Matrioska si dipana lungo la vicenda di una
figura femminile (Francesca) che ricerca la propria identità
immergendosi, indagando nei resti della storia della propria madre
(Nerina). La ricerca, come dire, psico-archeologica, si risolve
e non si risolve (com'è logico) secondo la sintesi di un
passo finale: Francesca "sa che a nulla valgono gli ammonimenti
della ragione, il senno del poi, contro ogni evidenza. Capire, indagare,
scavare non è importante: scoprire segreti può fare
solo molto male... Nerina: nient'altro che un finale procrastinato...
un conto mai saldato. Un'esecuzione rinviata a vita. Avrebbe dovuto
ucciderla". Infine, quindi, liberarsi del padre, liberarsi
della madre. Per essere se stessi. Il dramma di una maturità
tarda, rinviata.
Il romanzo si struttura in tre capitoli: Francesca.
Nerina. L'identificazione. La struttura scritturale del racconto
si articola invece su due livelli, entrambi, a loro modo, "classici",
in relazione alla narrazione tout-court e alla narrazione del Novecento.
Primo, un livello "antico", per quanto attiene il disegno,
il progetto complessivo (macrosistema narrativo); secondo, un livello
"moderno", per quanto attiene la minuta, microscopica
realizzazione, presa d'atto e di coscienza: analisi del particolare
autoanalisi nel particolare.
Il primo livello, riguardante la struttura, si sviluppa
nelle sequenze ben definite da Frye fin dal 1969, in Anatomia
della critica e in Favole d'identità (sic!). Dietro il
romance c'è la ricerca portata a termine, che si dà
di solito passando per tre stadi: il viaggio, la lotta, l'esaltazione
dell'eroe. Cioè l'agón o conflitto, il páthos
o lotta mortale. l'anagnórisis, o scoperta, o agnizione
dell'eroe. Frye si riferisce particolarmente al racconto epico,
ma non è affatto difficile cogliere in Matrioska un'epica
dell'interiorità, dell'individualità, come archetipo
di una totalità. La vicenda di Matrioska in qualche
modo riguarda tutti. E che si tratti di un racconto "epico",
seppur fra virgolette, lo dimostra la lineare e didascalica tripartizione.
Matrioska ubbidisce anche alla constatazione
di Propp in merito alla struttura della favola, riportata alla tragedia
di Edipo: la caduta del vecchio re, dell'antico regime (la madre),
ad opera dell'eroe protagonista (la figlia), che assume il comando
(il "comando di sé") sposando la figlia, nella
favola, del re ucciso (cioè avendo, infine, inglobato il
destino genetico dell'antico regime).
Quindi la linea narrativa di Matrioska è
estremamente chiara, e risponde alle esigenze primarie dell'affabulazione.
Questa chiarezza, paradossalmente, si appoggia ai
robusti (insisto, paradossalmente) pilastri di una maniera, tutta
novecentesca (ancorché non estranea a importanti residui
di bovarismo: ma ciò vale per gran parte di un certo tipo
di narrazione che va da Joyce a Gadda), la maniera del "flusso
di coscienza". Nulla di più confacente ad una ossessione
interiore.
È a questo livello che si rintraccia l'originalità
di Matrioska. Il flusso non è propriamente fluente
e "con-fuso" (la capitolazione triadica, abbiamo visto,
lo conferma). Nei diversi microsistemi narratologici si rivelano
piuttosto infiniti flussi provenienti da più parti, attivati
da una centrale potenzialità di ricezione. Facile rifarsi
a concezioni biologiche, cosmologiche, gravitazionali. La protagonista
(figlia) si pone al centro di un bombardamento di eventi. Di meteoriti
che provengono da un'altra galassia (la galassia madre), da un mondo
parallelo, perciò di difficile convergenza. Difficile, ma
non impossibile, se si passa dalle geometrie classiche alle geometrie
non euclidee. L'incontro, perciò, può avvenire solo
in una quarta o ennesima dimensione (non nella dimensione del quotidiano,
malgrado gli inganni di questa narrazione che tanto sembra cogliere
dal quotidiano: sembra, ma non è così, secondo le
ragioni della storia medesima). Solo a quel livello può darsi
agnizione.
Questi meteoriti sono i resti matricali
ai quali ho accennato prima. Questi resti,
onirici eppure assai concreti, ancorché condotti dal veicolo
di memorie che paiono perdute, provocano una serrata dialettica
fra le intenzioni del profondo e l'oggettività
di un reale che si propone, per l'appunto, da un altro tempo, trascorso
eppure presente. Una realtà immaginata su indizi forti, che
si fa deuteragonista in un confronto che condanna a una morte
come liberazione.
Ma, ripeto, tutto questo non si sviluppa per flusso
narrativo, bensì per assestamenti cellulari. Cosicché
la scrittura procede a salti, ciascuno dei quali si sorregge sulle
probazioni offerte dagli oggetti, dai resti.
Prendiamo alcuni brevi esempi, il primo dei quali
mi appare come una proposizione programmatica. Primo, a pagina 49
del libro leggiamo:
Forse è un modo di rifiutare il tempo,
la morte. Forse cerca di dare integrità agli elementi della
sua esperienza sparsi e sgretolati dalla macina della vita, inghiottiti
dalla frana degli eventi. Forse, come dici tu, è il
suo modo di sopravvivere. O forse è solo una forma di vigliaccheria.
Non lo so. Vorrei tanto capirlo.
Il passaggio è addirittura in corsivo. Vari
altri corsivi si ritrovano in tutto il racconto. Una particolarità
che dà un suo segnale (al quale ho già accennato),
direi psicologico-filosofico-didascalico, che costringe il romanzo,
per tappe didattiche, dimo-stra-tive, convincenti, nei termini di
un saggio, o pseudo-saggio, che rivela quelle che ho chiamato "le
intenzioni del profondo". Espressamente dichiarate, per altro,
fin dalle primissime pagine del romanzo medesimo che si rivolge
addirittura a un "rigore scientifico".
Secondo, a pagina 86 c'è un esempio clamoroso
(ma è preso a caso) di quella tempesta di eventi-meteoriti
di cui si è detto:
Francesca ascoltava rapita, attenta, pronta a infilare
a una a una le perle che zia Evelina pescava nel mare profondo
dei ricordi e le offriva con semplicità, quasi con pudore.
Povero Dino, era tanto triste... Lui che amava
tutti, era rimasto solo... Si torturava per voi. Non sognava che
di tornare a Roma... Credi che pensasse a se stesso? Mai. Aveva
un chiodo fisso nel cervello: la famiglia, voi. E soprattutto
tua madre, Nerina. Sempre Nerina... Ah, se non si fosse sposato!
Ah, se io non avessi incontrato tuo zio... Se fossimo rimasti
insieme, noi due... Soli! Avrei badato io a lui e, chissà,
forse lo avrei salvato. In fondo, aveva solo bisogno d'amore e
di un po' di pace, povero Dino. Io lo capivo, lo conoscevo bene.
Solo un po' di pace, povero fratello mio, non chiedeva altro.
E amore, tanto amore... Mio padre ci abbandonò per risposarsi.
Sai com'è. Non gliene faccio una colpa, era ancora giovane.
Vennero altri figli. E così...
Vogliamo segmentarli quegli eventi? Ciascuno produce
una storia autonoma, svolta ora secondo la maniera dell'école
du regard, ora secondo, appunto, un vero e proprio stream of
consciousness (a volte céliniano, anche per la distribuzione
dei puntini sospensivi):
Francesca è rapita dal racconto, ma anche dalla concentrazione
sulla traslucida rotondità delle perle (metafora del cangiante
racconto medesimo);
la zia pesca nel mare profondo;
la zia si pone inconsciamente un obbligo di pudore (e ciò
sottointende una caratterizzante storia personale, non narrata,
ma narrabile);
Dino è rimasto solo (altro romanzo);
la famiglia di Dino (altra storia);
il ritorno a Roma, sognato? ("a Mosca, a Mosca" direbbe
Cechov);
il rapporto con Nerina (altra vicenda tutta da narrare esplicitamente);
sposalizi, incontri, opportunità mancate (altro romanzo);
presunzioni di vicende non occorse ("ma è come se
lo fossero", nella dialettica fra ricordi e passioni ancora
non cancellate);
la storia del padre, che abbandona e si risposa (altro romanzo);
altri figli;
il perdono comprensivo ("non gliene faccio una colpa");
"E così..." (che presume un'altra infinità
di storie).
Ho contato almeno tredici racconti autonomi in sedici righe e una
trentina di spazi puntiformi. Ogni punto è l'infinità
spaziale di una storia. Nel complesso una saga familiare in poche
righe.
Leggiamo a pagina 175:
Sui tappeti smaltati cani e ragazzini razzolano,
schiamazzano, fanno i bisognini loro. L'erba è mézza
e non ci si può sedere: l'acqua arriva alle caviglie, intride
l'orlo dei jeans. È un posto solo da guardare da feritoie
bertesche e merli ghibellini, per i privilegiati che affacciano
su quel versante. Neanche a sporgersi dal terrazzo, Francesca
lo vede. Se scende con un libro, non ha dove poggiarsi: non ci
sono panchine, sedili, scranne, montarozzi, e deve tornarsene
indietro, dietro i vetri, dietro le inferriate, dietro i muri.
In ascensore trova tipi con la faccia diffidente e sgattaiola
dalle portine automatiche senza salutare. Varca di corsa il pianerottolo
per non rischiare di incontrare i condòmini che sente armeggiare
sinistramente, sprangare, sgranare mandate, e di cui avverte l'occhio
sospettoso nello spioncino al di là degli usci blindati.
Non conosce nessuno: liti, gazzarre, solfeggi, non hanno volto,
mentre le è noto ogni rumore che la circonda: di sopra,
di sotto, di fianco, alle spalle: da quelli domestici e diurni
stridori, scrosci, pianti, grugniti, risa, furie improvvise
di casalinghe incarognite da esistenze balorde a quelli
propriamente notturni, lunari e bugiardi belati di armenti
solitari, latrati di cani foresti, scrocchi segreti, sordi scampanii.
E, su tutto, il sornacchiare asmatico del vecchio gatto.
Qui le storie le raccontano, e sono molte,
i rumori del presente, le visioni fuggitive, gli ascolti rapidi,
ma non distratti. Quella discesa delle scale, ancora una volta in
poche righe, è una odissea joyciana, che sviluppa una icasticità
di ricezioni contemporanee, che nascondono, o rivelano, stati d'animo
personali, soggettivi e insieme collettivi. Una koiné.
Per riposarsi quasi a sedimentare le innumerevoli
emozioni su quel "sornacchiare asmatico del vecchio
gatto". Il gatto è una sfinge che tace, ma tutto vede
e tutto conosce.
Un altro esempio forte d'accumulo è anche a pagina 180:
Liberata dal penoso fardello, riprese da capo l'attività
mercenaria. Riallacciò relazioni, stipulò regolari
contratti con case editrici e passava ore e ore al picì
a tradurre, interpretare, riscrivere, rielaborare romanzetti transatlantici.
Riesumò antichi interessi, vecchie passioni come la politica,
il cinema, il jazz. Concepì disegni e progetti che finivano
inevitabilmente abortiti. Ricercò il piacere della lettura,
ma incominciava a leggere più libri nello stesso tempo
e dopo le prime venti pagine li abbandonava, ammucchiandoli sul
comodino. In ultimo, finì per soggiacere al vizio solitario
del teleschermo. Tutta la notte, equipaggiata di comando a distanza,
saltabeccava da un'emittente all'altra, collezionando spezzoni
e fotogrammi, vecchie pellicole fuoriorario, telenovelas, serials,
soap operas, polizieschi, horrors, hard-cores, talk-shows, quiz,
altredicole, documentari e un'invincibile armata di imbonitori,
maghi, sensitivi, astrologi, pranoterapeuti, illusionisti, bestemmiatori,
poeti, venditori di cinghie dimagranti, tappeti persiani, falsi
dechirico, batterie da cucina e materassi a molla. E attenti a
quei tre.
A pagina 79, in poche righe, si dà la storia
della "sestina" nella metrica della poesia italiana, con
taglio, o ritaglio enciclopedico.
E potremmo andare avanti così per molto, ad
enucleare sistemi solari autonomi, chiusi, e tuttavia disposti alle
mille e mille relazioni.
Qualche parola sul lessico che si offre comprensibile
e piano nell'insieme, ma anch'esso (come il racconto) sommosso da
evenienze analogiche o neologistiche di rara efficacia. Abbiamo
letto quel sornacchiare riferito al
gatto. Ma attenti a non farsi trascinare dalla storia trascurando
ora deliziose, ora espressionistiche sorprese, quali, per es.: fotografie
sbertucciate, l'albume del mattino,
l'universo dirimpettaio, arricciare le labbra
etrusche, il bizzoso brocco rossonero
(un'automobile), il frigorifero desolato,
l'appollaiata sullo stomaco (la madre
come il demonio in un sogno di Füßli), inquietanti
tinnii, strizzarsi la vita, guaiolare, lavacri ardenti (per
bagni illusoriamente salutari)... E così via. Mi fermo qui.
Altrimenti non la finiamo più.