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Su Franco Cavallo, Nuove Frammentazioni
 

di Mario Lunetta

 

 

Nel 1979, quando la poesia di Franco Cavallo si nutriva ancora malgrado tutto della felicità della sua musica distesa o sincopata, il poeta napoletano pubblicò un libro intitolato Frammentazioni: qualcosa di ideologicamente distante dal termine frammenti, che pure poteva richiamare in radice.

Erano tempi violenti e sicuramente oscuri, eppure sembrava darsi qualche attraversamento di lampi, sembrava non del tutto calata la saracinesca plumbea e gassosa di quella che oggi si chiama globalizzazione e che, oltre l'apparente neutralità del lemma, significa semplicemente dominio planetario della produzione e delle coscienze. Oggi Cavallo, con sulle spalle e nella testa il peso di questo ventennio che ha visto troppe derive, dà alla luce le sue Nuove Frammentazioni (Anterem edizioni, con una nota critica di Giuliano Gramigna, pp. 53 s.p.), che rappresentano forse il suo libro di versi più amaro, più deprivato di speranza e di orizzonte.

La sua contraddizione attiva è data dal fatto che, a una materia e una visione scarnificata e mortuaria dei paesaggi, delle cose e degli uomini, corrisponda poi una lingua di estrema freschezza, dotata di una vitalità animale, di una naturalezza che brucia ogni abilità (che pure è grande) e ogni sofisticatezza, nel respiro continuo della scrittura che si fa senza tregua sguardo, parola, odore, e, con salda determinazione, pronuncia del senso dentro l'insensatezza del mondo, che a oriente come a occidente, nel sud come nel nord del pianeta, è ormai nuda impronta della merce. In una riflessione dell'autore intitolata "Aborigeni" si legge:

Il poeta moderno, a mano a mano che le società industrializzate si sono consegnate anima e corpo all'Assoluto tecnologico, e a quello del profitto ad esso connesso, trasformando il concetto di "libero mercato" nella vera e unica filosofia del mondo, quella che suffraga gli eventi e non discute più delle (sulle) idee, è diventato del tutto identico all'aborigeno australiano di cui parla Bruce Chatwin in The Songlines.

E' una dichiarazione che la scrittura incarna entro un assetto formale di fortissima tenuta, snodata com'è sul filo elastico del genere "taccuino di viaggio", qui beffardamente stravolto nella sua possibile aura. Appaiono infatti, per flashes spettrali, l'Africa e altri terzi e quarti mondi, ridotti ormai, nella coscienza desolata di un poeta occidentale senza più appartenenza, vero apolide di una civiltà infame, a mero vuoto:

non c'è dunque un futuro.
non è rimasto più niente.
solo un brusio che si spegne.

solo qualcuno che si pente.

E ancora, con radicale nichilismo:

il niente e il tutto
un eguale costrutto!
l principio e la fine
hanno un solo confine.

 

 

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