Riprendo il discorso da dove lo avevo lasciato nell'introduzione
al primo dei volumi destinati a raccogliere, quando l'opera sarà
compiuta, tutti i romanzi di Pratolini nella collana "I Meridiani"
della Mondadori; in quell'occasione, parlando del Mannello
di Natascia che, com'è noto, è l'ultimo libro
di Pratolini (uscito nel 1985, quasi vent'anni dopo Allegoria
e Derisione), scrivevo che Il mannello, romanzo
in versi, "appare sovrapponibile, pieno su vuoto, nero su
bianco (il nero della scrittura sul bianco dell'inesistente) a
quel romanzo in prosa, romanzo-romanzo [Malattia infantile],
che Pratolini ha disperatamente tentato di scrivere per più
di vent'anni, che forse ha scritto e riscritto e distrutto, forse
non ha mai finito di scrivere, forse non ha mai veramente cominciato
a scrivere [...]. / Ma sovrapponibile non vuol dire che si può
sostituire. Quel romanzo, comunque siano andate le cose, non esiste:
di Malattia infantile non c'è traccia tra le carte
pratoliniane"(1).
Torno ora su questo argomento, sollecitato da alcuni lavori che
nel frattempo sono stati pubblicati: soprattutto il libro di Edy
Frollano e Rodolfo Tommasi sul Mannello di Natascia
(1995) (2) e il saggio di Raffaella Rodondi
su L'ultimo Pratolini, edito nel 1997(3).
Lo studio della Rodondi, in particolare, è un'investigazione
accanita, un pedinamento pres-sante alla ricerca delle possibili
tracce del romanzo per tanti anni atteso, e si incentra so-prattutto
- oltre che sul Mannello e su numerose dichiarazioni
rilasciate dallo scrittore nel corso degli anni - sugli unici
due frammenti pubblicati che a quel romanzo possono essere ricondotti:
uno, stampato nel 1982, col titolo Inizio di un vecchio
romanzo, in un volume collettaneo di omaggio a Silvio
Guarnieri(4); l'altro, col titolo Vecchie
carte, nell'almanacco "Alto Mare" dell'editore
Prandi (1985)(5).
Dico subito che io condivido dalla prima all'ultima riga la sostanza
dello splendido saggio della Rodondi, di rara intelligenza e acume,
ricco di dati e notizie, capace di congetture sempre plausibili.
Se qui ne discuto è solo per integrare o correggere qualche
ipotesi da lei formulata, e perché lei stessa mi chiama
in causa quando scrive: "La morte dello scrittore, avvenuta
a Roma il 12 gennaio '91, sigilla il mistero della Malattia
infantile [...] se anche Francesco Paolo Memmo, da molti
anni il critico-amico più vicino a Pratolini, sua "memoria
ed archivio", si limita nell'Introduzione ai
"Meridiani" - lui che dovrebbe saperne tanto di più
- ad assemblare velocemente le variabili e contraddittorie notizie
d'autore [...] per poi concludere che "quel romanzo, comunque
siano andate le cose, non esiste: di Malattia infantile
non c'è traccia tra le carte pratoliniane"(6);
e ancora a me, credo, si riferisca nella stessa pagina, augurandosi
che possano un giorno essere ritrovati (e pubblicati) almeno gli
"appunti, abbozzi, scartafacci [di Malattia infantile]
(impensabile, questo sì, che esista come testo organico
e compiuto), magari anche contravvenendo a una precisa dispo-sizione
d'autore"(7).
Ora, io certamente non sono l'esecutore testamentario di Pratolini,
ma di quel tanto di più (o di quel poco) che so intorno
a quel "mistero" vorrei dare qui testimonianza, anche
per-ché credo di non essere più tenuto a quella
riservatezza che su questa faccenda mi era stata esplicitamente
richiesta e che, lui vivo, era d'obbligo rispettare. Andiamo perciò
in ordine.
Allegoria e Derisione, pubblicata nel 1966, narra,
nell'ottica tutta autobiografica di un intellettuale in crisi,
vicende che si svolgono tra il 1935 e il 1945 e conclude la trilogia
di Una storia italiana, iniziata con Metello
(1955) e proseguita con Lo scialo (1960). La conclude
con una postilla finale, una paginetta datata Valdarno, 2 luglio
1965, che ha tutto il sapore di una resa anche se trova il
suo suggello in un augurio:
E tu, che acidi hai usato per dissolvere i veleni e scomporli,
precipitarli, renderli comunque attivi? Hai lavorato, e poi?
Hai detto sì, e poi? Hai girato il mondo, dall'Azerbaijan
alla Terra del Fuoco, e poi? Se per la sesta, decima volta apri
un diario, significa che sai ancora ascoltarti. È a te
stesso che devi, se c'è, una spiegazione. L'importante
è che tu sia oculatamente sincero. Quando hai supposto
di dire la verità, quasi sempre, è madornale,
pochi ne hanno avuto il sospetto. Non un problema di misura,
ma di lacrime che stillano invece di colare. Reticenza non grido.
Ora il sangue delle cose s'è aggrumato. Chissà
tu non riesca a liquefarlo a furia di gelo, e che a contatto
con la morte non si animi la vita (8).
2 luglio 1965 è la data di questa pagina: il tempo della
storia e il tempo della scrittura fi-nalmente coincidono. Era
questa l'idea alla base di Una storia italiana:
raggiungere la storia, e raggiungersi: "Si
trattava di fare un lungo esame di coscienza, partire dal 1875
ed arrivare a oggi. Era questa la mia ambizione: fare finire oggi
la storia, raggiungermi insomma, arrivare alla mia generazione"(9).
Insomma, come anche si legge in quell'ultimo libro, a proposito
dell'inchiesta del protagonista intorno ai suoi avi Marsili, stendere
"un sommario che deve condurmi per vie traverse e strade
cilindrate a me che scrivo, nel momento in cui scrivo" (10).
Ma come Pratolini aveva raggiunto la storia, e la storia della
propria generazione e la pro-pria storia? Con un trucco: lasciando
entro parentesi, nel vuoto della pagina bianca, vent'anni interi:
tra l'ultima pagina dell'ultimo capitolo di Allegoria e
Derisione, ferma al 1945, e la postilla del 1965 c'è
un buco che un nuovo romanzo dovrà riempire: la trilogia
dovrà ampliarsi in tetralogia. Il nuovo romanzo, cioè,
dovrà indagare, ma sul versante della storia, il ventennio
1945-1965 già indagato (sul versante della cronaca) in
Un eroe del nostro tempo (1949) e La costanza
della ragione (1963); esso dovrà porsi, rispetto
a quei due libri nello stesso rapporto che c'è tra Lo
scialo e le Cronache di poveri amanti: stesso
arco temporale, ma diversi i punti di vista e le tecniche narrative.
(Di qui, sia detto tra parentesi, il mio assoluto dissenso con
la tesi di Macrì che nella sua monografia su Pratolini
(11) annette le Cronache di poveri amanti
al ciclo di Una storia italiana e, con l'aggiunta
de La costanza della ragione, amplia motu
proprio la trilogia in pentalogia. Ma di ciò ho
già altrove discusso) (12).
Tutto ciò è talmente chiaro nella mente di Pratolini
che nello stesso 1966 (l'anno di pubblicazione di Allegoria
e Derisione) egli comincia a lavorare al nuovo libro (13).
L'inizio di quel romanzo esiste: sono trentacinque cartelle dattiloscritte
su carta velina (l'ultima di sole due righe), che costituiscono
il primo capitolo e l'inizio del secondo e portano in calce, scritta
a matita, la data "1966" (14). Queste
sono le fotocopie in mio possesso, pressoché coincidenti
con i due frammenti a stampa di cui prima s'è detto, e
precisamente: le prime undici cartelle, tranne le ultime quattro
righe, corrispondono all'Inizio di un vecchio romanzo
apparso nel volume di omaggio a Silvio Guarnieri; le rimanenti
sono quelle stampate nell'almanacco "Alto Mare" con
l'accompagnamento di una nota per la verità del tutto imprecisa
e addirittura fuorviante: "Queste pagine appartengono alla
prima stesura di un vecchio romanzo destinato a rimanere, nella
sua totalità, inedito (e incompiuto). Formano l'intero
secondo capitolo e l'inizio del terzo. Metà del primo capitolo,
che qui si ripub-blica per comodità del lettore, apparve
nell'Omaggio a Silvio Guarnieri, Pisa 1983 [ma 1982]".
In realtà, come ha avvertito la Rodondi, "dall'integrazione
dei due testi, che per quanto at-tiene al fantomatico capitolo
primo non sono, nemmeno parzialmente, sovrapponibili - come parrebbe
suggerire la nota - bensì complementari, risulta uno squarcio
romanzesco di una trentina di pagine che ben sopporta, a nostro
avviso, l'identificazione con una prima redazione della Malattia
infantile (15), anche se poi la Rodondi
sbaglia a far coincidere l'"esordio del "vecchio romanzo"
[...] con la pagina introduttiva di "Alto Mare" lasciando
al frammento per Guarnieri il resto del primo capitolo (16).
Ignorano le pagine per Silvio Guarnieri, ma hanno ben presente
il frammento stampato in "Alto Mare" Oreste Macrì,
che lo considera "contiguo alla scepsi critica d'ambiguità
dell'ultimo romanzo edito [Allegoria e Derisione](17),
e Frollano-Tommasi, che viceversa per tutto il loro libro lo citano
addirittura col titolo di Malattia infantile (18).
Le trentacinque pagine in questione avviano una vicenda che ha
inizio a Firenze nel 1966 (c'è un'allusione alle prime
occupazioni delle Università da parte degli studenti (19),
alla guerra del Vietnam (20), al ruolo rivoluzionario
della Cina (21) ), dunque ancora una volta
facen-do coincidere il tempo della storia con quello della scrittura
(ma adesso come punto di partenza), con l'incontro a Firenze tra
Guido Cellai e Luciana (Spartaco e Mora i loro nomi di battaglia),
che per la prima volta si rivedono, trascorsi vent'anni e più
dalla Liberazione. Attraverso tutta una serie di flash-backs
veniamo a sapere che Guido è da sempre comuni-sta, che
nel 1932 era stato mandato dal Partito a operare a Roma, che qualche
anno dopo era stato arrestato e, liberato dopo sedici mesi, era
espatriato e dalla Francia era poi arri-vato nel febbraio del
1937 in Spagna per partecipare alla guerra civile. Sono le pagine
più belle del capitolo quelle dedicate alla rievocazione
della guerra di Spagna. Poi, di nuovo a Roma, durante la Resistenza,
ritroviamo Guido-Spartaco caposettore tra Flaminio e Cassia (la
Ponte Milvio di Pratolini!), ed è lui che sottopone la
sedicenne Luciana, di famiglia al-toborghese e fascista ma convertita
al comunismo, all'esame di ammissione al Partito. Do-po la guerra,
di lei non si sono avute più notizie, e appunto adesso
si ritrovano.
Come poi il romanzo sarebbe andato avanti, non sappiamo. Ma è
certo che l'ambientazione sarebbe stata questa volta quasi interamente
romana (è a Roma infatti che Guido ha vissuto negli ultimi
vent'anni), ed è assolutamente probabile che Pratolini
avesse, già nel 1966, in mente il titolo - Malattia
infantile - se è vero che la formula è inscritta
già nelle pagine che possediamo. Questo infatti, in Spagna,
rimprovera a Spartaco Ramiro, il commissario politico della Brigata
cui egli appartiene:
Le qualifiche sono queste: tendenza alla malattia infantile.
Fedeltà al Partito ma nelle riunioni atteggiamenti estremisti.
Perplessità sulla decisione di invitare i compagni lavoratori
ad assumere cariche nei sindacati fascisti per operarvi dall'interno.
Dubbi sulla priorità dell'industria pesante rispetto
a quella leggera nel sistema dei piani quinquennali. Giudizi
negativi sulla prospettiva di un Par-tito di massa. Umanitarismo.
Compagnie equivoche all'origine. Scarsa vigilanza rivoluzionaria.
Amicizie sottoproletarie (22).
A proposito del titolo: la Rodondi lo ritiene per la prima volta
vulgato in un'intervista del 1976 a Edith Bruck (23);
stranamente le sfugge una precedente intervista, del 1974, rilasciata
a Lietta Tornabuoni, nella quale Pratolini spiega le ragioni che
hanno determinato la scelta di quel titolo: si tratta, dice, di
"un titolo emblematico, da non leggersi nell'accezione leninista
dell'"estremismo, malattia infantile del comunismo",
ma che neppure vuole alludere al morbillo. La malattia è
quella del crescere: vediamo se siamo davvero cresciuti, oppure
se la nostra è stata soltanto una malattia infantile"
(24). La risposta, aggiunge, non è "la
delusione, né il pessimismo. Alla Resistenza fallita io
non ci credo, non mi piace chi piange su se stesso e sulla Resistenza
tradita. Se oggi ci troviamo come ci troviamo, la colpa non è
soltanto del capitalismo che condiziona vita sociale e senti-menti:
ci sono cedimenti e con-formismi, singoli e di classe... Ma il
mio non è affatto un romanzo strettamente politico"
(25).
In realtà, la divulgazione del titolo è di molto
precedente persino all'intervista con la Tornabuoni. Ho ritrovato
un trafiletto uscito su "Il Mondo" addirittura il 13
novembre 1969 (nella rubrica "Il Parnaso"), in cui si
parla di Malattia infantile come del nuovo romanzo, di ambiente
"questa volta quasi esclusivamente romano", cui Pratolini
si sta dedicando. Il che mi conferma nella convinzione che Pratolini
avesse trovato il titolo di Malattia infantile ancor
prima di tentare la scrittura, esattamente come gli era successo
per Cronache di poveri amanti (il titolo era pronto
già nel 1938, ma il libro fu scritto soltanto nel 1944-'45,
e fu tutt'altra cosa rispetto alla semplice storia d'amore che
sarebbe stata allora) e, ancor più emblematicamente, per
quella Cronaca napoletana ideata nel 1947 e mai
portata a termine (26).
Ma torniamo a queste trentacinque cartelle del 1966. Se Pratolini
sia andato avanti, fra quella data e il 1974, ed eventualmente
di quanto sia andato avanti, non so. Carte, non esi-stono (ma
potrebbero anche essere state distrutte). Esistono però
testimonianze immediate di una crisi, che è tanto esistenziale
quanto di scrittura, acuita anche dal massacro critico a cui fu
sottoposta Allegoria e Derisione. Pratolini se
ne lamenta in almeno due occasioni: in un colloquio con Antonio
Saccà ("Un libro sconvolgente, approssimativo, teppistico,
nichilista, sprovveduto eccetera, come dicono, perché importuno
suppongo. E ti conforti, guai se un libro non è importuno"
(27) ); e in una lettera a Parronchi, del 18
dicembre 1967 ("questo libro al quale avevo sì pronosticato
vita difficile, ma non un'accoglienza così barbara, cattiva,
preconcetta, proditoria come quella che sta avendo e più
ancora intuisco gli si prepara" (28) ).
Al di là del proprio caso personale, si tratta anche di
una crisi di sfiducia nell'istituto stesso della letteratura:
"Nel nostro campo, infine, non la restaurazione cultu-rale
può mettere paura (essa si combatte combattendo il più
vasto disegno di restaurazione politica e sociale che la esprime),
bensì scoprire, piegandosi sopra la pagina bianca, di "fare
della letteratura": degli esercizi di calligrafia sulla pelle
dell'uomo" (29).
E giacché abbiamo citato le Lettere a Sandro
(che sono una miniera di informazioni per la genesi di tutti i
precedenti libri pratoliniani): non sarà un caso se in
esse Pratolini non parla mai del nuovo romanzo, salvo una volta,
il 27 maggio 1967, per dire che quel libro deve ancora cominciare
a scriverlo (come se neppure queste trentacinque cartelle esistessero):
"Spero io di ripagarti, quando sarà, con un nuovo
libro, quello che ho in mente ed al quale, nella prossima estate,
conto di mettere mano" (30). E così
anche nella citata intervista a Saccà, dello stesso anno:
"Mi ritroverò all'alba sulla pagina bianca dove annoterò
qualche altro periodo del nuovo libro che mi auguro riesca ancora
più importuno a giovani e vecchi siccome vorrà coprire
quei vent'anni, dal '45 ad oggi, come ho promesso in chiusura
di "Allegoria e Derisione" (31).
Due poesie del Calendario del '67 (32)
(e si noti che tutte le testimonianze che stiamo citando portano
la stessa data: 1967) smentiscono tuttavia le promesse formulate;
quella di Febbraio:
E questa Parigi rivisitata sul declinare d'un gennaio
inconsueto per cui gemmano gli alberi al Lussemburgo
i prati di Vincennes dove si corre l'Amérique
con la persistente sensazione che sia il primo
mese anno d'un lungo silenzio ora che ho parlato
mi son raggiunto e spera den-tro il cristallo la luce
si ri-torce, mi acceca [...] (33);
e quella di Novembre:
... e certe ore certi giorni più lunghi del necessario
questa misantropia che maschero addirittura
a me stesso e mi brucia vivo, sono come l'equilibrista
bloccato a mezza strada, la pertica il filo su cui si bilancia
rappresentano l'ultimo asilo.
[...]
E mi dico se non è proprio questo,
bianca nudità della cella ospedaliera,
biochimico o psichico, l'alibi
altrimenti morale della diserzione (34).
Si aggiungano, per restare ai documenti poetici raccolti nel
Mannello, questi accenni che traggo dalla sezione
L'anno della senescenza (1978): "la mia cronica
inerzia" (35); "Parlare di disperazione
/ e sottintendere codardia, / io che da tempo mi simulo arreso
/ cos'ho da donarti se non un'inquietudine / maggiore? / A te
combattente, al tuo celato subbuglio, / sacrifico la mia immobilità,
il mio delittuoso bisbiglio" (36); "Di
questa disperazione con tanta leggerezza / conclamata che mi ha
ridotto al silenzio / e più mi disonora, non tu sei oggetto
/ ma il fiume l'ormai pigra corrente della vita, / il ruscello
che giorno dopo giorno va incontro alla palude" (37);
"Certo che vado avanti, sono alla sesta / stesura, calcolo
quattrocento pagine più o meno", / come con te con
gli amici ma di fronte / a lei è terrificante credimi mentire,
rifugiarsi / in paratassi e litote come un impotente / nei giochi
d'amore sopra il corpo adorato" (38);
"Trascorso da millenni il paese dei balocchi, scelto come
io de-mente ho scelto restar muto, nondimeno accade, nel nostro
privato, che è pubblico [...], ma pubblico [...] perché
intrinseco al privato - accade che bisogna trovarle, le parole"
(39).
Le stesse Lettere a Sandro ci dicono di un silenzio
che col passare del tempo si fa cronico, diventa torpore:
21 agosto 1967: "Non lavoro, e leggo poco. Suppongo di riflettere
e se arriverò a qualche conclusione, per provvisoria che
sia, te ne parlerò" (40).
28 agosto 1967: "Le mie meditazioni sono a un buon punto:
anzi, nella solita, da tempo, "impasse" tra il dire
e il fare: un "fare", pratico, per il quale non trovo
via d'uscita" .
2 agosto 1969: "sono sempre qui confitto su una pagina bianca"
.
18 luglio 1970: "ora eccomi qui con le mani in mano, la testa
vuota" .
31 luglio 1970: "Mi chiedi cosa faccio: nulla" .
16 luglio 1971: "Mi traccheggio sul vuoto siccome davvero
non avrei da dirti nulla di me: la si-tuazione, come il cervello
(e i denti) stagna o si inciprignisce o dilegua giorno per giorno.
Dovrò fare il Farinata: o riesco a venir fuori dentro quest'an-no,
un'altra volta, dalla cintola in su, oppure avrò chiuso.
Ma l'umore, solo quello, resiste non ma-le. Ossia, gli umori,
che tuttavia non trovano coaguli, l'as-senza, pour cause, di concentrazione"
.
Poi più nulla, succedendo all'inerzia la rassegnazione,
anche con un forte senso di colpo per quella che lo stesso Pratolini
considerava una vera e propria "diserzione".
Ma se in privato e nelle confessioni poetiche non ha avuto mai
paura di ammettere l'impasse in cui si trovava, nelle dichiarazioni
pubbliche Pratolini non ha mai smesso di rassicurare i lettori
circa l'esistenza del romanzo, sia pure dicendo di volerne rimandare
di anno in anno la pubblicazione .
Nel 1974, a Lietta Tornabuoni, lo scrittore dichiara di averne
già completato due stesure, ma di volerci ancora lavo-rare
fino al raggiungimento del "meglio cui posso arrivare",
cioè: "Eliminare dalla scrittura quel tanto di apparentemente
pletorico e farraginoso dello Scialo, quel tanto di allegorico
di Allegoria e Derisione. Approdare alla semplicità, alla
chiarezza. Chiudere questo ciclo della storia italiana, questa
impresa che ho cercato di propormi, con un libro che in qualche
modo la rias-suma e le dia una dimensione contemporanea"
. E di una prima stesura già pronta nel 1970 Pratolini
parla anche in un colloquio con Marino Sinibaldi, del 1982-'83
ma reso pubblico nell'anno della morte, accennando "all'insoddisfazione
continua della pagina che scrivevo [...] altrimenti alla prima
stesura, già pronta nel '70, avrei potuto pubblicare il
libro"; anche se poi cade in palese contraddizione quando
afferma che: "Effettivamente, dopo aver pubblicato Allegoria
e Derisione nel '66, per i primi due o tre anni non ho fatto nulla
- o meglio, ho fatto quello che si fa quando non si fa nulla:
ho scritto delle poesie" .
È impossibile dunque che Pratolini alla data del 1974 stesse
tanto avanti nel la-voro, ma l'intervista alla Tornabuoni è
importante perché per la prima volta si accenna al progetto
complessivo dell'opera: "È un romanzo grosso: non
di 1400 pagine quante Lo scialo, ma consistente. Come strut-tura,
simile allo Scialo. Senza protagonista-guida, con diversi per-sonaggi
di estrazione intellettuale e operaia, seguiti nella loro maturazione
o involuzione attraverso gli anni che vanno dal 1945 e prima al
1970, ambientati a Roma e Firenze con una puntata a Milano, con
un capitolo nella New York del tempo di Kennedy . [...] Voglio
vedere se riesco oppure no a mantenere la promessa di raccontare
quegli anni, fatta a me stesso prima che al lettore in Allegoria
e Derisione. Mi interessa, io non l'ho mai fatto, raccontare ora
il momento della Resistenza. Poi la spirale grigia degli Anni
Cinquanta. E il Sessantotto, naturalmente" .
Già, il Sessantotto, naturalmente. Il Sessantotto e quello
che c'è stato dopo, all'inizio degli anni Settanta, l'insorgenza
del terrorismo e della lotta armata. Pratolini si accorge che,
se Malattia infantile deve essere, di quella nuova storia egli
dovrà farsi scrittore: potrà ancora andar bene il
titolo, ma tutto quello che ha frattanto scritto (poco o molto
che sia) è prati-camente diventato inservibile (di qui,
ad esempio, la decisione di rendere poi note quelle trentacinque
cartelle non come primo e secondo capitolo di un romanzo in corso,
Malattia infantile appunto - era questo il mio suggerimento -,
ma come Inizio di un vecchio ro-manzo e Vecchie carte, cancellando
in aggiunta anche la data apposta in calce a matita: 1966). Insomma,
è successo qualcosa che egli non poteva prevedere, ma di
cui sente la ne-cessità di dar conto, anche se per la prima
volta dovrà affrontare una materia di cui non è
stato protagonista ma solo passivo, per quanto attento, testimone.
È ancora una volta giusta l'intuizione di Raffaella Rodondi:
"ci sembra quanto meno probabile che le difficoltà
e i ritardi inerenti alla stesura di Malattia infantile, parcamente
accennati in varie interviste, abbiano in qualche modo a che fare
con l'improvvisa emergenza, nella storia italiana dei primi anni
'70, del fenomeno terroristico. È questa la tragica variabile
non prevista nel '67, l'assoluta novità dei ricorrenti
cicli estremisti; e il romanziere Pratolini non può non
tener-ne conto, anche se risulta terribilmente difficile (e forse
impossibile) indagare, ricostruire e "allegorizzare",
con la lucidità che pertiene al programma della trilogia,
un presente che si fa subito storia, specie dacché il partito
armato ha preso ha colpire bersagli istituzional-mente rilevanti.
Né, per gli stessi motivi, è lecito prescinderne,
tanto più in un'opera che della Storia italiana ha fatto
la propria insegna" .
Accade però qualcosa, nel 1975, che scuote Pratolini dal
torpore in cui è caduto. Quando i giornali del 9 luglio
1975 riportano la notizia della morte di Anna Maria Mantini -
una ra-gazza (ventiduenne!), nata nella sua Firenze, uccisa nella
sua Roma un anno dopo che la stessa sorte era toccata a suo fratello
-, immediatamente gli sembra di aver trovato il suo "personaggio".
Confessa a Claudio Marabini, soltanto qualche mese dopo quel tragico
episodio: "Se per esempio oggi mi volessi disporre a raccontare
una storia dei nostri giorni ambientata a Fi-renze, di sfondo
ci sarebbero le lotte operaie di questi anni [...], ma al centro
l'avventura esistenziale di quella ragazza nappista fiorentina
fulminata qui a Roma da un poliziotto mentre infilava sola e indifesa
la chiave nell'uscio di casa. Non so nulla di lei se non quello
che ho letto sui giornali, e mi basta per ritrovarla nelle mie
stesse strade oggi, con le sue verità stravolte, la sua
determinazione, la sua vita bruciata in pochi anni, lei e suo
fratello. Certo non ne uscirebbe un libro come quello scritto
da Staiano su Serantini , lei non era Serantini, ma una ragazza
di Firenze oggi, con addosso tutta Firenze e il mondo, Vietnam
Portogallo Spagna Cile Italia, un eroe del nostro tempo, il quale
vedeva tutto in positivo nella sua allucinazione" .
E a Lietta Tornabuoni, sei anni dopo: "Nel 1976 [...] ho
rivisitato Lo scialo, e circa nella stessa epoca ho tentato un
romanzo sul terrorismo. Sono un garantista persuaso di trovarsi
davanti, nei casi d'accertata colpevolezza, a dei visionari fattisi
assassini, quindi da perse-guire fino in fondo, ma senza tentazioni
termidoriane. Il romanzo l'ho abbandonato. Il ter-rorismo è
un fenomeno così aberrante e insieme così illuminante
sui nostri giorni, che non mi si pone mai come forma letteraria.
È capitato quell'unica volta, quando Anna Maria Mantini,
sospettata di terrorismo, venne uccisa a Roma dalla polizia mentre
apriva la porta del suo appartamento, all'interno del quale gli
agenti la aspettavano. Suo fratello Luca era già stato
ucciso a Firenze. Con molta presunzione, mi sembrò un mio
personaggio: non an-dai avanti a raccontarlo, ne sapevo troppo
poco, sarebbe stato indebito. Ma non ci ho rinunziato" .
Infine a Oreste Del Buono: "E poi mi è capitato ultimamente
di abbandonare il progetto di un romanzo sul terrorismo... Non
sul terrorismo, in generale, ma sulla storia atroce di Anna Maria
Mantini, sospettata di terrori-smo e uccisa a Roma, mentre rientrava
nel suo appar-tamento, da un agente appostato dentro. E suo fratello
era già stato ucciso a Firenze. E poi la sorte atroce di
quell'agente che aveva sparato a cui spararono... Li avevo sentiti
un poco miei personaggi... Ma, andando avanti, mi sono reso conto
che non ne sapevo abba-stanza... E, tuttavia, sono storie italiane...
Italianissime" .
Pratolini parla del romanzo sul terrorismo come altra cosa rispetto
a Malattia infantile. Ma possiamo affermare con assoluta certezza
che, ove Pratolini si fosse voluto impegnare in una più
estesa trattazione di quella vicenda, essa sarebbe stata materia
di Malattia infantile e non di un autonomo romanzo .
Non di romanzo ma di poesia, Anna Maria Mantini diviene personaggio
nel corso del 1978, l'anno del delitto Moro e, per Pratolini,
l'Anno della senescenza, come suona il ti-tolo della più
estesa sezione del Mannello di Natascia, 1985. È un suo
preciso calco la fi-gura della ragazza (di cui conosceremo solo
alla fine del Mannello il nome, ma solo il no-me di battaglia:
Viola) con cui lo scrittore dialoga, anch'essa poi, come la Mantini,
desti-nata alla clandestinità e a cadere vittima di un
conflitto a fuoco con le forze dell'ordine; lei, la nipote di
Natascia che già appare nell'introduzione al primo Mannello,
quello pubbli-cato nelle edizioni salernitane del Catalogo in
cui Pratolini raccoglie le sue giovanili poesie degli anni Trenta,
incaricata dalla nonna di riconsegnare allo scrittore quegli antichi
testi: "Un mostro di ventitré sulle ventiquattro primavere
costei, linguista glottologa studiosa degli stilnovisti e dei
contemporanei, supplente alle medie, aggiunta all'università,
inedito narratore, con maggior segretezza poeta, extraparlamentare
di sinistra, mia demolitrice e mio amico" .
La Rodondi, qui, va ad un passo dal cogliere nel segno, quando
scrive: "Se la nappista fio-rentina Anna Maria Mantini poteva
configurarsi agli occhi dello scrittore come "un suo personaggio",
qui la romanzesca riapparizione dei frammenti adolescenziali,
un episodio sul cui statuto di realtà non intendiamo per
ora indagare, produce da subito una figura sim-bolica, significante
di tutti quei giovani che con motivazioni spesso generose aderirono
alla lotta armata" (e si ricordi che Viola, a sua volta,
nelle poesie dell'Anno della senescenza, rievoca la morte dell'amica
Maria Grazia e di suo fratello Berto: si tratterebbe dunque di
una proiezione al quadrato).
Ben oltre vanno Frollano e Tommasi che, nel loro libro sul Mannello
, pur mostrando di non conoscere le interviste pratoliniane che
abbiamo citato, identificano senz'altro Viola con Anna Maria Mantini,
mettendo in luce tutta una serie di coincidenze che qui non è
il caso nemmeno di riassumere: indubitabili tutte (compreso l'essersi
accorti di una ben oc-cultata citazione del titolo di un libro
di George Jackson, Col sangue agli occhi , testo sa-cro per i
fratelli Mantini: "Collettivo George Jackson", si chiamava
quello fondato da Lu-ca, con sede a Firenze, e proprio in Santa
Croce, il quartiere pratoliniano per eccellenza), anche se talvolta
i due autori sono costretti a qualche gioco di prestigio (peraltro
non ne-cessario) per far tornare date e tempi giusti: il che li
porta poi a dare una chiave di lettura del Mannello che viceversa
non è totalmente condivisibile (di ciò, se sarà
il caso, tratterò in altra sede).
Resta il fatto che essi hanno perfettamente ragione nel ravvisare
in Viola e la Mantini la stessa persona. Posso anzi apportare
due ulteriori elementi di prova, anche più decisivi ri-spetto
ai molti indizi rintracciati dai due studiosi: 1) il "mostro
di ventitré sulle ventiquattro primavere" che era
Viola nell'introduzione al Mannello 1980 diventa, nel Mannello
1985, "di ventidue sulle ventitré primavere"
, essendo questa esattamente l'età della Mantini nell'anno
della sua morte; 2) - e mi sembra davvero incredibile che proprio
Frollano e Tommasi non se ne siano accorti - nel dialogo finale
tra Buonalana (il vecchio soprannome dello scrittore) e Natascia,
dice la nonna: "a un passo dalla Porta me l'hanno fulminata"
, e la Porta è quella di San Niccolò, a Firenze;
ma è evidente l'allusione al fatto che la Man-tini venne
uccisa a Roma mentre apriva la porta del suo appartamento, all'interno
del quale gli agenti la aspettavano. Aggiungo, a livello di concordanze,
che nella citata intervista a Marabini, la Mantini è definita
come "un eroe del nostro tempo, il quale vedeva tutto in
positivo nella sua allucinazione" ; nell'ultima pagina del
Mannello, Viola, "di questo / pianeta Italia molecola impazzita",
è "esemplare d'allucinata speranza" .
Ciò detto - e cioè confermato che in questo libro
(come, a ben guardare, in tutti quelli di Pratolini) ogni riferimento
non è puramente casuale - va aggiunto che tutto il resto,
voglio dire la fabula, si pone sul piano della invenzione narrativa,
a cominciare proprio dal recu-pero dell'antico Mannello, affidato
da Natascia alla nipote, che pur essendo leggermente diverso dal
tradizionale topos del manoscritto fortuitamente ritrovato , sarebbe
comunque espediente piuttosto banale se non fosse necessario a
Pratolini per inserire se stesso entro una storia che altrimenti
lo vedrebbe estraneo, o semplice e impotente testimone; e al tem-po
stesso per creare un ponte ideale tra la propria vicenda giovanile
e quella della nuova generazione ugualmente malata d'infantilismo.
Così è invenzione metaletteraria il fatto che Viola
sia studiosa degli stilnovisti (con tutto un serrato gioco di
citazioni e controcitazioni), col che si pone il Mannello sotto
la tutela di Dante, proprio come la sezione intitolata a Gloria
in Allegoria e Derisione. E infine Viola viene ad essere l'ultimo
grande personag-gio femminile pratoliniano, l'ultima di quelle
Amiche che muoiono portandosi appresso il loro dramma e il loro
segreto: come, in quel vecchio libro del '43, Jone, o Vanda, o
Alda, o la stessa Gloria, che dalle Amiche transita nella prima
parte del Mannello (è lei la ragazza "fuori dell'ordinario
/ rara cosa / misterioso destino", che "studia Petrarca
/ nelle stanze d'un casino" ), dopo essere passata appunto
per Allegoria e Derisione: lì Gloria, suicidan-dosi, si
è opposta al ricatto con "questa fuga tragica e tuttavia
puerile" ; qui Viola, "l'assassinata, che il mondo vorrebbe
assassina" , "tirando carta ha sballato. Ha preso la
via del deserto incontro alla sua fatamorgana" .
Tant'altro ci sarebbe da dire; ma qui, adesso, mi preme sottolineare
un dato inoppugnabile: che, cioè, Il mannello salernitano
del 1980, pubblicato quando praticamente tutto il resto di quel
che sarà Il mannello mondadoriano dell'85 è già
scritto, è solo un'anticipazione, nelle intenzioni stesse
di Pratolini, del libro a venire . Non fosse per questo, Pratolini
non si sarebbe deciso a stamparlo, lo avrebbe accantonato fra
i suoi documenti privati come an-cora un anno prima sembrava intenzionato
a fare, lasciandomelo in consegna nel momento di partire per Forte
dei Marmi dove avrebbe trascorso le vacanze estive. Nella busta
che conteneva l'antico Mannello c'era la seguente lettera, datata
28 giugno 1979:
Caro Paolo,
questo (bel) tomo, è qui da mesi, senonché finora
il pudore, l'attuale giudizio, hanno potuto più di non
so quale nostalgia (che in effetti non provo). Partendo trovo
il coraggio di affidartelo, fartene depositario, appunto perché
desidero ne resti testimonianza. E ti assicuro, i ritocchi gli
aggiusti sono stati minimi, com'è detto nella nota. Si
capisce che ne conservo anch'io una copia: non sono capace di
disfarmene del tutto nemmeno adesso!
Ma come un'anticipazione già dovevano essere letti i pochi
testi allegati alla Lettera agli amici salernitani :
Certo, il 1978, tra pubblico e privato, come il '67 (e il '69,
il '70...) è stato un an-no drammaticamente fluviale, intenso,
[...] di traumi. Di rabbie, di lutti, d'orrore. Ecco otto brani,
sommessi, da un mucchio di carte male riordinate, non più
mie, che consentiranno [...] a me di vagheggiare, col tempo, una
"cronaca del '78" decantata... D'altronde, l'urlo lo
strazio l'invettiva, chi ne possiede il fiato, o ac-cadono nel
pieno della mischia o si affidano, voi capite, "all'eco della
lontanan-za" che risuonerà forse anche più
desolata, anche più devastatrice forse.
E tuttavia, ancora adesso, 1978 o 1979 o 1980, quel libro, se
pure è già completo quanto ai materiali che vi entreranno
a far parte, libro ancora non è ("carte male riordinate"):
esso, infatti, non dovrà essere una raccolta di poesie,
neppure in forma di diario, ma romanzo, romanzo in versi; e se
non sarà storia, sarà almeno cronaca, anzi cronache
che comunque raggiungeranno il presente attraverso frammenti,
illumi-nazioni di poeta, intermittenze, "preludii di intuizioni,
registrazioni di sintomi provenienti da uno spazio ancora ignoto
- e che chissà se si potrà mai perlustrare per esteso,
colmare con la "costanza della ragio-ne"" . Di
qui il titolo intero - Il mannello di Natascia e altre cronache
in versi e prosa (1930-1980) - che Pratolini vorrà porre
in frontespizio.
Il libro prende forma e struttura nel corso dell'estate 1984,
a Greve in Chianti, dove pas-sammo un mese intero, io e Pratolini,
a discutere e a lavorare per così dire al "montaggio",
operando tagli, esclusioni , aggiunte (fu allora che scrisse alcune
delle parti in prosa, che dovevano servire da raccordo), tutte
finalizzate al "romanzo" . E quando finalmente il li-bro
esce, nel febbraio 1985, io scrivo (senza firmarlo) il risvolto
di copertina che così ap-punto inizia: "Non una raccolta
di versi, e neppure "canzoniere" o poema. La materia
di questo libro si organizza piuttosto come un vero e proprio
romanzo in versi, romanzo di ti-po particolarissimo in quanto
il tempo della stesura e il tempo dell'azione coincidono per-fettamente:
dagli anni del giovanile apprendistato pratoliniano (alla vita,
alla cultura, alla politica) fino a quelli altrimenti difficili,
oscuri, contraddittori, e dunque in qualche modo anch'essi aperti
alla speranza, che viviamo. Un lungo racconto, scandito in tappe
e mo-menti che si rimandano a vicenda, come in un continuo gioco
di specchi, sul filo della cro-naca e della storia, secondo quella
che è la cifra tematica propria dello scrittore fiorentino,
della "verità" e dell'allegoria, della biografia
e dell'affabulazione. Ne deriva la costruzione di un intreccio
- che è appunto romanzesco, è romanzo - e l'individuazione
di figure, per-sonaggi reali o immaginari, che nella vicenda intervengono
col peso delle proprie coscien-ze e dei propri diversi destini".
Volevo suggerire ciò che non si poteva esplicitamente dire
(anche se mi sembrava di essere stato fin troppo chiaro): che
cioè quel libro, se pure non era il romanzo che tutti aspettava-no,
se pure non lo sostituiva entro il progetto di Una storia italiana,
tuttavia definitiva-mente lo cancellava. Del che, per la verità,
nessuno allora si accorse. Con una sola ecce-zione, rappresentata
da Luigi Testaferrata - un critico peraltro non particolarmente
adden-tro alle cose pratoliniane --, che in un articolo dall'infelice
titolo (Ecco il Mannello del papà di Metello) ma dal perentorio
occhiello (Il nuovo romanzo di Pratolini), lesse il Mannello proprio
come il romanzo che Pratolini "da anni prometteva",
e identificando la "senescenza" cui si intitola la penultima
parte come "regressione a una condizione irrazio-nale, quasi
esplosione di una "malattia infantile"" . "Che
poi - aggiungeva Testaferrata - si tratti di una storia nuova,
che abbia i titoli per essere considerata [...] un altro capitolo
di "Una storia italiana" [...]: questo è un altro
discorso".
Certo, un altro discorso: esattamente quello che ho tentato di
avviare nell'Introduzione al primo volume dei Romanzi nei "Meridiani"
, e splendidamente ripreso dalla Rodondi là dove sottolinea,
del Mannello, "il possibile incrocio col fantasma della Malattia
infantile che andavamo inseguendo. Se, come abbiamo supposto in
precedenza, il divampare del terrorismo nell'Italia degli anni
'70 non è estraneo alle difficoltà e all'impasse
in cui versa il quarto volume della Storia, impossibilitato a
rendere con gli strumenti collaudati del ro-manziere (lucida razionalità
e realismo critico) "un fenomeno così aberrante e
insieme così illuminante sui nostri giorni", ecco
che l'adozione di un mezzo espressivo diverso e for-malmente meno
vincolante, più "libero" e soggettivo quale per
Pratolini è la poesia, gli consente d'intervenire comunque
sul presente, di farsene - se non "storico e aedo" come
ambirebbe il prosatore - almeno cronista e testimone" .
Ed è un discorso che, naturalmente, non si esaurisce qui.
Voglio però concludere questo forse troppo lungo intervento
con le parole di un vecchio amico di Pratolini, l'amico di tutta
una vita, Alessandro Parronchi, che così gli scriveva nella
lettera con la quale, il 15 marzo 1985, lo ringraziava dell'appena
ricevuto Mannello: "Penso che ora, uscito da que-sto "asfissiante
lirismo" [...], tratto dal seno questo lungo, estenuante,
respiro, tu possa ritrovare la serena fatica del narratore per
condurre in porto il libro, del quale non mi hai mai parlato.
E se questo libro non esiste, sarà lo stesso, sarà
uno degli altri libri "che hai già scritto",
e che questo Mannello di Natascia aiuterà a rileggere e
a vivere più a fondo" .
Prima e meglio di chiunque altro, Parronchi - senza saperlo, senza
poterlo sapere - aveva intuito la verità, o quanto meno
ci era andato molto vicino.