Zwei Schritte zurück, s’intitola una raccolta di poesie
del Nostro autore. Due passi indietro li ha compiuti anche la cultura
teatrale italiana nel recepire le opere di Peter Turrini. Ovvero,
la risposta alla domanda sulla “presenza” una presenza scenica
e una presenza di studi sulle riviste di teatro e di germanistica
di Turrini in Italia è abbastanza semplice: si tratta di
una presenza scarsa, quasi inesistente. E forse sarà poi il caso
di chiedersi il perché.
Il dramma turriniano che ha avuto più successo in Italia
nel senso che è stato rappresentato in più città e ha avuto risonanza
sulla stampa nazionale è stato Joseph und Maria, messo
in scena, con il titolo di Tango viennese, tra la fine del
1984 e l’inizio del 1985 dal gruppo “La Contrada” di Trieste per
la regia di Francesco Macedonio, con le scene di Lele Luttazzi.
Gli attori contrariamente non solo alle indicazioni, ma,
come sappiamo, anche alle motivazioni che hanno spinto l’autore
a scrivere questo dramma, erano due giovani: Dario Penne
e Ariella Reggio, che stando alle recensioni hanno
portato vivacità e vitalità sulla scena. Però nelle intenzioni dell’autore
il dramma era stato scritto per valorizzare gli attori “vecchi”
della compagnia, quelli che avevano esperienza e “mestiere” e che
i drammi di repertorio relegano in ruoli poco vitali. La forza drammatica
di quest’opera turriniana si basa tutta sul contrasto tra povertà
dei protagonisti e sovrabbondanza di beni materiali del grande magazzino
e tra la miseria emozionale delle due esistenze che sembra avviarsi
malinconicamente verso la fine e la ritrovata esuberanza di passioni
(l’inaspettato vitalismo, appunto).
Le recensioni parlano di un autore "irrequieto" e "di
grande mestiere" e accostano il suo teatro a quello di Handke,
Bernhard, Botho Strauss e Fassbinder. Rita Sala sul Messaggero
(5.2.1985) parla di "spettacolo gradevolissimo" e di "elegia
moderna". Su Repubblica e sul Tempo (31.1.1985)
Turrini viene paragonato a Kroetz e Achternbusch e Fassbinder. Su
Sipario sono uscite nel 1989 una recensione alla rappresentazione
viennese del Minderleister, e nel 1990 la traduzione di Rotzenjagt.
Nel febbraio del 1998 è stato rappresentato al teatro comunale di
Bolzano Der tollste Tag, il rifacimento delle Nozze di
Figaro di Beaumarchais. Nel novembre del 1999 è stato messo
in scena Caccia ai topi dal Teatro stabile delle Marche per la regia
di Giampiero Solari con Bolo Rossini e Rossana Carretto nelle vesti
dei due protagonisti.
Al di là delle esigenze di cronaca delle recensioni del
resto tutte molto positive è apprezzabile il tentativo di
collocare Turrini all’interno del teatro contemporaneo di lingua
tedesca e ancor più apprezzabile l’indicazione (al di là dei nomi
scontati perché conosciuti al gran pubblico) di Kroetz e Achternbusch
e Fassbinder. Turrini si colloca infatti in una dimensione bifronte
dinanzi alla comunicazione artistica: da un lato privilegia la provocazione
politico-sociale (con le componenti ironico-grottesche) sulla scia
del Volkstheater; dall’altro ha attraversato anche le esperienze
espressive delle avanguardie e della destrutturazione dei linguaggi,
tanto che il silenzio e l’afasia ritornano spesso come luogo estremo
nelle sue opere. È in questo senso che i nomi di Kroetz, Achternbusch
e Fassbinder sono legittimati all’interno di un discorso su Turrini.
A parte i drammi e le recensioni appena ricordate, bisogna segnalare
la trasmissione di Alpensaga sui canali della RAI. La serie televisiva
in cui, come si sa, appariva anche lo stesso Turrini in una
particina secondaria, ha avuto un buon successo di pubblico (nel
senso che è stato seguito da un numero di spettatori giudicato soddisfacente
dai vertici dell’azienda), ma ha avuto una scarsa ricaduta di recensioni
sugli altri media, che ne hanno parlato solo nell’ambito
delle programmazioni televisive. Ma a questo punto è lecito chiedersi
come mai questa presenza dell’opera di Turrini sia stata esplosiva
e positiva nel 1984/5 per poi fermarsi. E ci sarà anche un significato
nel fatto che il Turrini recepito in Italia sia stato proprio quello
più esplicitamente politico, quello “alternativo”, quello dei teatri
di periferia. Il Turrini del Burgtheater non è stato preso
in considerazione. La complessa personalità dell’autore e le forme
stratificate della sua provocazione scenica non sono “digeribili”
in ugual misura dalla cultura italiana. Va detto in ogni caso
e qui vorrei anticipare parte delle conclusioni che la poetica
di Turrini si sviluppa secondo linee che sono “inattuali” rispetto
allo sviluppo della cultura (teatrale e letteraria) in Italia. La
critica sociale e l’impegno politico sono stati da noi relegati
in soffitta come “residui” della cultura degli anni Settanta. I
premi Nobel conferiti a Dario Fo e a Gunter Grass sono stati recepiti
come premi “alla carriera” se non addirittura “alla memoria”. Questo
tipo di poetica sembra oramai del tutto inadeguata ai mezzi espressivi
di questa fine-secolo almeno secondo le strutture teatrali
e le istituzioni culturali italiane.
Zwei Schritte zurück. Bisogna fare due passi indietro per
capire il teatro di Turrini e, di converso, le ragioni della sua
scarsa presenza in Italia. "Sono prigioniero della mia biografia",
scrive nel 1986. Alcuni tratti salienti della sua esperienza umana
e artistica ci offrono infatti la chiave interpretativa delle sue
opere, ma non nel senso di un banale autobiografismo, bensì nel
senso che ci danno la possibilità di scoprire assieme le fonti di
alcuni immagini e di alcune tematiche e persino di alcune idee-forza
di alcune passioni della sua opera letteraria. Inoltre
fatto non di secondaria importanza l’autore stesso
ne è consapevole.
Il teatro di Peter Turrini è caratterizzato dalla compresenza di
due elementi apparentemente contraddittori, che trovano sulla scena
invece il loro “luogo” di coesistenza o per meglio dire di esistenza
complementare, il loro spazio espressivo dinamico. I poli di tale
vistoso contrasto, infatti, lungi dall’elidersi l’un l’altro, si
potenziano reciprocamente. Da un lato troviamo l’elemento soggettivo
che appare sotto forma di esigenze individuali dei personaggi o
sotto forma di autobiografismo; dall’altro troviamo il sociale,
l’impegno politico, la storia. Questa dicotomia si dilata e si articola
in una serie molteplice di livelli, rintracciabili in tutta l’opera
di Turrini, e affonda le sue radici nella cultura di lingua tedesca,
mutuando stilemi e tematiche da correnti artistiche attente al “soggettivo”
oppure all’ “oggettivo”, al “privato” o al “politico” come si diceva
negli anni Settanta. Il contrasto tra queste due componenti fondamentali
(che si presentano nelle loro numerose varianti) è l’elemento che
dinamizza tutta l’opera di Turrini e in particolare i suoi lavori
teatrali. Per cui non si può prescindere dalla biografia dell’autore
se si vuole capire il personaggio e di converso quanto di autobiografico
è rimasto nei personaggi che mette in scena. Così come, del resto,
ma si rischia di dire un’ovvietà non si può prescindere
dalla situazione socio-culturale presente in Austria se si vuole
capire il senso e il valore delle opere del nostro autore.
Turrini ha una biografia che esula completamente dai cliché dell’intellettuale
austriaco, tutto caffè e salotti viennesi, imbevuti di nostalgia
per il bel tempo antico e di angoscia per la decadenza del tempo
presente. Tanto le sue vicende biografiche quanto le vicende che
l’autore mette in scena e soprattutto le immagini e i linguaggi
che usa rappresentano l’altra faccia dell’immagine del mondo
viennese e austriaco che è stata diffusa all’estero coi ben noti
stilemi piuttosto stereotipati. Questo guardare al di là delle apparenze,
dietro la facciata, questo rovesciare i criteri convenzionali è
un po’ il tratto caratteristico dell’opera di Turrini, quel tratto
che lo ha reso improvvisamente famoso e nel contempo "scomodo"
per gran parte della cultura ufficiale almeno fino al momento
in cui il Burgtheater non è stato diretto da un altro grande
provocatore, Peymann, che è riuscito nell’impresa storica di normalizzare
la provocazione, fino quasi ad azzerarne gli effetti politici.
La biografia dell’autore è contrassegnata da una serie di "rotture"
e di "fughe", che egli ama definire in termini teatrali,
Szenenwechsel, cambiamenti di scena. Egli è nato (nel 1944)
e vissuto in un villaggio contadino della Carinzia, una terra di
confine con molti problemi della minoranza etnica rispetto al governo
centrale e rispetto agli sloveni. Per di più in una serie di chiusure
e di ghettizzazioni. Turrini come indica chiaramente il suo
nome ha dovuto far fronte a una doppia discriminazione in
quanto figlio di un italiano che non parlava bene la lingua tedesca.
Minoranza nella minoranza, emarginato tra gli emarginati, Peter
Turrini ha dovuto lottare per affermarsi in quanto parlante tedesco:
la conquista del linguaggio espressivo ha per lui coinciso con la
conquista di una personalità, di un principio di identità. A ciò
vanno aggiunte le condizioni materiali della sua famiglia e del
villaggio tutto. Un’infanzia difficile, insomma. Le tracce delle
difficoltà psicologiche personali rimangono nelle opere del nostro
autore laddove dipinge il contrasto tra speranza e realtà, tra illusioni
e umiliazioni. Tanto in Alpensaga che gli spettatori
italiani hanno potuto ammirare in televisione che nelle poesie,
queste tracce della sofferenza personale rimangono sia come espressione
dell’io scrivente, sia come proiezione in personaggi che vedono
frustrate le loro speranze, le loro ambizioni, i loro sogni.
L’autore ha cercato di liberarsi di questi condizionamenti, dapprima
trasferendosi a Vienna e passando dal lavoro contadino a quello
dell’industria, dove ha dovuto sopportare discriminazioni e umiliazioni
analoghe a quelle del villaggio, dove però ha anche preso coscienza
del fatto che le sue difficoltà non erano di natura esclusivamente
personale ma avevano un carattere più ampio, erano insomma comuni
a un intero strato sociale. Il processo di socializzazione e di
politicizzazione della sua problematica è avvenuto in fabbrica.
Ma, seguendo in un certo senso la moda dell’epoca, siamo
proprio nel 1968 e il suo temperamento ribelle alla ricerca
di una propria identità, Turrini è fuggito anche dalla fabbrica
e dal mondo del lavoro proprio come rifiuto totale della logica
della società dei consumi. Ha trascorso circa un anno nel “sud”,
in quel meridione tanto mitizzato nelle sue poesie. Un anno a Rodi
e poi, sulla via del ritorno, una stagione come barman e quindi
come direttore d’albergo sulla costa adriatica, in Italia. Finalmente
nel 1970 la scoperta di possedere in termini originali e creativi
quel sistema espressivo che sembrava doverlo emarginare e che invece
diventa la sua “qualità” peculiare. E’ proprio di quell’anno Rozznjogt,
il suo primo lavoro teatrale, in dialetto viennese, in cui il rifiuto
per la società opulenta e per la logica mercificante, viene espresso
in termini molto crudi, ma con un occhio di attenzione per il più
raffinato teatro dell’assurdo. Il ribaltamento finale della prospettiva
i topi sono in fondo tutti gli uomini esprime la poetica
turriniana fatta di spiazzamenti e di rovesciamenti. La ricerca
dell’altra faccia della medaglia, insomma.
Allora l’attenzione al “popolare” ha inciso sulla scelta del linguaggio
scenico (il dialetto) e degli argomenti del dramma (il mondo contadino
o comunque quello del proletariato), che hanno fatto parlare di
Turrini come di un continuatore della tradizione del Volkstheater
di Horvath e Fleißer. Ulf Birbaumer, suo grande amico e curatore
del Turrini-Lesebuch, lo paragona a Dario Fo proprio in nome del
teatro popolare. Turrini e Birbaumer hanno fondato un teatro chiamato
Gemeindehoftheater Dario Fo che recitava nei cortili della
periferia viennese. Lo stesso autore ricorda:
Per due stagioni sono andato in giro con il Dario Fo-Theater
per i cortili delle case popolari di Vienna. […] Abbiamo recitato
teatro e abbiamo fatto esperienza di teatro: il vecchio pensionato,
diventato pazzo nella sua solitudine, che non voleva abbassare
il volume del suo televisore durante le nostre rappresentazioni
serali, insistendo sul fatto che non erano le otto di sera bensì
le otto di mattina; i bambini turchi e jugoslavi che continuavano
a giocare a pallone davanti al palcoscenico e solo a metà del
primo atto iniziavano ad ascoltare quella lingua per loro ancora
straniera.(1)
Ma il paragone con Fo è un paragone problematico. Li accomuna l’impegno
politico e la ricerca dei mezzi "comici" detto in
senso molto lato come mezzi espressivi, insomma l’attenzione
alla commedia dell’arte. Turrini è alla continua ricerca di una
forma "alternativa" che rovesci l’immagine corrente della
società austriaca, mentre in Fo il gioco della recitazione, il gusto
della affabulazione diviene alla lunga un elemento autonomo e quasi
preminente. Turrini, inoltre, rappresenta tutti i suoi lavori in
una prospettiva attualizzante.
Persino nello sceneggiato televisivo Alpensaga la storia
ancora una volta soggettiva e oggettiva dei villaggi
contadini sulle Alpi austriache, viene ripercorsa al solo scopo
di capire le condizioni di vita attuali, di intendere sino in fondo
come si è diventati ciò che si è.
La sua ricerca di una Heimat coincide con la conquista del
linguaggio e con la conquista di una propria identità. Ma la costellazione
Heimat-Volksstück-dialetto non deve assolutamente far pensare
a una forma di neoromanticismo: da un lato perché il recupero dell’elemento
contadino è tutt’altro che idillico, dall’altro perché lo stesso
autore ha precisato più volte nelle sue interviste l’uso strumentale
(e quindi legato ai fini espressivi) del dialetto. "Non sono
un romantico afferma Turrini né un poeta dialettale.
Per me la lingua è solo un materiale. Il mio atteggiamento di fronte
alla lingua è cinico". Questo cinismo turriniano è esattamente
l’atteggiamento tipico delle avanguardie che trattano i mezzi espressivi
come puro materiale verbale. E non è un caso che a proposito di
Rozznjogt (Caccia ai topi) sia più volte ricomparso
il nome di Peter Handke e del suo Publikumbeschimpfungen,
proprio per l’effetto-choc del lavoro teatrale. Così anche il recupero
dell’ambiente contadino equivale a una sua totale condanna in Sauschlachten
(Lo scannamento del maiale), dove l’elemento crudamente realista
si coniuga perfettamente con un certo teatro del paradosso al solo
scopo di denunciare il "fascismo latente" che si nasconde
nella campagna austriaca, nelle sue strutture sociali repressive
e sclerotizzate. Anche in questo caso è d’obbligo un richiamo a
Handke che da anni denuncia il "fascismo" della provincia
austriaca, e a Thomas Bernhard, che definisce Salisburgo "la
città più nazista del mondo". Ma anche Joseph Winkler nei suoi
Bauernromane ci presenta una situazione di repressione del
tutto analoga a quella denunciata da Turrini. Elfriede Czurda descrive
nei suoi romanzi una società chiusa, una mentalità repressiva e
una violenza fisica e psicologica consumata all’interno della struttura
familiare.
Le difficoltà dell’individuo traggono dunque origine da una situazione
di carattere generale, le vicende del singolo fanno parte di una
serie di vicende collettive. Qui storia e autobiografia si ricongiungono
di nuovo. Sotto questo aspetto la figura della madre come desiderio
di affetto e la figura del padre, come grande assenza, grande equivoco,
grande rimpianto, sono fondamentali nelle poesie turriniane e sono
temi decisivi per comprendere la poetica dello scrittore.
Mio padre era un italiano. Parlava poco. / Non usciva mai.
/ Si chiudeva nella sua bottega / e intagliava sedie barocche
e Madonne. / Persino la notte di Natale / quando tutti i figli
dei contadini andavano per mano coi loro padri / alla messa
di mezzanotte / rimaneva chiuso nella bottega / e lavorava.
(2)
In particolare nel rapporto col padre si ripresenta la dicotomia
in termini dilaceranti: da un lato il normale antagonismo nei
confronti della figura paterna, che spinge il giovane alla contestazione,
dall’altro il fascino misterioso per il sud come terra esotica
e diversa, come quel tanto sospirato “altrove” in cui rifugiarsi
per rompere il velo del conformismo e dell’emarginazione del villaggio
in Carinzia. E quindi di nuovo il padre da “superare” conoscere
bene la lingua tedesca per sottrarsi allo stato di “minorità”
del padre e però anche da recuperare in forma positiva
e vincente sottrarsi all’emarginazione per la via opposta:
abbandonare il villaggio e fuggire verso sud. Quindi maturare
superando le radici il classico congedo dai genitori
oppure, al contrario, ritrovare le radici nell’ “altrove”, nel
“diverso”, nell’italiano idealizzato che viene rappresentato nella
figura del nonno paterno.
Ma proprio in questa figura del nonno paterno si ricompone il
contrasto tra “personale” e “politico”, tra “oggettivo” e “soggettivo”:
il “diverso” diventa il comunista, l’altrove diventa un progetto
politico che è anche, ovviamente, un progetto di vita. Così come,
di converso, la scelta soggettiva di Turrini quella cioè
di operare come scrittore di teatro diventa una scelta
politica. Il teatro, il testo teatrale così come la rappresentazione
scenica (si pensi agli allestimenti nelle periferie viennesi)
diventano il “luogo” in cui si ricompone la dicotomia. E quindi
nei testi teatrali di Turrini ritroviamo una serie di personaggi
e di situazioni che derivano direttamente dalla rielaborazione
artistica delle sue esperienze biografiche e sociali. Anche l’altro
contrasto, quello sviluppato dal Turrini del Burgtheater ha un’origine
lontana. La sua singolare opposizione tra sessualità e cattolicesimo
che viene rappresentata in Tod und Teufel (Morte e diavolo,
1990), affonda le sue radici di nuovo nell’adolescenza, come racconta
lo stesso autore quasi con le stesse parole in interviste diverse.
Le sue poesie possono essere considerate un serbatoio di motivi
che verranno poi teatralizzati. L’alternanza tra il silenzio e
le grida, il rifiuto della società dei consumi, simboleggiata
dalle merci superflue del supermercato (in Joseph und Maria)
o dal deposito di rifiuti (in Rozznjogt), l’alternarsi
di pessimismo e ottimismo, di fatalismo e impegno che corrisponde
all’alternarsi di stilemi tratti dal teatro dell’assurdo e comunque
da una certa avanguardia con stilemi tratti da un teatro più crudamente
realista. I drammi di Turrini, scrive Elfriede Jelinek, "descrivono
la perfidia della piccola borghesia viennese, la sottile cattiveria
che sta dietro l’idillio di un vasetto di cetrioli e di una bustina
di lievito. Oppure gettano in aria con un gesto deciso la sporcizia
che si cela nelle oscure camere da letto della provincia, che
Turrini conosce bene. Spesso i suoi personaggi portano nomi stranieri
in questo stato una volta “dai quattro popoli”, in cui il tedesco
era la lingua di una minoranza".
Non bisogna però credere a un Turrini “ingenuo e sentimentale”.
Le sue fonti, le sue radici non sono tanto quelle “scoperte”,
quelle che tutti posso vedere dai suoi rifacimenti da Goldoni
a Beaumarchais bensì quelle determinate da sotterranei
e profondi legami col teatro di lingua tedesca, anche stavolta
in maniera dicotomica. Da un lato i suoi drammi sono senza dubbio
degli Zeitstücke che portano sulla scena una problematica
quotidiana, legata alla particolare condizione sociale e politica
dell’Austria del nostro tempo. In tal senso i suoi personaggi
sono soltanto dei “tipi”, delle astrazioni: il loro destino, insomma,
corrisponde a quello di intere generazioni, di intere categorie
sociali. In tal modo il personale e il politico coincidono a tal
punto che solo attraverso la lotta politica nel sociale è possibile
il riscatto, l’emancipazione del soggetto, quella uscita insomma
dallo stato di emarginazione che è l’ossessione di tutti i personaggi
di Turrini. In questo senso il suo debito nei confronti di un
certo teatro della Neue Sachlichkeit è fin troppo evidente.
Così come il sovente affiorare di un torno ironico-grottesco rimanda
al Volkstheater, di cui l’autore si sente legittimo erede.
D’altro canto, però, i modi in cui questi temi d’attualità vengono
affrontati e i linguaggi spesso provocatori che vengono utilizzati
fanno rientrare nei drammi turriniani elementi tematici e scenici
che ricordano l’avanguardia. Spazi, insomma, in cui il soggetto
esprime di nuovo in maniera sfrenata, drammatica, struggente,
alogica e assurda le pulsioni che lo travagliano.
Quando ad esempio affronta il tema scottante dell’infanticidio
in Kindsmord (1772), definito dalla stampa austriaca "uno
dei più bei drammi di Turrini", da un lato recupera uno dei
temi più cari del dramma di attualità basti pensare a Cynakali
(Cianuro di potassio, 1929) di Friedrich Wolf o a Frauenarzt
(Il ginecologo, 1928) di H. J. Rehfisch ma dall’altro recupera
uno dei temi portanti della poetica delle avanguardie di fine
secolo quale quello del conflitto generazionale, quale quello
della repressione che la famiglia e la società operano nei confronti
della giovane donna, sino a provocarne la follia, che va comunque
intesa come il desiderio di sottrarsi a modelli comportamentali
sentiti come estranei, come imposti. Per di più la struttura drammatica
di Kindsmord consiste in un quasi monologo della protagonista
che ripercorre le sue vicende come in una grande allucinazione,
anche se la struttura formale è quella dell’interrogatorio in
tribunale. A questo livello i modelli e le “fonti” sono così numerosi
che non potrebbero nemmeno essere citati tutti giacché hanno inciso
in maniera differente: si va dal primo Musil a Effi Briest di
Fontane, da Hermann Hesse di Sotto la ruota al primo Fassbinder.
Ma anche le suggestioni culturali nelle opere di Turrini vengono
riportate sull’asse della sua personalissima dicotomia: vengono
cioè dispiegate attraverso il doppio registro del desiderio di
autorealizzazione e del necessario confronto con la realtà socio-politica.
La società dei consumi, che riempie i supermercati di merci superflue
e costringe le persone più deboli a una inquietante solitudine,
che riempie i prati di periferia di rifiuti perché le merci vanno
consumate più rapidamente, che trasforma gli uomini stessi in
merci e in rifiuti, questa società può essere combattuta e quindi
cambiata solo con gesti di solidarietà tra gli emarginati, tra
i ghettizzati.
leggi
i testi di Peter Turrini
1. P. Turrini, "Gemeindehoftheater", in Liebe
Mörder! Von der Gegenwart, dem Theater und dem lieben Gott,
München, Luchterhand, 199, p. 63. riprendi
la lettura
2."Mein Vater war ein Italiener./Er Sprach
wenig./Ging nie fort./Sperrte sich in seine Werkstätte ein/und
schnitzte Barockstühle und Madonnen./Selbst in der Heiligen
Nacht/wenn alle Bauerkinder an der Hand ihrer Väter/zur Christmette
gingen/blieb er in der verschlossenen Werkstatt/und arbeitete./Was
ich mir noch immer wünche:/Daß ich ihn endlich treffe".
P. Turrini, "Zwei Schritte zurück", In U Birbaumer
(a cura di), Turrini Lesebuch zwei, Wien-München-Zürich,
Europaverlag, 1983, p. 284. riprendi la lettura