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L'autobiografia del niño de oro

di Antonino Infranca

 

 

Maradona è condannato al successo e non solo da calciatore. Come scrittore può vantare un successo di vendite da fare morire di invidia autori come Eco, García Marquez, Coelho, King. Nella sola prima settimana di vendite la sua autobiografia (1) è stata acquistata in 125.000 copie in un paese come l'Argentina (36 milioni di abitanti), che raramente concede successi editoriali di questo genere. Ma il villero (cioè nato in una villa miseria, la baraccopoli argentina) fin dalla nascita era destinato al successo qualsiasi attività avesse intrapreso. Esclusa la vita quotidiana, dove conduce una solitaria lotta contro la droga. Sembra un paradosso, Maradona però è paradossale. Così non si direbbe del calciatore, sempre capace di risolvere le situazioni di gioco in modo fantasioso, estroso, in una parola, bello. L'autobiografia di Maradona tuttavia ci mette di fronte a un carattere piuttosto che a un calciatore. Chi la leggesse per trovarvi svelati i segreti del calcio, oppure descrizioni tecniche di qualcuna delle formidabili giocate del suo autore o la narrazione di qualche aneddoto di gioco, rimarrebbe deluso. Qui l'autobiografia è l'esatta narrazione della sua vita: una lunga serie di lotte, le quali somigliano però più a liti che a battaglie. Non c'è dubbio che a spingere Maradona dentro questa interminabile serie di scontri sia stato il carattere, privo di diplomazia. Un esempio è quando racconta la sua sfrontatezza persino di fronte al papa. Prima di narrare l'episodio, ricorda la ricchezza della Chiesa, la vicenda del Banco Ambrosiano e le parole del papa ai bambini poveri... poi rimane incantato, perché il papa gli regala un rosario e gli dice che è un dono speciale per lui. Diego però controlla e riscontra che il suo è identico a quello ricevuto dalla madre. Allora torna indietro e chiede: "Scusi, Santità, qual è la differenza tra il mio e quello di mia madre?". Non mi ha risposto… Mi ha soltanto guardato, mi ha battuto una mano sulla spalla, ha sorriso, nient'altro! Diego, non rompere le palle, prendi questo rosario che ho gente che m'aspetta, questo mi ha detto con quella pacca sulla spalla" (p. 140). Forse doveva imparare che in certi ambienti anche el niño de oro è uno come gli altri. Gli aspetti del carattere di Maradona che in campo risultavano positivi - quali l'irriverenza, pur mai irrispettosa, verso qualsiasi avversario, la voglia di giocare sempre al proprio livello, l'impegno a vincere qualsiasi partita, in una parola l'essere picaro - sono stati e sono certamente insopportabili nella vita quotidiana, dove a tutti gli sportivi si chiede di tornare ad essere persone normali. È comprensibile che chi viene da Villa Fiorito, la villa miseria dove Maradona è nato 40 anni fa, e conquista il mondo correndo dietro ad una palla, o meglio facendo correre la palla dove lui vuole, finisce poi per credere di avere una missione speciale. Di qui questo titolo gridato: "Io sono il Diego della gente!". Il calcio è soltanto lo strumento per rivelare questa missione, tanto che alla fine del libro, quasi a ricordare che sta scrivendo uno dei maggiori talenti calcistici di tutti i tempi, è riportato il suo giudizio su 100 calciatori, quasi tutti suoi contemporanei. È, così, inevitabile che il Maradona calciatore compaia nell'autobiografia sempre unito all'uomo e la sintesi non si rivela felice. In campo incantava la gente anche per la correttezza. Di solito lo si vedeva cadere a terra a causa dei calci di chi non riusciva altrimenti a contenere la sua bravura, ma era sempre pronto a risollevarsi senza polemiche, riprendeva a giocare come se niente fosse. In sole due occasioni si rese protagonista di gesti aggressivi verso gli avversari, entrambe per lo stesso motivo: mancanza di rispetto verso la sua eccelsa bravura. Una prima volta fu ai Mondiali del 1982 nella partita tra Argentina e Brasile, quando scalciò l'incolpevole Batista, perché i brasiliani passandosi la palla lo ridussero al ruolo di torello, come si usa dire in termini calcistici. La seconda volta fu nel 1984 alla finale della Copa del Rey tra Barcellona e Atletico Madrid, per lo stesso motivo. Quella seconda volta furono botte da orbi tra le due squadre sotto gli occhi sbalorditi del re di Spagna. Il commento di Maradona è molto eloquente: "Dopo ho avuto molta vergogna a causa del re. Beh, Juan Carlos stava lì, nel palco d'onore, era la sua Coppa, e noi ci stavamo ammazzando di botte. Mi ha fatto pena per lui, perché lui mi piaceva molto, mi era simpatico". Infatti prima di questo scandalo, era stato ricevuto a palazzo e trattenuto a colloquio con il re per un'ora e mezza, invece dei soliti venti minuti previsti dal cerimoniale. Un altro episodio riguarda noi italiani. Si tratta della famosa dichiarazione, alla vigilia di Italia-Argentina nei Mondiali 1990: "Mi disgusta che adesso tutti chiedano ai napoletani di essere italiani e di sostenere la Nazionale… Napoli è stata emarginata dal resto d'Italia. L'hanno condannata col razzismo più ingiusto". E nell'autobiografia commenta: "Non volevo sollevare i napoletani contro l'Italia, per niente, ma stavo dicendo la verità" (p. 181). A questo perenne adolescente mal cresciuto, privo d'ogni senso dell'opportunità e della situazione, i napoletani risposero, molto più maturi: "Tiferemo perché vinca l'Italia, ma rispettando e applaudendo gli argentini". E Maradona riconosce che per la prima volta in quel mondiale l'inno nazionale argentino venne applaudito. Non dice tuttavia di essersi domandato cosa stavano pensando gli italiani d'Argentina, quei milioni di tanos, che si chiamano così per abbreviazione da napolitanos. Si dimenticò che in Argentina l'Italia è detta segunda madrepatria. Conseguenza: nella finale di Roma i soliti cretini accolsero l'Argentina a fischi mentre a Buenos Aires cretini anche peggiori posero una bomba nel consolato italiano e si ebbero manifestazioni aggressive nei confronti della numerosissima colonia italiana. Ci son voluti anni, un decennio, per far dimenticare quelle parole e quelle conseguenze. Il suo carattere per molti aspetti è molto simile a quello dell'argentino medio, con una mescolanza di contrasti che può essere attraente, ma anche scostante. Generoso e arrogante, rispettoso e insopportabile, amichevole con chi gli è devoto e astioso con chi non lo ammira, altruista ed egocentrico, coraggioso e sfrontato, privo del senso delle cose e degli uomini, in una parola picaro. Viene da chiedersi: sarà stato un buon esempio per gli argentini? Davanti a Pelé, esempio di correttezza sportiva e professionale dentro e fuori del campo, perde senza dubbio il confronto, e forse lo perde anche come gioco. A proposito di Pelé, è interessante il suo giudizio: "Come giocatore è stato il massimo, ma non ne ha saputo approfittare per esaltare il calcio. Ha pensato alla politica, ha pensato che poteva diventare il presidente dei brasiliani. Ma non credo che un calciatore, o un ex calciatore, debba pensare a fare il presidente di un paese. Mi sarebbe piaciuto che si fosse offerto, come ho fatto io, di presiedere un'associazione per la difesa dei diritti dei giocatori, che si fosse occupato di Garrincha, perché non morisse in miseria, che lottasse contro tutti gli atti dei potenti che sono dannosi per noi. Non mi confronto con lui, l'ho sempre detto e lo ripeto. E quando dico che non mi confronto, non parlo soltanto di calcio. Ho avuto modo d'incontrarmi con lui diverse volte. […] Era una questione di pelle, ci urtavamo troppo; ci vedevamo e sprizzavano scintille" (p. 284). Eppure Pelé - l'autobiografia lo racconta molte pagine prima - gli augurò di tornare a giocare, quando a Napoli Maradona era nel pieno del problema della droga. Circa questo punto, altro motivo per cui sarà sempre ricordato, si assume tutte le responsabilità quanto a se stesso, ma giustamente afferma che la lotta degli Stati contro la droga è blanda, per interessi complicati che inducono i governi a tollerare la tossicodipendenza (p. 80). E anche sulla necessità di impegnarsi a difendere i diritti dei calciatori, Maradona ha una tesi simile: lo spettacolo lo fanno i giocatori e i dirigenti ne approfittano per i loro affari. Sono verità che è difficile negare, ma resta comunque incomprensibile la lunghezza della lista dei suoi nemici. È come se tutto il mondo ce l'avesse con lui. Anche se poi riconosce che il mondo gli ha offerto la possibilità di vivere una vita fantastica. La contraddizione si fa anche più esplicita quando la sua franchezza, che talora arriva alla sfrontatezza, convive con l'amicizia per quei potenti che nulla fanno o hanno fatto per migliorare le condizioni della "gente", delle persone che non hanno avuto la sua fortuna. Si dichiara così amico di Menem da accomunarlo nella dedica del libro a Fidel Castro, che ammira e a cui sostiene di dovere la vita: "Se sono vivo, devo ringraziare il Barbuto (Dio) e… il Barbuto (Fidel)" (p. 298). Ammirazione incondizionata dichiara per Ernesto Che Guevara, che ha scoperto in Italia: è stato il suo orgoglio di argentino la molla che lo ha spinto a guardare al Che con simpatia e a Videla con disprezzo: "Gente come Videla, che ha fatto sparire 30.000 persone, non merita niente. Altro che sporcare il ricordo del trionfo [nel Mondiale del 1978] a una gran massa di ragazzi… Per questo dico: si lamentano di me, dicono che sono contraddittorio; ma il nostro paese?. Nel nostro paese c'è ancora gente che difende Videla e sono molti di meno quelli che difendono il Che. Molti di meno! Molti non lo conoscono per niente. Persone come Videla si sono comportati in modo da sporcare il nome dell'Argentina all'estero; invece, quello del Che dovrebbe farci sentire orgogliosi" (p. 36). Forse, se fosse ancora in campo, sarebbe più facile perdonargli le sue contraddizioni. Perché è certamente vero che "la gente deve capire che Maradona non è una macchina che dà la felicità" (p. 66), ma alcune sue giocate fanno ormai parte dell'immaginario di tanta gente e per questo lo ringrazia.

NOTE:

(1) Diego Armando Maradona, Yo soy el Diego de la gente, Buenos Aires, Planeta, 2000, pp. 319. Riprendi la lettura

 

 


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