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Maria Jatosti, Matrioska, Piero Manni, 1999.
 

Gio Ferri

 

 

 

 

 

Matrioska si dipana lungo la vicenda di una figura femminile (Francesca) che ricerca la propria identità immergendosi, indagando nei resti della storia della propria madre (Nerina). La ricerca, come dire, psico-archeologica, si risolve e non si risolve (com'è logico) secondo la sintesi di un passo finale: Francesca "sa che a nulla valgono gli ammonimenti della ragione, il senno del poi, contro ogni evidenza. Capire, indagare, scavare non è importante: scoprire segreti può fare solo molto male... Nerina: nient'altro che un finale procrastinato... un conto mai saldato. Un'esecuzione rinviata a vita. Avrebbe dovuto ucciderla". Infine, quindi, liberarsi del padre, liberarsi della madre. Per essere se stessi. Il dramma di una maturità tarda, rinviata.

Il romanzo si struttura in tre capitoli: Francesca. Nerina. L'identificazione. La struttura scritturale del racconto si articola invece su due livelli, entrambi, a loro modo, "classici", in relazione alla narrazione tout-court e alla narrazione del Novecento. Primo, un livello "antico", per quanto attiene il disegno, il progetto complessivo (macrosistema narrativo); secondo, un livello "moderno", per quanto attiene la minuta, microscopica realizzazione, presa d'atto e di coscienza: analisi del particolare – autoanalisi nel particolare.

Il primo livello, riguardante la struttura, si sviluppa nelle sequenze ben definite da Frye fin dal 1969, in Anatomia della critica e in Favole d'identità (sic!). Dietro il romance c'è la ricerca portata a termine, che si dà di solito passando per tre stadi: il viaggio, la lotta, l'esaltazione dell'eroe. Cioè l'agón o conflitto, il páthos o lotta mortale. l'anagnórisis, o scoperta, o agnizione dell'eroe. Frye si riferisce particolarmente al racconto epico, ma non è affatto difficile cogliere in Matrioska un'epica dell'interiorità, dell'individualità, come archetipo di una totalità. La vicenda di Matrioska in qualche modo riguarda tutti. E che si tratti di un racconto "epico", seppur fra virgolette, lo dimostra la lineare e didascalica tripartizione.

Matrioska ubbidisce anche alla constatazione di Propp in merito alla struttura della favola, riportata alla tragedia di Edipo: la caduta del vecchio re, dell'antico regime (la madre), ad opera dell'eroe protagonista (la figlia), che assume il comando (il "comando di sé") sposando la figlia, nella favola, del re ucciso (cioè avendo, infine, inglobato il destino genetico dell'antico regime).

Quindi la linea narrativa di Matrioska è estremamente chiara, e risponde alle esigenze primarie dell'affabulazione.

Questa chiarezza, paradossalmente, si appoggia ai robusti (insisto, paradossalmente) pilastri di una maniera, tutta novecentesca (ancorché non estranea a importanti residui di bovarismo: ma ciò vale per gran parte di un certo tipo di narrazione che va da Joyce a Gadda), la maniera del "flusso di coscienza". Nulla di più confacente ad una ossessione interiore.

È a questo livello che si rintraccia l'originalità di Matrioska. Il flusso non è propriamente fluente e "con-fuso" (la capitolazione triadica, abbiamo visto, lo conferma). Nei diversi microsistemi narratologici si rivelano piuttosto infiniti flussi provenienti da più parti, attivati da una centrale potenzialità di ricezione. Facile rifarsi a concezioni biologiche, cosmologiche, gravitazionali. La protagonista (figlia) si pone al centro di un bombardamento di eventi. Di meteoriti che provengono da un'altra galassia (la galassia madre), da un mondo parallelo, perciò di difficile convergenza. Difficile, ma non impossibile, se si passa dalle geometrie classiche alle geometrie non euclidee. L'incontro, perciò, può avvenire solo in una quarta o ennesima dimensione (non nella dimensione del quotidiano, malgrado gli inganni di questa narrazione che tanto sembra cogliere dal quotidiano: sembra, ma non è così, secondo le ragioni della storia medesima). Solo a quel livello può darsi agnizione.

Questi meteoriti sono i resti matricali ai quali ho accennato prima. Questi resti, onirici eppure assai concreti, ancorché condotti dal veicolo di memorie che paiono perdute, provocano una serrata dialettica fra le intenzioni del profondo e l'oggettività di un reale che si propone, per l'appunto, da un altro tempo, trascorso eppure presente. Una realtà immaginata su indizi forti, che si fa deuteragonista in un confronto che condanna a una morte come liberazione.

Ma, ripeto, tutto questo non si sviluppa per flusso narrativo, bensì per assestamenti cellulari. Cosicché la scrittura procede a salti, ciascuno dei quali si sorregge sulle probazioni offerte dagli oggetti, dai resti.

Prendiamo alcuni brevi esempi, il primo dei quali mi appare come una proposizione programmatica. Primo, a pagina 49 del libro leggiamo:

Forse è un modo di rifiutare il tempo, la morte. Forse cerca di dare integrità agli elementi della sua esperienza sparsi e sgretolati dalla macina della vita, inghiottiti dalla frana degli eventi. Forse, come dici tu, è il suo modo di sopravvivere. O forse è solo una forma di vigliaccheria. Non lo so. Vorrei tanto capirlo.

Il passaggio è addirittura in corsivo. Vari altri corsivi si ritrovano in tutto il racconto. Una particolarità che dà un suo segnale (al quale ho già accennato), direi psicologico-filosofico-didascalico, che costringe il romanzo, per tappe didattiche, dimo-stra-tive, convincenti, nei termini di un saggio, o pseudo-saggio, che rivela quelle che ho chiamato "le intenzioni del profondo". Espressamente dichiarate, per altro, fin dalle primissime pagine del romanzo medesimo che si rivolge addirittura a un "rigore scientifico".

Secondo, a pagina 86 c'è un esempio clamoroso (ma è preso a caso) di quella tempesta di eventi-meteoriti di cui si è detto:

Francesca ascoltava rapita, attenta, pronta a infilare a una a una le perle che zia Evelina pescava nel mare profondo dei ricordi e le offriva con semplicità, quasi con pudore.

Povero Dino, era tanto triste... Lui che amava tutti, era rimasto solo... Si torturava per voi. Non sognava che di tornare a Roma... Credi che pensasse a se stesso? Mai. Aveva un chiodo fisso nel cervello: la famiglia, voi. E soprattutto tua madre, Nerina. Sempre Nerina... Ah, se non si fosse sposato! Ah, se io non avessi incontrato tuo zio... Se fossimo rimasti insieme, noi due... Soli! Avrei badato io a lui e, chissà, forse lo avrei salvato. In fondo, aveva solo bisogno d'amore e di un po' di pace, povero Dino. Io lo capivo, lo conoscevo bene. Solo un po' di pace, povero fratello mio, non chiedeva altro. E amore, tanto amore... Mio padre ci abbandonò per risposarsi. Sai com'è. Non gliene faccio una colpa, era ancora giovane. Vennero altri figli. E così...

Vogliamo segmentarli quegli eventi? Ciascuno produce una storia autonoma, svolta ora secondo la maniera dell'école du regard, ora secondo, appunto, un vero e proprio stream of consciousness (a volte céliniano, anche per la distribuzione dei puntini sospensivi):

Francesca è rapita dal racconto, ma anche dalla concentrazione sulla traslucida rotondità delle perle (metafora del cangiante racconto medesimo);

la zia pesca nel mare profondo;

la zia si pone inconsciamente un obbligo di pudore (e ciò sottointende una caratterizzante storia personale, non narrata, ma narrabile);

  • Dino è rimasto solo (altro romanzo);

  • la famiglia di Dino (altra storia);

  • il ritorno a Roma, sognato? ("a Mosca, a Mosca" direbbe Cechov);

  • il rapporto con Nerina (altra vicenda tutta da narrare esplicitamente);

  • sposalizi, incontri, opportunità mancate (altro romanzo);

  • presunzioni di vicende non occorse ("ma è come se lo fossero", nella dialettica fra ricordi e passioni ancora non cancellate);

  • la storia del padre, che abbandona e si risposa (altro romanzo); altri figli;

  • il perdono comprensivo ("non gliene faccio una colpa");

  • "E così..." (che presume un'altra infinità di storie).


Ho contato almeno tredici racconti autonomi in sedici righe e una trentina di spazi puntiformi. Ogni punto è l'infinità spaziale di una storia. Nel complesso una saga familiare in poche righe.

Leggiamo a pagina 175:

Sui tappeti smaltati cani e ragazzini razzolano, schiamazzano, fanno i bisognini loro. L'erba è mézza e non ci si può sedere: l'acqua arriva alle caviglie, intride l'orlo dei jeans. È un posto solo da guardare da feritoie bertesche e merli ghibellini, per i privilegiati che affacciano su quel versante. Neanche a sporgersi dal terrazzo, Francesca lo vede. Se scende con un libro, non ha dove poggiarsi: non ci sono panchine, sedili, scranne, montarozzi, e deve tornarsene indietro, dietro i vetri, dietro le inferriate, dietro i muri. In ascensore trova tipi con la faccia diffidente e sgattaiola dalle portine automatiche senza salutare. Varca di corsa il pianerottolo per non rischiare di incontrare i condòmini che sente armeggiare sinistramente, sprangare, sgranare mandate, e di cui avverte l'occhio sospettoso nello spioncino al di là degli usci blindati. Non conosce nessuno: liti, gazzarre, solfeggi, non hanno volto, mentre le è noto ogni rumore che la circonda: di sopra, di sotto, di fianco, alle spalle: da quelli domestici e diurni – stridori, scrosci, pianti, grugniti, risa, furie improvvise di casalinghe incarognite da esistenze balorde – a quelli propriamente notturni, lunari e bugiardi – belati di armenti solitari, latrati di cani foresti, scrocchi segreti, sordi scampanii. – E, su tutto, il sornacchiare asmatico del vecchio gatto.


Qui le storie le raccontano, e sono molte, i rumori del presente, le visioni fuggitive, gli ascolti rapidi, ma non distratti. Quella discesa delle scale, ancora una volta in poche righe, è una odissea joyciana, che sviluppa una icasticità di ricezioni contemporanee, che nascondono, o rivelano, stati d'animo personali, soggettivi e insieme collettivi. Una koiné.

Per riposarsi – quasi a sedimentare le innumerevoli emozioni – su quel "sornacchiare asmatico del vecchio gatto". Il gatto è una sfinge che tace, ma tutto vede e tutto conosce.

Un altro esempio forte d'accumulo è anche a pagina 180:

Liberata dal penoso fardello, riprese da capo l'attività mercenaria. Riallacciò relazioni, stipulò regolari contratti con case editrici e passava ore e ore al picì a tradurre, interpretare, riscrivere, rielaborare romanzetti transatlantici. Riesumò antichi interessi, vecchie passioni come la politica, il cinema, il jazz. Concepì disegni e progetti che finivano inevitabilmente abortiti. Ricercò il piacere della lettura, ma incominciava a leggere più libri nello stesso tempo e dopo le prime venti pagine li abbandonava, ammucchiandoli sul comodino. In ultimo, finì per soggiacere al vizio solitario del teleschermo. Tutta la notte, equipaggiata di comando a distanza, saltabeccava da un'emittente all'altra, collezionando spezzoni e fotogrammi, vecchie pellicole fuoriorario, telenovelas, serials, soap operas, polizieschi, horrors, hard-cores, talk-shows, quiz, altredicole, documentari e un'invincibile armata di imbonitori, maghi, sensitivi, astrologi, pranoterapeuti, illusionisti, bestemmiatori, poeti, venditori di cinghie dimagranti, tappeti persiani, falsi dechirico, batterie da cucina e materassi a molla. E attenti a quei tre.

A pagina 79, in poche righe, si dà la storia della "sestina" nella metrica della poesia italiana, con taglio, o ritaglio enciclopedico.

E potremmo andare avanti così per molto, ad enucleare sistemi solari autonomi, chiusi, e tuttavia disposti alle mille e mille relazioni.

Qualche parola sul lessico che si offre comprensibile e piano nell'insieme, ma anch'esso (come il racconto) sommosso da evenienze analogiche o neologistiche di rara efficacia. Abbiamo letto quel sornacchiare riferito al gatto. Ma attenti a non farsi trascinare dalla storia trascurando ora deliziose, ora espressionistiche sorprese, quali, per es.: fotografie sbertucciate, l'albume del mattino, l'universo dirimpettaio, arricciare le labbra etrusche, il bizzoso brocco rossonero (un'automobile), il frigorifero desolato, l'appollaiata sullo stomaco (la madre come il demonio in un sogno di Füßli), inquietanti tinnii, strizzarsi la vita, guaiolare, lavacri ardenti (per bagni illusoriamente salutari)... E così via. Mi fermo qui. Altrimenti non la finiamo più.

 

 

 

 


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