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Una
vita in città
Marco Valerio Marziale,
nato a Bilbilis in Spagna nel 40 d.C., giunse a Roma nel
64 per cercarvi fortuna e tentare la professione forense.
Vi condusse però la vita del cliente delle grandi
famiglie, rendendo omaggio ai vari imperatori che si succedevano
sul trono. Acquistò notorietà nell’80 con
il "Liber de Spectaculis", pubblicato per l’inaugurazione
dell’anfiteatro Flavio da parte di Tito. Nella capitale
visse più di trent’anni, pubblicando quattordici
libri di epigrammi che gli procurarono grande fama e successo,
ma mai quella piena sicurezza economica cui aspirava. Conobbe
e frequentò tutti i grandi dell’epoca: Plinio il
giovane, Quintiliano, Giovenale. Con l’avvento di Traiano
il clima mutò. Marziale, stanco della frenetica vita
della metropoli e compromesso in un certo senso con Domiziano,
cui aveva dedicato svariati componimenti ricavandone benefici,
si risolse nel 98 a tornare nel suo paese; lo aiutò
Plinio finanziandogli il viaggio. Dalla Spagna congedò
nel 102 un ultimo libro di epigrammi, segnato dal rimpianto
per la grande città. Morì un paio d’anni più
tardi.
Dopo Catullo è il poeta erotico più famoso
dell’antichità. Ma non gode generalmente di buona
fama per il linguaggio esplicito e realistico, e per l’affrettato
e in parte ingiusto giudizio che su di lui fu espresso da
Paratore, nella sua storia della letteratura latina.
In realtà è il primo "poeta urbano",
interamente ed esclusivamente calato nella minuziosa realtà
di una metropoli, e che dall’incessante muoversi della vita
trae motivi di riflessione e di scrittura. Dal centro di
quell’universo che era la Roma del I secolo dopo Cristo,
Marziale racconta con accenti semplici ed efficaci, delle
cose e della gente di tutti i giorni: momenti di un’intera
esistenza trascorsa nella capitale. Nei suoi infiniti labirinti
egli esplora ogni sentiero: amicizie, affetti, sesso, polemiche,
felicità, pettegolezzi, drammi; tutto annota, tutto
registra: aneddoti, fatti di cronaca, echi di conversazioni,
perché tutto è segno dell’uomo.
Marziale è uno dei pochi che abbia saputo ritagliare,
nel microcosmo cittadino, un po’ di spazio per qualche figura
di schiavo, che di quella società costituiva, percentualmente,
la maggioranza. Gli epigrammi dedicati a giovani schiavi
raggiungono quasi sempre grande altezza di stile e di immagini,
e una limpida, commovente forza evocativa. Ogni volta che
affronta temi particolarmente sentiti, quali gli affetti,
la precarietà dell’esistenza, l’aspirazione a un
vivere semplice e tranquillo, ogni volta cioè che
percorre l’elegia, nel suo verso brilla una luce che supera
il quotidiano, e che va oltre.
M.
G.
I 88
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Alcime, quem raptum domino crescentibus
annis
Labicana levi caespite velat humus,
accipe non Pario nutantia pondera saxo,
quae cineri vanus dat ruitura labor,
sed faciles buxos et opacas palmitis umbras
quaeque virent lacrimis roscida prata meis
accipe, care puer, nostri monimenta doloris:
hic tibi perpetuo tempore vivet honor.
Cum mihi supremos Lachesis perneverit annos,
non aliter cineres mando iacere meos.
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Alcimo, che rapito al padrone negli anni
in cui crescevi
terra Labicana ricopre con morbida erba,
accetta non il peso vacillante del marmo di Paros,
che dà alla cenere vana e peritura fatica,
ma flessibili bossi e le ombre dense della vite
e prati che verdeggiano umidi per le mie lacrime
accetta bambino caro, monumenti del mio dolore:
un tempo infinito vivrà per te questo onore.
Quando Lachesi per me gli anni supremi avrà filato,
non diversamente voglio che posino le ceneri mie.
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I 101
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Illa manus quondam studiorum fida meorum
et felix domino notaque Caesaribus,
destituit primos viridis Demetrius annos:
quarta tribus lustris addita messis erat.
Ne tamen ad Stygias famulus descenderet umbras,
ureret implicitum cum scelerata lues,
cavimus et domini ius omne remisimus aegro:
munere dignus erat convaluisse meo.
Sensit deficiens sua praemia meque patronum
dixit ad infernas liber iturus aquas.
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Quella mano fidata un tempo per i miei studi,
preziosa al suo signore e nota ai Cesari,
Demetrio ha abbandonato i primi anni verdi:
un quarto raccolto s’era aggiunto a tre lustri.
Ma che scendesse schiavo alle ombre Stigie
mentre bruciava stretto in una malattia spietata,
non volli, e ogni diritto di padrone a lui malato rimisi:
era degno di poter guarire con il mio regalo.
Capì, venendo meno, il suo premio e patrono mi chiamò
mentre alle profonde acque libero si avvicinava.
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V 34
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Hanc tibi, Fronto pater, genetrix Flaccilla,
puellam
oscula commendo deliciasque meas,
parvola ne nigras horrescat Erotion umbras
oraque Tartarei prodigiosa canis.
Impletura fuit sextae modo frigora brumae,
vixisset totidem ni minus illa dies.
Inter tam veteres ludat lasciva patronos
et nomen blaeso garriat ore meum.
Mollia non rigidus caespes tegat ossa, nec illi,
terra, gravis fueris: non fuit illa tibi.
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A te padre Frontone, madre Flaccilla, questa
bambina affido, baci e tenerezza mia, piccina
che non abbia paura Erotion delle ombre nere
e del muso mostruoso del tartareo cane.
Avrebbe sentito appena il freddo del sesto inverno
se fosse vissuta ancora sei giorni.
Fra così antichi patroni giochi scherzando
e con la bocca incerta balbetti il mio nome.
Le tenere ossa non copra una rigida zolla e per lei
terra, non essere pesante: lei non lo fu per te.
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V 37
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Puella senibus dulcior mihi cycnis,
agno Galaesi mollior Phalantini,
concha Lucrini delicatior stagni,
cui nec lapillos praeferas Erythraeos
nec modo politum pecudis Indicae dentem
nivesque primas liliumque non tactum;
quae crine vicit Baetici gregis vellus
Rhenique nodos aureamque nitelam;
fragravit ore quod rosarium Paesti,
quod Atticarum prima mella cerarum,
quod sucinorum rapta de manu gleba;
cui conparatus indecens erat pavo,
inamabilis sciurus et frequens phoenix,
adhuc recenti tepet Erotion busto,
quam pessimorum lex amara fatorum
sexta peregit hieme, nec tamen tota,
nostros amores gaudiumque lususque.
Et esse tristem me meus vetat Paetus,
pectusque pulsans pariter et comam vellens:
"Deflere non te vernulae pudet mortem ?
Ego coniugem" inquit "extuli et tamen vivo,
notam, superbam, nobilem, lucupletem."
Quid esse nostro fortius potest Paeto?
Ducentiens accepit, et tamen vivit!
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Bimba per me più dolce dei vecchi
cigni,
più morbida di un agnello tarantino,
più delicata di una conchiglia del Lucrino,
da preferire alle perle d’Oriente
all’avorio d’elefante indiano appena lavorato,
alle prime nevi e a un giglio mai toccato;
lei che vinceva coi suoi capelli la lana d’Andalusia,
le trecce delle renane e il ghiro dorato;
come un roseto di Pestum odorava la sua bocca,
come il primo miele degli alveari attici,
come un pezzo d’ambra preso con le mani,
paragonato a lei il pavone era sgraziato,
uno scoiattolo volgare e banale la fenice;
è ancora tiepida Erotion per il recente rogo,
l’amara legge di un destino pessimo
nel sesto inverno, non compiuto, l’ha portata via,
amore mio, gioia, allegria.
Ed il mio Peto non vuole che sia triste,
battendosi il petto e strappandosi i capelli:
"Non ti vergogni di piangere una schiavetta morta?
- dice – ho perso una moglie eppure vivo,
fiera, illustre, nobile, ricca."
C’è qualcuno più forte del mio Peto?
Milioni ha ereditato eppure vive!
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X 61
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Hic festinata requiescit Erotion umbra,
crimine quam fati sexta peremit hiems.
Quisquis eris nostri post me regnator agelli,
Manibus exiguis annua iusta dato:
sic lare perpetuo, sic turba sospite solus
flebilis in terra sit lapis iste tua.
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Qui riposa Erotion frettolosa ombra,
per crimine del fato il sesto inverno l’ha disfatta.
Chiunque sarai dopo di me padrone del mio campicello,
ai piccoli Mani dà il giusto tributo ogni anno:
così col focolare eterno, con la tua gente al sicuro
solo questa pietra sia da piangere nella terra tua.
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XI 91
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Aeolidos Canace iacet hoc tumulata sepulchro,
ultimas cui parvae septima venit hiems.
A scelus, a facinus! Properas qui flere, viator,
non licet hic vitae de brevitate queri:
tristius est leto leti genus: horrida vultus
abstulit et tenero sedit in ore lues,
ipsaque crudeles ederunt oscula morbi,
nec data sunt nigris tota labella rogis.
Si tam praecipiti fuerant ventura volatu,
debuerant alia fata venire via.
Sed mors vocis iter properavit cludere blandae,
ne posset duras flectere lingua deas.
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Canace figlia di Eolide giace, tumulata
in questo sepolcro,
piccola, il settimo, ultimo inverno è giunto per
lei.
Ah delitto, disgrazia! Tu che t’affretti a piangere, passante,
qui non è permesso lamentarsi della vita breve:
il modo in cui è morta è più triste
della morte: un’orrenda
cancrena ha tolto il viso e si è insediata nella
bocca tenera,
i baci stessi ha divorato la malattia crudele,
e le labbra non sono state date intere al nero rogo.
Se con volo tanto rapido è arrivato,
doveva giungere per altra via il destino.
Ma la morte ha chiuso in fretta il viaggio della dolce voce,
perché la lingua non potesse piegare le dee spietate.
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