
nell'erba umida e calpestata, e nota d'un tratto che il fruscio
delle foglie del noce ancora attaccate, ma già con gli orli marrone
scuro accartocciati, lo disturba. È troppo caldo per questo rumore;
un leggero vento caldo, che lascia intatta la coltre di nubi lassù,
nel giardino muove le cose in una maniera che a mio nonno pare troppo
giocoso. Scansa via con un gesto impaziente della mano gli aghi,
vaganti davanti a lui, dei due larici che mia nonna venticinque
anni fa ha trapiantato da un bosco svizzero. Il vento cade, il fruscio
cessa, il caldo stagna fra cespugli e alberi divenuti angolosi,
spigolosi.
"Jolan", chiama togliendosi la giacca. Mia nonna è nella parte
posteriore della casa, in cucina, e scuote la testa perché Ibolya,
la sua domestica, è la seconda volta che dice che oggi verrà la
fine del mondo oppure domenica prossima. "Jolan", chiama di nuovo
mio nonno, poi lascia cadere la giacca nell'erba accanto a lui.
È sabato, il 4 novembre 1961. Noi saremmo dovuti arrivare per il
pranzo la seconda domenica di ottobre, ma a quel punto non eravamo
più nel paese.
L'altro mio nonno siede nel suo negozio di articoli per la pesca
e attraverso la porta a vetri guarda fuori in direzione della strada.
La fine del mondo comincerà, stando a Ibolya, così: gli uccelli
improvvisamente resteranno muti. Mia nonna emette il fumo della
sigaretta e pensa alle cornacchie che, nel cosiddetto giardino di
sotto, sono posate sulle acacie e perlopiù gracchiano solo quando
si fa vedere la gatta. Poi verrà giù un buio che sarà come una stoffa,
un po' come la stoffa consumata di un cappotto portato parecchio.
Quando mio nonno chiamò per la seconda volta "Jolan", mia nonna
lo udì, dopo che le grandi foglie rigide della vite americana ancora
attaccate alla parete della casa anch'esse, con un piccolo differimento
di fase, ebbero cessato di frusciare. Adesso lei si gira indietro
e apre un istante il rubinetto per spegnere la sigaretta.
L'altro mio nonno, senza togliere lo sguardo dalla porta, cerca
a tasto nel cassetto del bancone le caramelle che ha fatto da sé.
Ibolya in cucina vuol cominciare i preparativi per la fine del
mondo. Mia nonna esce dalla cucina. Fuori mio nonno cerca qualcosa
nell'erba, un ginocchio a terra. Poi si raddrizza di nuovo con un
movimento rassegnato della mano. In due lettere consecutive ha scritto
che sogna cose che il giorno dopo accadono davvero; ma che comunque
si tratta sempre di piccolezze. In sogno vede qualcuno con un pullover
verdechiaro, e il giorno dopo c'è qualcuno con quel pullover che
va bilanciandosi sul ciglio del letto asciutto del ruscello lungo
lo steccato del giardino di sotto. Oppure vede il guanto di pelle
color marrone scuro che qualcuno il giorno dopo sulla strada davanti
al cancello del giardino fa cadere, raccoglie e s'infila. Nel sogno
lui ha visto anche un cadere e un raccogliere, ma separati dal guanto.
In un poscritto alla seconda lettera dice di aver concluso che si
tratta di sogni non profetici, ma del tutto ordinari. La loro singolarità
sta soltanto nel fatto che essi, invece di servirsi di elementi
della giornata trascorsa, utilizzano elementi del giorno seguente.
Il pullover e il guanto in sé sono privi di significato, come al
solito il sogno li usa solo per rimandare a qualcosa che sta nella
psiche di chi sogna. A che cosa però, nel caso dei due sogni, lui
non l'ha capito. Si chiede tuttavia se questo sognare significa
che il giorno seguente è già avvenuto oppure se ci si deve immaginare
che il tempo stia a forma di cerchio attorno al momento presente,
di modo che si possono vedere le cose in ogni direzione. Lui comunque
non intende che tempo ed evento sarebbero identici, il tempo sarebbe
piuttosto come una nuvola di possibilità.
Mia nonna torna in cucina e mette una mano sul radiatore, freddo.
Siamo stati giudicati e condannati? pensa. Ibolya apre di nuovo
l'anta sinistra della finestra che è andata a sbattere su quella
destra chiusa. Come sempre il sabato sulla strada davanti al cancello
del giardino non si muove nulla, le foglie cadute dal cosiddetto
noce di davanti giacciono integre sul marciapiede. "Ibolya, veda
un po', per favore, cosa vuole mio marito", dice mia nonna. Ibolya
va alla porta della stanza da pranzo e la apre tenendo gli occhi
spalancati. Qui è scuro da quando l'arbusto di fico sotto la finestra
è cresciuto enormemente. Ibolya vede la stoffa della fine del mondo
buttata con sbadataggine sopra i mobili e, in un angolo, ammucchiata
in una pila. Scatta all'indietro, finisce sulle palme delle mani
di mia nonna che dietro di lei le protende per difendersi. "Cos'è
che luccica lì?" dice Ibolya. Mia nonna la oltrepassa, entra nella
stanza e trova che qui l'aria sa di fiori e di olio da rivoltar
lo stomaco. È un odore che si percepisce appena, ma lei lo soffre
tanto da tenere la mano davanti alla bocca mentre attraversa la
stanza per aprire la porta che dà sulla terrazza. Fuori l'odore
sembra anche più forte, mia nonna, la mano sempre davanti alla bocca,
torna rapidamente indietro attraverso la stanza puntellandosi sulle
spalliere delle sedie che stanno attorno al tavolo da pranzo. "Che
c'è? Che c'è?" domanda Ibolya, svicolando dietro mia nonna in cucina
e chiudendo la porta. "Vada, vada per favore", dice mia nonna. Ibolya
attraverso l'altra porta passa nell'ingresso, apre la porta di casa
e la lascia sbattere dietro di sé. Mia nonna si siede sullo sgabello
della cucina, cerca con la mano dietro di sé le sigarette accanto
al lavello e, durante questo movimento, vede davanti a sé la stanza
da pranzo che le pare una città in rovina, sedie, tavolo, credenza
e vetrinetta come granai, navate, sepolcri e santuari composti da
grezzi massi e costruiti con semplici travi, sopra cui adesso una
generazione successiva va costruendo nuovi edifici, il santuario
viene elevato di due piani, le navate vengono suddivise in unità
più piccole da pareti intonacate di bianco e pitturate di ocra,
davanti al granaio viene a stare una doppia serie di massicce colonne,
che poi sono sostituite da altre colonne più slanciate e più alte,
il che rende necessaria una sopraelevazione del granaio, edifici
i quali, se la loro travatura non è stata danneggiata, servono da
sede del Consiglio di Stato e della Giurisdizione, il Re, in scarpe
in cui non sarebbe mai riuscito a camminare, viene trasportato proprio
nell'edificio che adesso serve da Mausoleo per il suo Pronipote,
giorno e notte la sua maschera di mummia ornata di frammenti di
specchio e un barbuto e villoso psicopompo dipinto sulla parete
guardano fissi nel buio del locale, che ora sta sotto il livello
del suolo, suolo a cui ora la città viene per l'appunto rasa, per
incendio o per mano nemica, questo mia nonna non sa dirlo, vede
soltanto l'indaffarata città nuova, e un tardo discendente dei suoi
abitanti che nel 1817 in una camera scarsamente illuminata siede
al tavolo, prima che le sue dita raggiungano il pacchetto di sigarette
e lei dimentichi di aver visto qualcosa.
Mio nonno vede Ibolya passare lungo la siepe di nocciòlo e pensa
un'espressione ungherese che viene a dire qualcosa come "matta in
libertà". Ibolya non riesce a trovare mio nonno, perché sta scritto
che di questi tempi le cose non siano più al loro posto. Lei ha
l'impressione che i larici e il noce stiano ora sulla scarpata dove
il giardino di sopra passa in quello di sotto e dove adesso sono
scomparsi non solo gli sterpi, ma anche l'albicocco cresciuto storto.
Si blocca stupita quando, nel semicerchio di cespugli da me un tempo
chiamato padiglione, urta contro le piante a lampioncino di color
arancio che pensava fossero in cantina avvolte in carta di giornale.
Mio nonno sente il rumore dei rami spezzati quando Ibolya attraversa
di forza i cespugli, allora la vede sui gradini della scarpata comparire,
fermarsi e con la mano ripulirsi le vesti, dopodiché scompare in
direzione del giardino di sotto. Subito dopo le cornacchie volano
in alto sopra le acacie. Mio nonno si mette una mano sopra gli occhi
per seguire i loro giri e si augura che il vento riprenda e spinga
nel grigio abbagliante del cielo il muro grigioscuro di nubi che
sta a sud.
Anche l'altro mio nonno è disturbato dal trovarsi controluce. Allunga
la mano dietro per accendere la lampada. Così il contrasto è meno
forte, gli ami esposti in serie ordinate per grandezza non scintillano
più fastidiosamente, ma mandano solo una luce opaca.
A rileggere quelle due lettere scritte nell'autunno del 1961 m'è
venuto in mente che neppure mio nonno aveva chiaro quale fosse il
posto delle cose nel giardino. In un punto dice che vorrebbe non
tagliare le dalie secche ma ancora con tracce di colore, sebbene
Ibolya pensi che così vicine alla casa facciano una brutta impressione;
poi aggiunge che dovrà pur sempre togliere qua e là qualche aiuola
di dalie per ingrandire il campo di mais... che però si trovava
nel giardino inferiore.
Mancano tre minuti alle undici e mezzo, tempus periculosum,
pensa mia nonna mentre apre la porta della stanza da pranzo e si
alza sulle punte dei piedi per vedere di qui, al di là del fico,
la parte leggermente elevata del giardino che si chiama a kút
(la fontana). Della giacca rossoscura di Ibolya nessun segno. Mia
nonna ritorna scuotendo il capo in cucina e chiude la porta. Ma
che fa quello lì? pensa. Mio nonno sta tuttora nei pressi dei larici
svizzeri e batte con ambedue i piedi in terra, come volesse calpestare
o spegnere qualcosa. Dopo un po' nota che il noce di nuovo fruscia,
guarda in su, vede le foglie gialle, a forma di pesce, del salice
sfarfallare attraverso l'aria in orizzontale e si meraviglia di
non avvertire il vento. Prende il fazzoletto nei pantaloni e si
asciuga il sudore dalla fronte. Adesso il muro di nubi dal sud si
è trasferito sulla verticale ed è diventato così informe che nemmeno
Ibolya vi potrebbe individuare le schiere degli animali morti che
risorgono.
L'altro mio nonno spegne di nuovo la luce, appoggia le braccia
incrociate sul bancone e si piega in avanti, perché vuol vedere
se sul marciapiede ci sono gocce di pioggia. Ma c'è sempre la linea
a forma d'onda disegnata dalla polvere e dai mozziconi di sigaretta.
Mia nonna allunga la testa attraverso la porta verso l'ingresso,
Ibolya niente, richiude la porta e mette una pentola d'acqua sul
fornello per bollire le castagne già sbucciate, di cui vogliono
fare un purè. Poi tiene il braccio sinistro ad angolo retto nella
direzione della finestra e con la mano destra ruota il proprio orologio
in modo che la luce vi cada sopra. Adesso sono le undici e cinquantotto.