Il nuovo romanzo di Mario Lunetta, Montefolle
(pubblicato dalle edizioni associate di Quasar e Manni, a inaugurare
la nuova collana "Codici" diretta da Piero Sanavio), è
una macchina narrativa i cui plurimi strati e livelli di significato
vengono convergendo su di un senso soffocante e ossessivo. Il titolo,
Montefolle, appunto, ci dice subito che saremo introdotti
nei territori della patologia mentale e allude quindi a un romanzo
psicoanalitico. E infatti l'impianto realistico, con i suoi luoghi
riconoscibili (Roma, Montepulciano) e i suoi personaggi a tutto
tondo si apre nelle vertiginose voragini dell'inconscio, parte per
le tangenti del sogno e dell'allucinazione, scivola in sensazioni
labirintiche e stranianti. Sempre di più il personaggio protagonista,
Konrad, si trova sbalzato fuori dalla normale disposizione delle
cose, sia che abbandoni lo stato di coscienza nella figura di un
automa disinnescato o di un aliante in caduta libera, sia che venga
sottoposto a un processo di "estraneazione" ("Konrad
in quello stravolgimento catastrofico si meravigliava del fatto
che non ne fosse minimamente coinvolto, e vi partecipasse da spettatore,
come vedendo la scena apocalittica di un film, o meglio, di un cartone
animato"). Pur essendo un adeguato alter ego dell'autore
(è uno studioso di storia), Konrad è destinato ad
essere osservato come la cavia di un esperimento sui confini e i
margini della follia. La scelta della terza persona, allora, marca
una differenza decisiva: mentre il personaggio mette a rischio la
sua attività scrittoria (e infatti termina sulla rinuncia
alla stesura del suo libro: "Come scriverlo? si chiese
soltanto disperatamente. E poi: Perché scriverlo, ormai"),
l'autore invece ottempera al compito di scrivere il proprio (e in
quel medesimo momento lo sta esattamente portando a termine). C'è
discrasia tra enunciazione ed enunciato. Del pari il personaggio,
che avrebbe dovuto identificarsi con l'oggetto della sua ricerca
storica, riscontrerà in esso motivi di conflitto e di rivalsa
(il Cardinale Bellarmino è, alla fine, un "Cardinale
scardinato"), per cui il passato, invece di essere restituito
alla pietas, si trova proiettando tra feroci fantasmi, compreso
quello dell'incesto che costituisce il nucleo esplosivo dell'intera
vicenda. Col che, neanche il passato offre rifugio, empatia, salvezza
alcuna. Davvero Lunetta ha scritto un romanzo dell'incubo
dell'io, in cui l'io - come vuole la seconda topica freudiana
- si trova pressato tra due inconsci, un Super-io vendicativo e
un travolgente Es. Un cosiffatto io è sottile quanto il lenzuolo
che Konrad alla fine si porta sul viso, a connotare la posa mortuaria;
che è anche un analogo del fazzoletto di Hamm nella Fin
de partie di Beckett: la parodia di un sipario tragico (ed è
davvero, in tutto e per tutto, un "finale di partita",
quello di Lunetta: "Era come la sua vita, a questo punto: senza
senso, senza speranza").
Romanzo psicoanalitico, esistenziale, storico, Montefolle
è ancor di più un romanzo governato dalla ricerca
linguistico-retorica. Per questo carattere è in forte controtendenza
rispetto alle scritture depauperate e "plastificate" della
narrativa attuale, che ci propone prevalentemente sceneggiature
mascherate da romanzi. Il libro di Lunetta, invece, si presenta
continuamente sostenuto ed arricchito da un lavoro linguistico che
crea immagini e suggerimenti interpretativi, in una strategia di
accumulo e di testarda correzione dell'investigazione del reale.
A partire dall'inizio, con l'episodio dell'extracomunitario (che
incarna una "alterità" incompresa e rimossa) il
cui mugolio è paragonato al "lamento di un gatto malmenato",
poi a un "grido cupo e lungo, da lupo", poi a un "sibilo"
e a un "muggito sordo" (con una serie di aggiustamenti
comparativi che la retorica classica avrebbe attribuito all'epanortosi).
Le immagini di Lunetta sono contrassegnate da una carica deformante
e grottesca. Così, in un esempio tra tanti, la città
diventa una "trappola", una "grande tagliola rugginosa";
e questa similitudine è così "forte" che
il personaggio la risente addirittura sopra di sé, nel suo
proprio corpo ("gli pareva di poterne avvertire il dolore,
proprio fisicamente"). E tali sensazioni e scuotimenti si accavallano:
subito dopo tocca alla "furia paranoica" dell'"urlo
di un antifurto", ed è, di nuovo, un'iperbole espressionista:
"Fu una scudisciata che gli frustò le orecchie per un
tempo che sembrava non finire più".
Altrettanto iperbolico e smitizzante è il paragone della
folla giovanile al concerto con un "esercito in rotta";
ma in questo caso è poi soprattutto lo sfondo naturale del
paesaggio a vedersi spostato dalla notazione coloristica verso complesse
funzioni conoscitive: vediamo che "il cielo alto sembrava quasi
succhiare dolcemente il confine estremo, verso un orizzonte disfatto
che era più che altro una idea sommaria di orizzonte".
Sono tocchi descrittivi, dove però i significati retorici
inseriscono un giudizio morale lungo il percorso che conduce da
un certo infantilismo (l'atto apparentemente innocente del succhiare)
verso il farsi indistinto di ogni limite e norma (l'orizzonte "disfatto"),
stigmatizzando con ciò il nesso tra l'erogazione di merci
al consumatore-poppante e una concettualità affatto insufficiente
(quell'"idea sommaria", in cui si può scorgere
il motivo dominante del pragmatismo facilone all'italiana, fatto
prevalentemente di tali "idee sommarie" e legalità
malcerte).
Le analogie e le somiglianze adombrano dunque dei giudizi. Ed
è un verdetto di condanna sulla società contemporanea
quello che il romanzo non perde occasione di promulgare: contro
l'"arena torera" del mondo d'oggi, contro "l'epoca
della simulazione totale", del "Kitsch planetario"
(a scorno di certe ipotesi postmoderne secondo le quali il kitsch
sarebbe semplicemente scomparso - ma del resto è detto esplicitamente
che il postmoderno "è un manicaretto senza sapore"),
contro l'"epoca sordida": "un labirinto di gomma
(...) qualcosa, in tutti i casi, di alienato, di impraticabile e
di mendace (...) a un tratto tutto gli si rivelava illusorio, uno
scenario di simulacri, falsità su falsità, teatro
dentro il teatro, finzione di una finzione. Una spirale di polvere".
La "scrittura dell'orrore", che Lunetta ha formulato in
sede di poetica, spalanca qui gli occhi sul degrado politico e civile:
la patologia, prima ancora che essere nell'interiorità dell'individuo,
è "esterna" e collettiva (e il titolo potrebbe
contenere un'indicazione di quantità: Montefolle,
ovvero una montagna di follia).
La stessa ricerca storica nel passato ci dà la conferma
del peggio: Bellarmino è solo un primo apprendista della
"colonizzazione delle menti", oggi giunta al culmine;
altrettanto, oggi è come ieri: siamo ancora tutti gesuiti
e allievi di gesuiti (sia pure in versione "postmoderna"
e "elettronica"); insomma, siamo bloccati nell'"Eterna
Italia". Mentre la lezione della storia, mostrandoci la trama
del divenire, dovrebbe convincerci della prossima mutabilità
delle cose, nel suo romanzo, shakespearianamente pieno di "urlo"
e "furore", Lunetta la dispone all'inverso a ribadire
la chiusura di una oppressiva invariante. Dalla Controriforma al
craxismo fanno "quattrocento anni di disastri" e di mancato
cambiamento.
Alla luce di questa polemica, possiamo cercare di reinterpretare
anche il tema centrale dell'incesto. L'incesto è certo il
tema tipico del "ritorno del represso" (non per nulla
Francesco Orlando ricavava la sua "teoria freudiana della letteratura"
dall'analisi della Fedra di Racine); un tema proibito e lacerante,
che difficilmente può essere assunto dalla scrittura in maniera
tranquilla e con una accettazione senza conflitto. È dunque
il giusto tema per il romanzo psicoanalitico dell'incubo dell'io.
Ma può essere inteso anche allegoricamente: innanzitutto
come caduta del limite, sintomo di quella concettualità ed
eticità difettosa che ormai la sragione imperante reputa
funzionale alla rapidità dell'agire, non abbia quest'ultima
impacci né rallentamenti. L'incesto, poi, contribuisce alla
rappresentazione di un mondo chiuso, autosufficiente, affascinato
dal raddoppio speculare. Il mondo possibile in cui Lunetta ci ospita
si fa progressivamente sempre più scomodo e soffocante; per
tal via, davvero, ci rende palpabile l'odierno "sistema unico"
(del capitale finanziario e speculativo che concresce su se stesso;
quindi, "incestuoso", visto che sembra combinarsi solo
con quanto gli è "parente").
Senza speranza? Non è compito della letteratura fornire
soluzioni di comodo che sarebbero scorciatoie o illusioni. Il suo
dovere è piuttosto - come fa Lunetta - esercitare l'opposizione
di uno sguardo non consolatorio e nello stesso tempo non arreso,
che assolve il compito dell'indagine "implacabile" nell'universo
della follia generalizzata.