Ero con Antonietta in un caffè e parlavamo
delle presentazioni in programma per questo libro; il marito Michele
le faceva premurosamente delle raccomandazioni: "Ségnati
i primi versi delle poesie, altrimenti quando dovrai leggerle ti
ci vorrà una buona mezz'ora a cercarle nell'indice!".
Ed aveva ragione, poche volte un indice è inutile come questo,
sembra quasi che sia stato compilato con l'intento di impedirne
l'uso: vi si legge solo una sfilza di "Lei" incolonnata
coi numeri di pagina. Poi per la seconda parte ci viene concesso
un riferimento: un sottotitolo fra parentesi a fianco del medesimo,
ossessivo "Lei".
È quasi uno scherzo, viene da pensare che
questa parolina serva a sostituire un asterisco o uno spazio bianco,
tanto per dividere i canti d'un unico poema; però poi, cominciando
la lettura, ci si accorge che non è esattamente un titolo
né una semplice separazione: con la sua martellante ripetitività
è parte integrante della poesia, è una nota, come
il la del diapason, oppure una chiave come quella all'inizio di
ogni rigo negli spartiti musicali, serve cioè a far mantenere
costante un'intonazione mentale (con i sottotitoli della seconda
parte che possono essere assomigliati agli accidenti in chiave).
Solo un titolo è diverso, quello della poesia
in esergo, prima delle prefazioni: "Sa già", protasi
del poema rivolta al lettore dedicatario del libro, che è
come una ouverture in altro tempo e tonalità. Ebbene
questi pochi versi cercano prudentemente di rassicurarci ("a
leggerla non soffrireste"), sottintendendo quindi che non sarà
possibile una lettura superficiale, ma in cambio ci promette compensi:
"potreste trovarla piacevole parallela" e ci offre "anemoni".
Introduce quindi con la stessa umiltà e timido rispetto per
il lettore che si trova in molte composizioni antiche.
È anzi curioso che l'autrice abbia proprio voluto mettere
le mani avanti, scrivendo una nota introduttiva per prevenire le
eventuali domande sul senso complessivo del lavoro. Poi, procedendo
nella lettura, vediamo che è effettivamente una "scrittura
composita e accidentata, difficile e al tempo stesso disponibile",
come dice Vincenzo Guarracino nella prefazione (ma ciò vale
per l'intera produzione poetica di Dell'Arte, non soltanto per questo
libro), e però io credo che arrivi anche direttamente, senza
sostegni dichiarativi, suscitando emozioni e riflessioni; pure se
spesso ci turba o ci sconcerta, soprattutto per quel continuo rompere
ciò che melodicamente e semanticamente ha costruito, per
quelle infiltrazioni di stati, di espressioni, di modi di dire,
di riferimenti che sono lontani dall'ambiente precedentemente costruito
(benché meno appariscenti in questa, in quanto più
amalgamata e coerente, che nelle opere precedenti).
Antonietta interseca anfibologie, sinestesie, zeugmi;
li tesse a formare disegni astratti che richiamano analogicamente
qualcosa di reale o, viceversa, paesaggi tanto stilizzati e surreali
da perdere ogni connotazione realistica. O meglio ancora entrambe
le cose, secondo il modo in cui le cogliamo momento per momento,
e per lo più involontariamente, come nelle ambigue configurazioni
di figure e sfondi; "catene associative... slittamenti metaforici"
le definisce Guarracino, oppure "dismisure d'opposizione, in
rifrazioni capovolgenti che generano parole e discorsi tanto espressivi
quanto insensati", secondo Gio Ferri (Testuale, n. 28-29).
Le immagini ci rimbalzano come un ping-pong da un emisfero all'altro
del cervello, evocandoci nessi logici e non, considerazioni semantiche
e sensazioni inesprimibili, memorie e stati d'animo (secondo un
modo di presentarle che è sicuramente più femminile
che maschile).
Il mondo descritto è spesso quello tradizionalmente
poetico, persino banalmente poetico (con la luna, il sole, il mare...),
al quale pure continuiamo a restare affezionati sentendolo (e non
solo poeticamente) in serio pericolo, ma continuamente, e bruscamente,
contaminato da considerazioni su un quotidiano spicciolo e intrusivo.
Mondo riflesso, come in uno specchio di non eccelsa qualità
e del quale non si riesce a stabilire il grado di fedeltà,
oggetto costantemente presente nella produzione dell'autrice, che
nutre per esso una forma di amore-odio e gli ha dedicato il titolo
d'un libro, che delude o illude, o più ancora che offusca
le illusioni primarie e ne costruisce di nuove.
Lei, come dice la Dell'Arte, vuole appunto
"significare il distacco dell'io narrante da sé stesso",
un Io onnipresente, come nella norma della poesia lirica, ma indiretto,
"fuori scena". Un espediente? Forse anche, però
più nelle intenzioni a posteriori; di fatto è un modo
in cui l'autrice si presenta molte volte nelle sue opere, un modo
che le permette di oggettivare le esperienze rendendole più
accessibili. "Una esigenza nata spontaneamente", che le
consente di superare "una certa timidezza del dolore, dei sentimenti
a manifestarsi".
È come se il mondo reale, con le sue contraddizioni,
i suoi lati spigolosi e le sue strettoie, impedisse l'accesso ad
un mondo poetico sognato, visitato a tratti ma mai completamente
conquistato. Con il rifiuto della limitazione fisica, temporale
soprattutto, che impedisce il godimento completo dell'immaginario,
del desiderio (che è un punto d'arrivo, non di partenza).
Diario, lo dice il sottotitolo, sicuramente:
a conferma l'ordine cronologico delle poesie (dal 90 al 98) con
l'indicazione della data e del luogo; e del diario si ritrova proprio
il modo di annotare pensieri, sensazioni vissute giorno per giorno,
con lo stile dell'appunto veloce che in breve deve richiamare qualcosa
di complesso; o semplici postille, inserite in ampi contesti, di
cose spicciole, casalinghe, apparentemente inappropriate ("la
gonna non vuole asciugare alla corda senza sole"). Diario ermetico,
quindi, e tuttavia assolutamente "disponibile" (riprendendo
la definizione di Guarracino), anche per la totale mancanza di punteggiatura
che, pur ponendoci in difficoltà persino nel farci mettere
insieme i sintagmi, ci lascia campo libero per le associazioni,
che possiamo scegliere fuori dei costrutti sintattici, trasformando
il tutto in un possibile nostro block-notes, non certo di
avvenimenti ma di parametri da utilizzare in situazioni analoghe
e non, sistemazioni, come le definisce splendidamente Antonietta
stessa nell'apertura.
Lo svolgimento è quello della commedia (in
due tempi, che l'autrice tiene a tenere ben separati): inizia con
uno spiritoso scherzo sulla nascita e procede con alti e bassi di
umore, spesso ironici, tra entusiasmi ("apre crepacci fioriti:
fiorisce") e scoramenti ("lei è solo un incidente"),
tra l'autocondanna ("è veramente spregevole mettersi
a scrivere sui propri viadotti oscuri") e l'esaltazione ("nel
cuore del sole danzava e cantava"). Tocca generi diversi: dalla
favola ("le briciole di pane le mangia l'uragano") al
suspense ("l'infinito le correva alle spalle... dietro
l'angolo raggiunse la sua ombra bastarda"), e c'è la
Natura, costantemente, imprescindibilmente, in tutte le sue manifestazioni:
in forme meteorologiche (anche metaforiche: "lei piove",
"lei sta nevicando") o di animali, piante, minerali; che
è allegra e benigna ("la cascata che canta") oppure
ostile ("violava l'erba la formica"), infida ("non
può fidarsi del muso dolce del gatto gli occhi attendono
la preda").
L'andamento è comunque drammatico, la gioia
è solo passeggera ("per il tempo di una virgola Ofelia
è felice") e non a caso i poeti direttamente citati
(Leopardi e Sylvia Plath) sono emblematicamente esponenti d'un vissuto
fortemente doloroso; però il finale è positivo, aperto
alla speranza: "ora lei è un lunedì felice",
dopo essere appena stata "la stazione all'apparire del viso...
cucina allegra... ramo argento sul fiume...".
Così, chiuso il libro, valutato in qual misura
ci sono stati elargiti i doni promessi, non posso che augurarmi
molti altri di questi lunedì, e però senza alcuna
meraviglia: dovremmo essere abituati con la Dell'Arte a questo livello
di composizione poetica, è solo che è piacevole ribadirlo
ad ogni uscita d'un nuovo volume.