Maradona è condannato al successo e non solo da calciatore.
Come scrittore può vantare un successo di vendite da fare morire
di invidia autori come Eco, García Marquez, Coelho, King. Nella
sola prima settimana di vendite la sua autobiografia (1)
è stata acquistata in 125.000 copie in un paese come l'Argentina
(36 milioni di abitanti), che raramente concede successi editoriali
di questo genere. Ma il villero (cioè nato in una villa miseria,
la baraccopoli argentina) fin dalla nascita era destinato al successo
qualsiasi attività avesse intrapreso. Esclusa la vita quotidiana,
dove conduce una solitaria lotta contro la droga. Sembra un paradosso,
Maradona però è paradossale. Così non si direbbe del calciatore,
sempre capace di risolvere le situazioni di gioco in modo fantasioso,
estroso, in una parola, bello. L'autobiografia di Maradona tuttavia
ci mette di fronte a un carattere piuttosto che a un calciatore.
Chi la leggesse per trovarvi svelati i segreti del calcio, oppure
descrizioni tecniche di qualcuna delle formidabili giocate del suo
autore o la narrazione di qualche aneddoto di gioco, rimarrebbe
deluso. Qui l'autobiografia è l'esatta narrazione della sua vita:
una lunga serie di lotte, le quali somigliano però più a liti che
a battaglie. Non c'è dubbio che a spingere Maradona dentro questa
interminabile serie di scontri sia stato il carattere, privo di
diplomazia. Un esempio è quando racconta la sua sfrontatezza persino
di fronte al papa. Prima di narrare l'episodio, ricorda la ricchezza
della Chiesa, la vicenda del Banco Ambrosiano e le parole del papa
ai bambini poveri... poi rimane incantato, perché il papa gli regala
un rosario e gli dice che è un dono speciale per lui. Diego però
controlla e riscontra che il suo è identico a quello ricevuto dalla
madre. Allora torna indietro e chiede: "Scusi, Santità, qual è la
differenza tra il mio e quello di mia madre?". Non mi ha risposto…
Mi ha soltanto guardato, mi ha battuto una mano sulla spalla, ha
sorriso, nient'altro! Diego, non rompere le palle, prendi questo
rosario che ho gente che m'aspetta, questo mi ha detto con quella
pacca sulla spalla" (p. 140). Forse doveva imparare che in certi
ambienti anche el niño de oro è uno come gli altri. Gli aspetti
del carattere di Maradona che in campo risultavano positivi - quali
l'irriverenza, pur mai irrispettosa, verso qualsiasi avversario,
la voglia di giocare sempre al proprio livello, l'impegno a vincere
qualsiasi partita, in una parola l'essere picaro - sono stati e
sono certamente insopportabili nella vita quotidiana, dove a tutti
gli sportivi si chiede di tornare ad essere persone normali. È comprensibile
che chi viene da Villa Fiorito, la villa miseria dove Maradona è
nato 40 anni fa, e conquista il mondo correndo dietro ad una palla,
o meglio facendo correre la palla dove lui vuole, finisce poi per
credere di avere una missione speciale. Di qui questo titolo gridato:
"Io sono il Diego della gente!". Il calcio è soltanto lo strumento
per rivelare questa missione, tanto che alla fine del libro, quasi
a ricordare che sta scrivendo uno dei maggiori talenti calcistici
di tutti i tempi, è riportato il suo giudizio su 100 calciatori,
quasi tutti suoi contemporanei. È, così, inevitabile che il Maradona
calciatore compaia nell'autobiografia sempre unito all'uomo e la
sintesi non si rivela felice. In campo incantava la gente anche
per la correttezza. Di solito lo si vedeva cadere a terra a causa
dei calci di chi non riusciva altrimenti a contenere la sua bravura,
ma era sempre pronto a risollevarsi senza polemiche, riprendeva
a giocare come se niente fosse. In sole due occasioni si rese protagonista
di gesti aggressivi verso gli avversari, entrambe per lo stesso
motivo: mancanza di rispetto verso la sua eccelsa bravura. Una prima
volta fu ai Mondiali del 1982 nella partita tra Argentina e Brasile,
quando scalciò l'incolpevole Batista, perché i brasiliani passandosi
la palla lo ridussero al ruolo di torello, come si usa dire in termini
calcistici. La seconda volta fu nel 1984 alla finale della Copa
del Rey tra Barcellona e Atletico Madrid, per lo stesso motivo.
Quella seconda volta furono botte da orbi tra le due squadre sotto
gli occhi sbalorditi del re di Spagna. Il commento di Maradona è
molto eloquente: "Dopo ho avuto molta vergogna a causa del re. Beh,
Juan Carlos stava lì, nel palco d'onore, era la sua Coppa, e noi
ci stavamo ammazzando di botte. Mi ha fatto pena per lui, perché
lui mi piaceva molto, mi era simpatico". Infatti prima di questo
scandalo, era stato ricevuto a palazzo e trattenuto a colloquio
con il re per un'ora e mezza, invece dei soliti venti minuti previsti
dal cerimoniale. Un altro episodio riguarda noi italiani. Si tratta
della famosa dichiarazione, alla vigilia di Italia-Argentina nei
Mondiali 1990: "Mi disgusta che adesso tutti chiedano ai napoletani
di essere italiani e di sostenere la Nazionale… Napoli è stata emarginata
dal resto d'Italia. L'hanno condannata col razzismo più ingiusto".
E nell'autobiografia commenta: "Non volevo sollevare i napoletani
contro l'Italia, per niente, ma stavo dicendo la verità" (p. 181).
A questo perenne adolescente mal cresciuto, privo d'ogni senso dell'opportunità
e della situazione, i napoletani risposero, molto più maturi: "Tiferemo
perché vinca l'Italia, ma rispettando e applaudendo gli argentini".
E Maradona riconosce che per la prima volta in quel mondiale l'inno
nazionale argentino venne applaudito. Non dice tuttavia di essersi
domandato cosa stavano pensando gli italiani d'Argentina, quei milioni
di tanos, che si chiamano così per abbreviazione da napolitanos.
Si dimenticò che in Argentina l'Italia è detta segunda madrepatria.
Conseguenza: nella finale di Roma i soliti cretini accolsero l'Argentina
a fischi mentre a Buenos Aires cretini anche peggiori posero una
bomba nel consolato italiano e si ebbero manifestazioni aggressive
nei confronti della numerosissima colonia italiana. Ci son voluti
anni, un decennio, per far dimenticare quelle parole e quelle conseguenze.
Il suo carattere per molti aspetti è molto simile a quello dell'argentino
medio, con una mescolanza di contrasti che può essere attraente,
ma anche scostante. Generoso e arrogante, rispettoso e insopportabile,
amichevole con chi gli è devoto e astioso con chi non lo ammira,
altruista ed egocentrico, coraggioso e sfrontato, privo del senso
delle cose e degli uomini, in una parola picaro. Viene da chiedersi:
sarà stato un buon esempio per gli argentini? Davanti a Pelé, esempio
di correttezza sportiva e professionale dentro e fuori del campo,
perde senza dubbio il confronto, e forse lo perde anche come gioco.
A proposito di Pelé, è interessante il suo giudizio: "Come giocatore
è stato il massimo, ma non ne ha saputo approfittare per esaltare
il calcio. Ha pensato alla politica, ha pensato che poteva diventare
il presidente dei brasiliani. Ma non credo che un calciatore, o
un ex calciatore, debba pensare a fare il presidente di un paese.
Mi sarebbe piaciuto che si fosse offerto, come ho fatto io, di presiedere
un'associazione per la difesa dei diritti dei giocatori, che si
fosse occupato di Garrincha, perché non morisse in miseria, che
lottasse contro tutti gli atti dei potenti che sono dannosi per
noi. Non mi confronto con lui, l'ho sempre detto e lo ripeto. E
quando dico che non mi confronto, non parlo soltanto di calcio.
Ho avuto modo d'incontrarmi con lui diverse volte. […] Era una questione
di pelle, ci urtavamo troppo; ci vedevamo e sprizzavano scintille"
(p. 284). Eppure Pelé - l'autobiografia lo racconta molte pagine
prima - gli augurò di tornare a giocare, quando a Napoli Maradona
era nel pieno del problema della droga. Circa questo punto, altro
motivo per cui sarà sempre ricordato, si assume tutte le responsabilità
quanto a se stesso, ma giustamente afferma che la lotta degli Stati
contro la droga è blanda, per interessi complicati che inducono
i governi a tollerare la tossicodipendenza (p. 80). E anche sulla
necessità di impegnarsi a difendere i diritti dei calciatori, Maradona
ha una tesi simile: lo spettacolo lo fanno i giocatori e i dirigenti
ne approfittano per i loro affari. Sono verità che è difficile negare,
ma resta comunque incomprensibile la lunghezza della lista dei suoi
nemici. È come se tutto il mondo ce l'avesse con lui. Anche se poi
riconosce che il mondo gli ha offerto la possibilità di vivere una
vita fantastica. La contraddizione si fa anche più esplicita quando
la sua franchezza, che talora arriva alla sfrontatezza, convive
con l'amicizia per quei potenti che nulla fanno o hanno fatto per
migliorare le condizioni della "gente", delle persone che non hanno
avuto la sua fortuna. Si dichiara così amico di Menem da accomunarlo
nella dedica del libro a Fidel Castro, che ammira e a cui sostiene
di dovere la vita: "Se sono vivo, devo ringraziare il Barbuto (Dio)
e… il Barbuto (Fidel)" (p. 298). Ammirazione incondizionata dichiara
per Ernesto Che Guevara, che ha scoperto in Italia: è stato il suo
orgoglio di argentino la molla che lo ha spinto a guardare al Che
con simpatia e a Videla con disprezzo: "Gente come Videla, che ha
fatto sparire 30.000 persone, non merita niente. Altro che sporcare
il ricordo del trionfo [nel Mondiale del 1978] a una gran massa
di ragazzi… Per questo dico: si lamentano di me, dicono che sono
contraddittorio; ma il nostro paese?. Nel nostro paese c'è ancora
gente che difende Videla e sono molti di meno quelli che difendono
il Che. Molti di meno! Molti non lo conoscono per niente. Persone
come Videla si sono comportati in modo da sporcare il nome dell'Argentina
all'estero; invece, quello del Che dovrebbe farci sentire orgogliosi"
(p. 36). Forse, se fosse ancora in campo, sarebbe più facile perdonargli
le sue contraddizioni. Perché è certamente vero che "la gente deve
capire che Maradona non è una macchina che dà la felicità" (p. 66),
ma alcune sue giocate fanno ormai parte dell'immaginario di tanta
gente e per questo lo ringrazia.
NOTE:
(1) Diego Armando
Maradona, Yo soy el Diego de la gente, Buenos Aires, Planeta, 2000,
pp. 319. Riprendi
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