Dopo i magari sopravvalutati Ungaretti e Saba, dopo
il controverso quanto rimosso Quasimodo, dopo il magistero di un
Montale riverito prima del Nobel (1975) e meschinamente denigrato
poi; dopo gli strazi "ricostruiti" di Pasolini e gli sperimentalismi
strenui di Emilio Villa e Edoardo Cacciatore; dopo i verseggiatori
elegiaco-moraleggianti della "Scuola Lombarda" (cfr. L.
Anceschi), dopo i fuochi fatui del Gruppo 63 e il ferale solipsismo
di Caproni ... Dopo che il novecento sembra alienare ogni nozione
di poesia finendo ingolfato da Carneadi proclamatisi inopinatamente
poeti e adusi a celebrarsi in pregresse storiografie, alfine, col
decentrato e "fosforico" Zanzotto, resta Mario Luzi a
proporre il suo ecumenico sigillo sul canone poetico italiano alla
fine del secolo.
Così, a chi chiedesse cos'è oggi la
poesia, pensando a Luzi si potrebbe rispondere che, in fondo, la
poesia è ... il poeta. Appunto, è soprattutto un'identificazione
della poesia nelle tonalità luziane quella perseguita da
Mario Specchio in una lunga e preziosa intervista, un calibrato
tessuto di mediazioni e rispondenze, recante il titolo di Colloquio
(Milano, Garzanti, 1999, pp. 308, £
29.000). Un colloquio dove l'iniziale abbozzo di "un
ritratto dell'artista da giovane" funge da viatico per la cognizione
non d'una facile mitobiografia ma del senso dell'opera di Luzi fino
ai giorni nostri. E' peraltro in tale misura che il posto della
poesia nella coscienza novecentesca s'incontra con un impegno critico
libero e non accademico; che non rinuncia alle proprie prerogative
letterarie e non guarda alla poesia come ad un "impensato"
della critica.
Germanista, traduttore e poeta in proprio (cfr. A
piene mani, Firenze, Vallecchi, 1976; Nostalgia di Ulisse,
Firenze, Passigli, 1999), prediligendo, alle domande di metodo,
l'ascolto, il rapporto e l'incontro, Specchio inizia evocando il
primo libro di Luzi, La barca (1935), rivelatore di un protagonista
dell'Ermetismo poco più che ventenne ma già maturo:
sicuramente moderno, ma non certo alla moda nel periodo in cui furoreggiavano
Ungaretti e l'ungarettismo degli stenterelli. Non Dino Campana,
pure amato da Luzi, è il mentore de La barca; ma un
Leopardi immune da orfismi mitici: integrato, oltre che dal recupero
della tradizione stilnovistica emblemizzata nella dantesca Vita
nova, dalla Pietas del cattolicesimo etico agostiniano
e da quello "pietoso e impietoso del cattolicesimo di provincia
[...] da cui viene Rimbaud.(cfr. Luzi).
A proposito della seconda raccolta di versi, Avvento
notturno (1940), il poeta spiega la sua estraneità al
pascolismo, alle forme dannunziane e al futurismo, questo "una
cosa un po' macchiettistica", e una predilezione per il movimento
surrealistico europeo. Con l'aggiunta di talune affinità
e "letture elettive": Hölderlin, Rilke, Trakl, Mallarmé,
Eluard ... Tra questi si ricava uno spazio franco, un margine specifico
di quell'effimero naturale (in cui Baudelaire ravvisava l'orrore)
che l'autore valorizza identificandolo col "tempo umano della
storia": campo d'una caritas cristiana che è
parte della sensibilità e della stessa poiesis di Luzi. Che
tuttavia non manca di sottolineare quanto il suo cristianesimo e
la sua poetica del mondo siano stati esposti allo scacco dopo le
vicende dell'ultima guerra mondiale: "Io personalmente sentii
che qualcosa andava in fumo, tutta in un'epoca, forse un millennio".
Scritto negli anni della guerra, Un brindisi (1946) marca
la fine di un disagio e la tensione verso "una ritrovata speranza"
(cfr. Specchio). Tensione pienamente esplanata nel 1947 con Quaderno
gotico, il dettato più espressionistico oppure veemente
di un poeta che, recuperando Dante senza rinnegare Petrarca, ora
sente la "speranza" come "paura" e l'amore come
spiritata esaltazione o coscienza di un assoluto compresso dalla
terrestre finitezza, dall'eliotiana Terra desolata dell'umano
destino. In Primizie del deserto (1952) s'assiste ad un rovesciamento
del nichilismo di Eliot e il "deserto" (la Terra desolata)
diviene, nota Specchio, "terra vergine inseminata" sopra
cui gravita il poeta, interrogandosi, entro una dimensione divina
non razionalizzata, sul desiderio e la fatalità.
Il rapporto empatico-umanistico con un "cristianesimo
agonico" e abbandonato s'accentua in Onore del vero
(1957) e avvia il dialogo a distanza con il maggiore poeta italiano
del secolo, Montale. Dialogo proseguito con Il gusto della vita
(1960), dove la metafisica luziana si coniuga con lo stoicismo dialogico
montaliano per poi trovare, nelle raccolte Nel magma (1963)
e Dal fondo delle campagne (1965), una propria peculiarità
stilistica: caratterizzata dalla fedeltà ai moduli d'una
trasparente comunicazione, fatta di dialoghi, istanze di verità
e assunzioni di colpe o tormenti esistenziali per le inadempienze.
In tale stretta virtuosa, dice Luzi, additando vuoti, abissi, imperfezioni,
silenzi e impotenze, qualunque j'accuse è anche un
"je suis accusé".
Con Su fondamenti invisibili (1971), il verso
esce da certa lacerata dialettica e si consegna con parole umbratili
alla luce della natura preludente a quella che il poeta chiama "una
illuminazione interiore" capace di conciliarsi nell'abbandono
senza spasimi; di parlare in una lingua che, in Al fuoco della
controversia (1978), è sinfonica e saettante, scolpita
sulle cose: "come lavorata di scalpello, piuttosto che di pennello"
(cfr. Luzi). L'influenza della cosmologia cristologica di Teilhard
de Chardin sul pensiero luziano si sostanzia appieno in Per il
battesimo dei nostri frammenti (1985), lirico registro dell'attenzione
al particolare inteso "come un assoluto significante, significativo,
un assoluto che ha significato" (cfr. Luzi). Perché
nessun frammento "è indegno, ogni particella dell'essere
contiene la totalità dell'essere" (cfr. Specchio). Allora
niente si perde; e niente che dipenda dall'umana storia è
irredimibile. Relativamente al suo "teatro di poesia",
una particolare predilezione pare esprimere il poeta per Rosales
(1983) che tratta il mito di Don Giovanni non secondo la vulgata
nota del "conquistatore", ma "nell'accezione del
pathos disarmato" (cfr. Luzi); dell'ebbrezza che, attraversando
il complesso di colpa, trasfigura Eros e, davanti "all'assoluto
della morte" (cfr. Specchio), lo trasforma in "carità".
Tema che, suggerisce l'intervistatore, sfiora Frasi e incisi
di un canto salutare (1990), libro dell'inquietudine per i corsi
e i ricorsi di una storia che metamorfosa perché niente possa
cambiare ... Conclusione di un coerente trittico che comprende Il
battesimo ... e Frasi e incisi ..., il Viaggio terrestre
e celeste di Simone Martini (1994) ricompone tutte le ansie,
ogni "nostalgia e desiderio" (cfr. Specchio) nelle metafore
del 'viaggio', il nostos o ritorno che non finisce, inconcluso
al pari della sete di conoscenza e rivelazione: della 'volontà
di poesia' che mai come nell'ultimo Luzi vuol farsi atto conoscitivo.
Entro cui, dice il poeta a conclusione del Colloquio, "forse
mi sento libero di essere immediatamente come sono, quindi creatura"
... Ovvero la creatura Sotto specie umana (1999), come si
titola l'ultima opera luziana, dominata da una sacralità
cosmologica senza assiomi ma ferma alla sostanza corporea e materiale
dell'essere: e ad una metafisica non incline alla teologia.
"Com'è sia". Scrive lapidariamente
Luzi, fissando una poetica cosmica che, pensandosi "totale",
trasvaluta il "fare" empirico della poesia. Ma questa
è anche il contrario del lucreziano "tranquillo trascorrere"
della vita e, nella vacanza dell'ordine prestabilito, germina tra
solitudini e trasgressioni linguistiche, nelle insidie al sapere,
in spazi sviati, eccedenti e singolari: non universalistici.