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Su Mario Luzi
 

di Stefano Lanuzza

 

 

Dopo i magari sopravvalutati Ungaretti e Saba, dopo il controverso quanto rimosso Quasimodo, dopo il magistero di un Montale riverito prima del Nobel (1975) e meschinamente denigrato poi; dopo gli strazi "ricostruiti" di Pasolini e gli sperimentalismi strenui di Emilio Villa e Edoardo Cacciatore; dopo i verseggiatori elegiaco-moraleggianti della "Scuola Lombarda" (cfr. L. Anceschi), dopo i fuochi fatui del Gruppo 63 e il ferale solipsismo di Caproni ... Dopo che il novecento sembra alienare ogni nozione di poesia finendo ingolfato da Carneadi proclamatisi inopinatamente poeti e adusi a celebrarsi in pregresse storiografie, alfine, col decentrato e "fosforico" Zanzotto, resta Mario Luzi a proporre il suo ecumenico sigillo sul canone poetico italiano alla fine del secolo.

Così, a chi chiedesse cos'è oggi la poesia, pensando a Luzi si potrebbe rispondere che, in fondo, la poesia è ... il poeta. Appunto, è soprattutto un'identificazione della poesia nelle tonalità luziane quella perseguita da Mario Specchio in una lunga e preziosa intervista, un calibrato tessuto di mediazioni e rispondenze, recante il titolo di Colloquio (Milano, Garzanti, 1999, pp. 308, £ 29.000). Un colloquio dove l'iniziale abbozzo di "un ritratto dell'artista da giovane" funge da viatico per la cognizione non d'una facile mitobiografia ma del senso dell'opera di Luzi fino ai giorni nostri. E' peraltro in tale misura che il posto della poesia nella coscienza novecentesca s'incontra con un impegno critico libero e non accademico; che non rinuncia alle proprie prerogative letterarie e non guarda alla poesia come ad un "impensato" della critica.

Germanista, traduttore e poeta in proprio (cfr. A piene mani, Firenze, Vallecchi, 1976; Nostalgia di Ulisse, Firenze, Passigli, 1999), prediligendo, alle domande di metodo, l'ascolto, il rapporto e l'incontro, Specchio inizia evocando il primo libro di Luzi, La barca (1935), rivelatore di un protagonista dell'Ermetismo poco più che ventenne ma già maturo: sicuramente moderno, ma non certo alla moda nel periodo in cui furoreggiavano Ungaretti e l'ungarettismo degli stenterelli. Non Dino Campana, pure amato da Luzi, è il mentore de La barca; ma un Leopardi immune da orfismi mitici: integrato, oltre che dal recupero della tradizione stilnovistica emblemizzata nella dantesca Vita nova, dalla Pietas del cattolicesimo etico agostiniano e da quello "pietoso e impietoso del cattolicesimo di provincia [...] da cui viene Rimbaud.(cfr. Luzi).

A proposito della seconda raccolta di versi, Avvento notturno (1940), il poeta spiega la sua estraneità al pascolismo, alle forme dannunziane e al futurismo, questo "una cosa un po' macchiettistica", e una predilezione per il movimento surrealistico europeo. Con l'aggiunta di talune affinità e "letture elettive": Hölderlin, Rilke, Trakl, Mallarmé, Eluard ... Tra questi si ricava uno spazio franco, un margine specifico di quell'effimero naturale (in cui Baudelaire ravvisava l'orrore) che l'autore valorizza identificandolo col "tempo umano della storia": campo d'una caritas cristiana che è parte della sensibilità e della stessa poiesis di Luzi. Che tuttavia non manca di sottolineare quanto il suo cristianesimo e la sua poetica del mondo siano stati esposti allo scacco dopo le vicende dell'ultima guerra mondiale: "Io personalmente sentii che qualcosa andava in fumo, tutta in un'epoca, forse un millennio". Scritto negli anni della guerra, Un brindisi (1946) marca la fine di un disagio e la tensione verso "una ritrovata speranza" (cfr. Specchio). Tensione pienamente esplanata nel 1947 con Quaderno gotico, il dettato più espressionistico oppure veemente di un poeta che, recuperando Dante senza rinnegare Petrarca, ora sente la "speranza" come "paura" e l'amore come spiritata esaltazione o coscienza di un assoluto compresso dalla terrestre finitezza, dall'eliotiana Terra desolata dell'umano destino. In Primizie del deserto (1952) s'assiste ad un rovesciamento del nichilismo di Eliot e il "deserto" (la Terra desolata) diviene, nota Specchio, "terra vergine inseminata" sopra cui gravita il poeta, interrogandosi, entro una dimensione divina non razionalizzata, sul desiderio e la fatalità.

Il rapporto empatico-umanistico con un "cristianesimo agonico" e abbandonato s'accentua in Onore del vero (1957) e avvia il dialogo a distanza con il maggiore poeta italiano del secolo, Montale. Dialogo proseguito con Il gusto della vita (1960), dove la metafisica luziana si coniuga con lo stoicismo dialogico montaliano per poi trovare, nelle raccolte Nel magma (1963) e Dal fondo delle campagne (1965), una propria peculiarità stilistica: caratterizzata dalla fedeltà ai moduli d'una trasparente comunicazione, fatta di dialoghi, istanze di verità e assunzioni di colpe o tormenti esistenziali per le inadempienze. In tale stretta virtuosa, dice Luzi, additando vuoti, abissi, imperfezioni, silenzi e impotenze, qualunque j'accuse è anche un "je suis accusé".

Con Su fondamenti invisibili (1971), il verso esce da certa lacerata dialettica e si consegna con parole umbratili alla luce della natura preludente a quella che il poeta chiama "una illuminazione interiore" capace di conciliarsi nell'abbandono senza spasimi; di parlare in una lingua che, in Al fuoco della controversia (1978), è sinfonica e saettante, scolpita sulle cose: "come lavorata di scalpello, piuttosto che di pennello" (cfr. Luzi). L'influenza della cosmologia cristologica di Teilhard de Chardin sul pensiero luziano si sostanzia appieno in Per il battesimo dei nostri frammenti (1985), lirico registro dell'attenzione al particolare inteso "come un assoluto significante, significativo, un assoluto che ha significato" (cfr. Luzi). Perché nessun frammento "è indegno, ogni particella dell'essere contiene la totalità dell'essere" (cfr. Specchio). Allora niente si perde; e niente che dipenda dall'umana storia è irredimibile. Relativamente al suo "teatro di poesia", una particolare predilezione pare esprimere il poeta per Rosales (1983) che tratta il mito di Don Giovanni non secondo la vulgata nota del "conquistatore", ma "nell'accezione del pathos disarmato" (cfr. Luzi); dell'ebbrezza che, attraversando il complesso di colpa, trasfigura Eros e, davanti "all'assoluto della morte" (cfr. Specchio), lo trasforma in "carità". Tema che, suggerisce l'intervistatore, sfiora Frasi e incisi di un canto salutare (1990), libro dell'inquietudine per i corsi e i ricorsi di una storia che metamorfosa perché niente possa cambiare ... Conclusione di un coerente trittico che comprende Il battesimo ... e Frasi e incisi ..., il Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994) ricompone tutte le ansie, ogni "nostalgia e desiderio" (cfr. Specchio) nelle metafore del 'viaggio', il nostos o ritorno che non finisce, inconcluso al pari della sete di conoscenza e rivelazione: della 'volontà di poesia' che mai come nell'ultimo Luzi vuol farsi atto conoscitivo. Entro cui, dice il poeta a conclusione del Colloquio, "forse mi sento libero di essere immediatamente come sono, quindi creatura" ... Ovvero la creatura Sotto specie umana (1999), come si titola l'ultima opera luziana, dominata da una sacralità cosmologica senza assiomi ma ferma alla sostanza corporea e materiale dell'essere: e ad una metafisica non incline alla teologia.

"Com'è sia". Scrive lapidariamente Luzi, fissando una poetica cosmica che, pensandosi "totale", trasvaluta il "fare" empirico della poesia. Ma questa è anche il contrario del lucreziano "tranquillo trascorrere" della vita e, nella vacanza dell'ordine prestabilito, germina tra solitudini e trasgressioni linguistiche, nelle insidie al sapere, in spazi sviati, eccedenti e singolari: non universalistici.

 

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