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Roma nel dopoguerra

Biagia Marniti

 

Appartengo a quella generazione a cui non sono state risparmiate le esperienze più tormentate del secolo: dalla seconda guerra mondiale al nazismo e allo stalinismo, dalle crisi ideologiche a quelle sociali ed economiche che tuttora ci avvolgono in un disagio di non so quante atmosfere, un disagio che rende sempre più difficile la nostra quotidianità. La cultura stessa corre più di un rischio e, pur martellando la coscienza, forse, va appiattendosi verso una esistenza senza prospettive, speranze, valori, idealità mentre sale l'incognita della violenza e par venga a mancare anche una religione laica.

Appartengo a quella società letteraria e artistica di cui si è sbiadita la memoria, si è perduto il segreto, il travaglio e che, con la sua "civiltà" ha effuso gli ultimi, fuggenti bagliori, fin verso gli anni Cinquanta. Di quella "società letteraria" in cui era viva la colloquialità dell'intelligenza ho una intima nostalgia, simile ad un cielo notturno dissolventesi nell'alba.

Giovanna d'Arco asserisce: "Nessuno sa dove la vita ci conduce, noi conosciamo la strada quando siamo arrivati alla fine", e con questa parafrasi da Giovanna a me pare che gli incontri e gli episodi soprattutto degli anni romani si intramino in una straordinaria parabola.

Piuttosto per delineare ordinate e ascisse di cronache intrecciate mi servirebbe l'abilità di un astronomo il quale, per determinare l'altezza di un astro all'orizzonte, punta il suo astrolabio con l'alidada e, con la pazienza dell'astronomo, anch'io tenterò di riscoprire quel tempo perduto.

Ripenso agli anni giovanili trascorsi in un isolamento interrotto soltanto dalle lezioni che frequentavo presso l'Università di Roma, ove i miei genitori si erano trasferiti dalla nativa Puglia, per farmi seguire i corsi della Facoltà di Lettere che, nel 1938, a Bari non esisteva.

Il mio primo lettore fu un pubblicista, amico di Enrico Falqui, Roberto Bartolozzi, spinto alla lettura dei versi da sua figlia Ester, compagna di classe di Corsignana, la mia più giovane e vivace sorella. Bartolozzi fu colpito dalla freschezza dei versi e dalla ricerca dell'essenzialità che mi sforzavo di perseguire, e che più tardi anche Ungaretti avrebbe rilevato, e mi offrì di pubblicare dei versi su Quadrivio, cui collaborava qualche intelligenza romana.

I versi scelti da Bartolozzi uscirono nei primi del '42, ma altri ne scrissi e durante l'anno vennero pubblicati su quel settimanale letterario, in una nuova rubrica dal titolo "Amore di poesia".

A me ignara di Ungaretti e della vita culturale - nei programmi liceali degli anni Trenta la poesia contemporanea italiana toccava si e no D'Annunzio - Bartolozzi regalò Beltempo. Almanacco delle lettere e delle arti, appena uscito a cura di Libero De Libero, nelle edizioni della Cometa e aggiunse, ridendo fra il malizioso e il perplesso "Lei è caduta nel pozzo nero della letteratura!".

Beltempo si apriva con "Fronte dell'arte", un articolo di Giuseppe Bottai, e , la carrellata dei testi e delle tavole mi segnalò in piena guerra, la situazione artistica e letteraria del Paese: dal pittore-poeta Scipione a Rosai, al pittore e critico Virgilio Guzzi, da Mazzacurati ad Aurelio De Felice, da Bontempelli ad Alberto Savino e al fratello Giorgio De Chirico, da Ungaretti ad Arnaldo Beccaria, autore di una raccolta Adamo, che nessuno ricordava più. Beltempo costava venti lire.

Il riconoscimento di Bartolozzi - anche lui collaboratore di Beltempo - mi ricompensava della vocazione manifestatasi fin dalle strane storie che nell'infanzia raccontavo a mia madre, durante le sere d'inverno, e che mi aveva portato a scrivere presto.

Con la pubblicazione si affacciò la questione dello pseudonimo. Bartolozzi mi ammoniva sull'inopportunità dello pseudonimo una volta raggiunta la notorietà. Incalzava "pensi bene prima di usarlo". Ma io desideravo affermare me stessa e nello stesso tempo inventarmi un cognome insolito e che pur rispecchiasse intimi legami.

Lo pseudonimo che scelsi, e può sembrare poco "rubastino" in quanto non appartiene all'onomastica locale, è invece legato al mio paese, perché nell'inventarlo volli abbinare proprio qualche elemento del mio cognome anagrafico Masulli con un richiamo alla terra d'origine. Infatti conservai la sillaba iniziale di quello, Ma e, pensando alla Puglia, in alcune zone così arida, spesso argillosa e calcarea, l'immagine della marna mi portò, istintivamente, a Marniti. Quel Marniti la cui liquida vibrante ben si accompagna alla labiale e alla palatale di Biagia, nome di battesimo che mi piacque conservare perché insolito in una donna.

A Roma, nell'aria ovattata della vecchia Biblioteca Nazionale, al Collegio Romano, lessi per la prima volta la poesia di Giuseppe Ungaretti. Nella redazione di Quadrivio conobbi Luigi Diemoz, un critico-scrittore da riproporre o meglio scoprire, la cui sottile dialettica piaceva a un musicista geniale della statura (anche fisica) di Bruno Barilli e non dispiaceva a Vincenzo Caldarelli. Un protagonista questi la cui ricca aneddotica si può leggere con diletto fra le pagine postume della Solitudine del satiro di Ennio Flaiano (1) e fra le Lettere non spedite (2) e l'Epistolario dello stesso Cardarelli (3). Un aneddoto sul poeta che direi storico è riportato nel Diario, avvincente come un romanzo, di Sibilla Aleramo (4).

A pagina 288 - 9 aprile, Pasqua, pomeriggio 1944 - Sibilla racconta:

 

A mezzogiorno, a Piazza di Spagna, ho compiuto un'azione cristiana. Non so neppur io quale impulso m'ha mossa. Mi sono imbattuta viso a viso con Cardarelli col quale non scambiavo saluto da circa venticinque anni (si, sono esattamente venticinque anni che uscì Il Passaggio per cui egli a torto, senza fondamento alcuno, mi divenne nemico feroce).

L'ho fermato, ho detto: "Vogliamo salutarci, poiché è Pasqua?". M'ha guardata, ha risposto: "Salutiamoci pure".

Ho continuato: "Ci si intravede di quando in quando, non è vero?". "Già - ha fatto lui - ma sarebbe forse meglio non riconoscersi, cara Signora…Il paese è in rovina…".

"Purtroppo - ho interrotto - ma ci si riconosce lo stesso…". Ha avuto un barlume di sorriso, m'ha teso la mano: "Buona Pasqua". "Auguri" ho risposto, e abbiam ripreso ciascuno la propria strada, in senso opposto.

 

A Roma, sulla soglia degli esordi, venni presentata allo scrittore ennese Nino Savarese, autore fra l'altro di una Cronachetta siciliana dell'estate 1943 che "è il giro di una piccola contrada all'interno della Sicilia" (5). Scrittore attento e gentile, Savarese più del silenzio si stupiva delle mie brevi eppur decise puntualizzazioni sia pure giovanili.

Per curiosa coincidenza, presso la Soprintendenza ai Monumenti - stavo finendo la mia tesi in archeologia - ebbi occasione di conoscere il critico d'arte Enrico Maselli padre del noto regista e, nella trattoria "L'antico Bottaio", occhieggiante fra i platani del Lungotevere Ripetta e che ancora mi punge con la sua distanza, il giovane scultore Aurelio De Felice "il sorprendente enfant prodige della Scuola romana", alla cui fase estrema egli diede "un rapporto essenziale e originalissimo" (6).

L'istintiva timidezza, che tento di nascondere con apparente distacco, mi impediva un discorso aperto, modulato. Preferivo ascoltare più che intervenire, e alternavo poche frasi a lunghi silenzi, senza riuscire ad intessere un dialogo che mi avrebbe resa disinvolta e leggera. Ero una ragazza schiva, murata dentro. Lo scultore Marino Mazzacurati che a Roma aveva fama di essere un mordace "epigrammista" per le sue graffianti espressioni, mi chiamò con simpatia "la poetessa". Per capire la causticità dello scultore basta ripetere una sua famosa battuta su Guttuso: "Il Picasso della contessa".

Ungaretti amò definirmi "nera", non per i capelli, ma per il mio modo di essere introversa, per quella natura fiera e senza difese in cui mi dibattevo.

Sono stata un'allieva ante litteram o sui generis di Giuseppe Ungaretti nel suo primo anno di insegnamento all'Università di Roma: ben pochi lo sanno, molti preferiscono ignorarlo, ma la prefazione del poeta a Più forte è la vita (7) ne dà testimonianza . Di ritorno in Italia nel 1942, dopo sei anni di insegnamento in Brasile, Ungaretti era stato nominato Accademico d'Italia e, per chiara fama, professore ordinario di Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea. Affiora alla memoria come in un sogno l'atmosfera creatasi durante la prolusione che egli tenne quel venerdì 29 gennaio 1943 nell'aula Prima della Facoltà di Lettere, ove fra il verde scuro del marmo alle pareti e i banchi a gradinata si stipavano studenti, accademici più o meno incuriositi, personalità del mondo culturale e artistico non solo della capitale ma di altre città.

Qui "come sul Carso" Ungaretti sceglieva "la divisa del soldato semplice" (8) e affrontava quell'impegno professorale che manterrà per la durata di una generazione, fino al 1958,anno del suo pensionamento e della scomparsa dell'impareggiabile Jeanne Dupoix, sua moglie.

Con apparente umiltà e profonda consapevolezza quel giorno così cominciò (9):

L'onore … devo interpretarlo non come reso ai miei pochi meriti, ma tributato agli sforzi di rinnovamento compiuto in un quarantennio da tanti scrittori e poeti, per riportare nel mondo ad una altezza invidiata la nostra espressione artistica. Se la scelta non ha distinto il più degno né il più provetto, la colpa è imputabile ad un privilegio di circostanze che mi indussero per servire la mia Patria in un paese lontano, al tirocinio di alcuni anni di insegnamento superiore. Nel prendere possesso di così alto posto, in mezzo a colleghi così illustri per vastità e solidità di scienza, so bene che non potrei competere con essi se non nei limiti dove m'autorizza a muovermi la mia pratica non breve e appassionatissima dell'arte poetica. Sarò qui quello che sono e si vuole che io sia, non un dotto, ma un modesto artigiano e, oserei dire, un buon artigiano. Le cose ch'io so, le ho imparate via via , spinto da necessità espressive: erano difficoltà d'arte che via via mi portavano a impossessarmi di quella erudizione che posseggo, specialissima anche se scarsa. Forse sarò in grado di dare qualche consiglio fruttuoso su alcuni degli infiniti casi che derivano, componendo versi, dal sottile rapporto tra forma e ispirazione.

Tale l'esordio dimenticato del poeta e utile per chi ignora che "ogni parola, ogni gesto, persino qualche apparente stramberia, e tutta la novità e tutta la carica e tutto il fascino di Ungaretti professore, si spiegano in modo perfetto e lucido con quella premessa" (10).

Mi ero appena laureata in lettere e colsi l'opportunità della cattedra per la prima volta istituita nell'Università italiana e, come Perfezionamento mi iscrissi al corso di Ungaretti.

La cultura romana di quel periodo, da approfondire in tutte le sue sfaccettature, veniva a coabitare con la cultura universitaria, e si articolò più vivacemente, e si arricchì, in virtù del particolare discorso critico e poetico che Ungaretti seppe offrire ai giovani, universitari e no, dalla cattedra e, dopo la sua lezione, senza mostrarsi infastidito, con la sua originale conversazione. Oppure, dal suo successivo avviarsi verso la Circolare rossa con gli allievi, ai quali, talvolta, egli offriva il caffè e, ai quali, venendone stimolato, non mancava di dare giudizi pertinenti su fatti e scrittori coevi.

Era l'incontro della cultura con le illuminazioni, la forza e la natura misteriosa della poesia, per la qual cosa si può affermare che la cultura romana di quegli anni è anche la cultura della Facoltà di Lettere, dove Ungaretti estrosamente diede l'esempio del suo valore e della sua straordinaria umanità. L'essenziale ricerca della sua poesia, la sua particolarità espressiva incastonata fra il canto e i nascosti sigilli della metrica, hanno sollecitato in profondità gli autori che amano la poesia verso nuovi orizzonti. Ed Ungaretti è stato l'unico poeta del Novecento generoso verso i suoi coetanei e verso i giovani, di qualunque estrazione sociale, che ha disinteressatamente aiutato e valorizzato. Come afferma Tolstoj il poeta insegna inconsciamente ed Ungaretti era uno sguardo che frugava.

Ma la guerra incalzava per gli "infelici vivi" (11) e a Roma sopraggiunse l'occupazione tedesca.

Cessate di uccidere i morti,

Non gridate più, non gridate

Se li volete ancora udire,

Se sperate di non perire.

 

Hanno l'impercettibile sussurro,

Non fanno più rumore

Del crescere dell'erba,

Lieta dove non passa l'uomo. (12)

 

Ungaretti ha cantato quei giorni.

Personalmente ero colpita dal vigore della sua lirica. Come ho scritto altrove (13) amavo e amo quel Sentimento del tempo, spaziale e cosmico che s'accende - tale è il lampo di una lama - nel pensiero e nel cuore. Ascoltare Ungaretti mi dava una sensazione vibrante, come se un'acqua violenta mi tumultuasse nell'intimo per donarsi, e per timidezza finisse per nascondersi.

Sospinta dalla guerra, dalle esigenze di sopravvivenza e di lavoro, mi resi conto che non avrei potuto portare a termine quel Perfezionamento affrontato con solare entusiasmo.

Come tutte le necessità che dipendono da cause esterne, ne rimasi mortificata e con il coraggio delle decisioni estreme - una giornata luminosa rallegrava i corridoi e le finestre della Facoltà - mi avvicinai a Ungaretti e gli consegnai le poesie che avevo pubblicato su Quadrivio.

Ungaretti sorrise, un sorriso affilato e profondo come le onde lunghe che s'incurvano senza spuma e consentì a leggere i versi.

L'incontro era quella rara grazia che avevo sempre desiderato potesse toccarmi. Non mi rendevo conto se fosse realtà o la mia ardita fantasia che si allucinava nell'ascoltare parole di speranza. Sconvolta e felice sentivo fiorire un inconsapevole legame spirituale che apparve più chiaro, generoso, inconfondibile, qualche tempo dopo, quando Ungaretti mi ricevette nella sua accogliente e tranquilla casa in Piazza Remuria, a San Saba. Il suo invito era una lenta frase e già mi offriva la possibilità di seguire i suoi lunghi, vivissimi e singolari discorsi. Un episodio che appartiene all'imponderabile senso delle cose, che per fuggitiva magia ha assunto il volto della poesia.

Nel semplice e sobrio salotto di Ungaretti che si affacciava sul verde dell'Aventino, ho rivisto e anche conosciuto altri poeti, scrittori e artisti, Guido Barlozzini e poi Luigi Siroli, giovanissimi assistenti "ufficiali" del poeta. Una varietà di persone semplici e di cultura: il simpatico Tanino Chiurazzi che aveva una Galleria d'arte in via del Babuino, l'assiduo Leone Piccioni, Sandro Penna più o meno esplicitamente insofferente del pianeta donna, Ornella Sobrero molto bella e di forte ingegno, Pier Paolo Pasolini piuttosto taciturno che avevo già incontrato combattivo a Palazzo Del Drago nella prima riunione della rivista La strada, fondata e diretta da Antonio Russi dal 1946 al 1947.

La valigia dei ricordi non ha fondo: sono stati tanti i famosi "giovedì" così argutamente definiti da Barlozzini (14).

Il 18 marzo 1948, con un suo biglietto, Ungaretti mi presentava a Giuseppe De Robertis e testualmente gli diceva che scrivevo poesia "con vero dono" (15) . Ma il rapido incontro con Giuseppe De Robertis risultò distaccato e freddo ed Ungaretti se ne dolse forse più di me.

Firenze però mi ripagava con il cristiano consenso di Nicola Lisi, che mi liberava dall'umidità pesante di quelle nere giornate. Egli si offrì di presentarmi all'autrice della Sabbia e l'angelo con la quale aveva anche rapporti di parentela. Nel marzo 1948, conobbi Margherita Guidacci che mi accolse nella sua casa affastellata di mobili antichi che, arricchendo l'ambiente, ne rendevano raccolta l'atmosfera. E' un incontro quello con la Guidacci quasi favola perché, pur stimandoci sempre negli anni, abbiamo avuto rare occasioni di colloquio. Le nostre vite divergevano, ma simile all'erba sui muri l'amicizia è rimasta intrepida e viva. Ne ebbi conferma nell'estate del 1991, quando andai a farle visita nella sua casa romana. Trovai una Guidacci combattiva, impedita sì dalla malattia ,ma lucida e coraggiosa: era lietissima e stupita di chiacchierare con me. Ora come Ungaretti, come Lisi, come Pasolini e altri, anche la Guidacci è scomparsa. Ed io ritorno a pensare, come in quel caldo ferragosto, al suo Inno alla gioia, alla vitalità umana e alla bellezza di quella poesia che spinge l'amore oltre se stesso trasfigurandolo in uno abbraccio cosmico.

Ma quale era la situazione della poesia negli anni Quaranta? La poesia italiana nasceva nel solco di una tradizione pluridimensionale che, pur avendo acquisito il linguaggio e lo stile dell'Ermetismo, veniva mossa dall'esigenza di nuovi contenuti, di nuove forme e riceveva travagliati e forti impulsi dalle tensioni ideologiche maturatesi con la guerra e la Resistenza.

Nel campo artistico e letterario quell'esigenza di rinnovamento, non solo espressiva, ma di attiva partecipazione umana che avevo sentito fin dagli esordi come vitale problema e che, come Luigi Diemoz onestamente aveva affermato, "circolava nell'aria": quell'esigenza di rinnovamento, dicevo, con la fine della guerra si allargò, diventò posizione comune, generazionale.

Non so se la mia iniziale esperienza sia stata diversa da quella dei coetanei che più o meno in quegli anni cominciavano a scrivere, a dipingere, ma Erasmo Valente affermatosi critico e musicologo, Mario Di Pinto professore di letteratura spagnola noto internazionalmente, Accrocca affermatosi poeta, Lionello Lanciotti illustre sinologo, Armando Buratti, Renzo Vespignani ed altri giovani di talento li ho conosciuti in quel periodo. Con Barlozzini ed altri tentammo di pubblicare nel 1947 L'Ancile, una rivistina che si fermò al primo numero e in copertina riproduceva un bel disegno di Buratti.

Il 4 giugno 1944 con la venuta degli alleati a Roma, vengono alla luce nuovi periodici e giornali, i quotidiani uscirono in un primo momento sotto il controllo americano, la carta era pessima e i refusi abbondavano. Fra le riviste di cui potrei fare un lungo elenco (16) va indicizzata Mercurio, apparsa nel settembre 1944. Era una rivista politica, arte e scienze ed era diretta da Alba de Céspedes, antifascista, squisita padrona di casa e soprattutto scrittrice molto brava, fin dal 1938 nota anche sul piano internazionale, ma ora dimenticata. Mercurio venne "ad innestarsi in quello spirito di unità resistenziale che informava… anche il lavoro dei partiti… e la stessa attività artistica e culturale". L'Italia era ancora divisa in Nord e Sud, e la controprova appare nel denso fascicolo del dicembre successivo che Mercurio dedicò alla lotta partigiana e, pertanto, vari collaboratori firmarono con lo pseudonimo.

Il fermento culturale è, dunque, sofferto e nasce non dalla ricerca di uno scomposto ritorno al reale, ma dall'aprirsi alla rappresentazione dell'ambiente sociale, alle dimensioni civili, alle aspirazioni spirituali delle diverse comunità e del proletariato. Il lavorìo complesso e vivace risente della identità nazionale e cattura le parlate regionali, gergali, quella della incipiente tecnologia e, cercando una sua koiné, si sliricizza.

A Milano nel '45 Il Politecnico espresse in modo emblematico quel rinnovato clima. Il Politecnico - durò fino al '47 - affrontò l'esigenza di una cultura diversa da quella tradizionale, non più una cultura che "consoli nelle sofferenze, ma una cultura che protegga dalle sofferenze e le elimini".

Dedicata esclusivamente alla poesia, ma su posizioni degli anni Trenta, nasceva Poesia di Enrico Falqui (1945-1949) con carattere antologico-documentario come la consorella Prosa, diretta da Gianna Manzini.

Nel 1949 si era affacciata Galleria, stampata a Caltanissetta ma redatta a Roma, e come tale romana, spesso con numeri monografici dedicati all'arte e alla letteratura, rivista tuttora vitale come la rivista Idea, fondata nel1945 da Pietro Barbieri più volte rinnovata e che conserva l'antica testata su orientamenti di spiritualità cristiana.

Galleria e Idea sono le uniche sopravvissute, ma numerose sono state le riviste e le Case editrici fiorite fra il Quaranta e il Cinquanta ed esse restano rappresentative nel documentare i diversificati atteggiamenti della vita culturale e politica di quegli anni (17).

Va però chiarito che a Roma non c'è mai stata nel dopoguerra, né in seguito, una rivista aperta ai giovani di qualsiasi tendenza e intesa nel senso comparativo di palestra letteraria: la stessa Fiera Letteraria, risorta a Roma nel 1946, e altre riviste di carattere più popolare e divulgativo, ci ospitano di rado, mentre da parte nostra si faceva più acuto il bisogno di chiarire chi eravamo e cosa volevamo, e più profonda si acuiva la richiesta di un'arte aderente alla realtà nell'ambita sintonia di una ricerca espressiva concreta ed efficace. Tuttavia non c'è stato scrittore o artista della Quarta generazione che, almeno una volta, non abbia pubblicato sulla Fiera Letteraria, dove fra gli altri, strinsi amicizia con Luciano Luisi, Massimo Franciosa e Pasquale Festa Campanile che lavoravano nella redazione.

Nella prospettiva di quegli anni, anche la redazione romana della casa editrice Einaudi, che allora aveva la sua bella sede in via degli Uffici del Vicario, presso Montecitorio, era frequentata da intellettuali di sinistra: un giorno mi venne incontro il poeta - sindaco Rocco Scotellaro che, con confidenziale semplicità, mi pregava di presentargli una ragazza giovane da sposare. Scotellaro, un bel poeta e narratore, anche lui dimenticato, era come lo descrive sua madre, casalinga e artigiana di Lucania (18), un ragazzo privo "di un grande personale", ma con una "bella voce" e che usando abilmente le parole, riusciva ad "incantare il popolo". Scotellaro morì poco tempo dopo (1953).

Anche a quegli anni risalgono due luoghi antitetici e obbligati: l'uno - casa Bellonci - che accoglieva un ristretto e volutamente eletto numero di scrittori che poi formeranno il salotto degli "Amici della domenica", l'altro una piccola casa-studio, in via Sabazio, dello scultore Giuseppe Mazzullo, ove si avvicendavano e si mescolavano con sconosciuti, o quasi ignoti autori, artisti e scrittori prestigiosi.

In questa casa dipinta di un rosso slavato dalla pioggia, aperta come una stazione o fermata d'obbligo, si recava la Roma intellettuale del momento: ne veniva fuori una realtà antiretorica, vivacissima e si faceva la "colletta" per comprare il vino e alla somma sempre modesta che ciascuno poteva dare si aggiungeva qualche sigaretta, qualche oliva. E la "colletta" secondo la stagione allargava la conversazione, il chiacchierio, le simpatie.

In questo antisalotto Giuseppe Ungaretti allungava la sua inconfondibile risata, Cesare Zavattini, con il fervore della sua natura, sosteneva l'idea di un foglio letterario da intitolarsi Sabazio 34 , Turi Pandolfini cantava con la sua chitarra gli stornelli siciliani. C'erano i collaboratori di Domenica, di Cosmopolita. A volte, il pittore-professore Ivan Mosca - biondo - suonava la chitarra e il pittore Casotti - bruno - si abbandonava con meridionale dolcezza alla sua fisarmonica. Il duetto degli strumenti giocava in sordina il suo ruolo insinuante. Si criticava un libro, un saggio, un articolo; si scambiavano confidenze. L'atmosfera, tesa come una corda bagnata fra la musica e il vocìo, diveniva calda, animata e su tutto e tutti si levava, a scatti, la parola del pittore e poeta Sebastiano Carta, anche lui dimenticato.

L'ambiente sembrava un vivente quadro fauve. Una volta giunse e si fermò in incognito Paul Eluard, il famoso poeta di Libertè.

Da quanto sono venuta esponendo è evidente che Roma, con la fine della guerra, era divenuta una città-simbolo ben ricca di fermenti e quasi euforica: soprattutto negli ambienti culturali serpeggiava una atmosfera nuova, mossa da slanci generosi, un po' rari fra persone amanti della battuta scherzosa, pungente, maliziosa. In piazza di Spagna, da Babington, continuavano ad incontrarsi Bruno Barilli e Vincenzo Caldarelli, Giacomo Natta e Luigi Diemoz, Bruno Fonzi e Velso Mucci che dirigeva una rivista problematica come Il costume politico e letterario (1945-1950). Al gruppo si aggiungevano saltuariamente Alfredo Zennaro, Blasi, Nicola Ciarletta, Marcello Pagliero e altri giornalisti che amavano discutere vivacemente di letteratura, di teatro e di politica. Erano intellettuali di varie tendenze: anarchici e comunisti, socialisti, liberali e individualisti e, fra battute, paradossi, fra notabili e antinotabili, l'intelligenza scintillava come scossa da un invisibile maglio. I convitati erano sempre pronti allo scontro, fra una tazza di tè e, chi poteva permetterselo, un pasticcino. Si viveva di carne in scatola, di latte, di pane raffermo, di castagnaccio, di noccioline, di olive, di castagne arrostite e sigarette fatte a mano. Erano mesi di dignitosa povertà, e dopo tante sofferenze e amarezze, erano densi di iniziative fluttuanti fra gli estremi lampi di una bohème che stava per scomparire. L'unica certezza era l'essere vivi, l'essere in buona salute. Si cercava un lavoro e si avevano cento idee.

Come ho accennato ero giovanissima, inesperta, intimamente sollecitata dalla quotidianità disarticolata e difficile di quel periodo ma tesa alle espressioni dell'arte e della poesia. Lavoravo, e di rado mi recavo a Piazza di Spagna. In una breve sosta da Babington fui presentata a Cardarelli, e mi sembrò naturale conoscerlo senza avvertirne soggezione se non quella di una giovane ai suoi esordi. Cardarelli lo intuì e con benevolenza cercava di calettare il mio pensiero e l'attenzione generale un po' statica su cui scivolavano a ventaglio le parole degli altri. Percepivo ritmi diversi mentre l'iconoclastico orologio della sala spingeva la ruota del tempo.

"Appartenere al cerchio di Cardarelli era più e meno che avere certi gusti in letteratura, era una milizia; in certo modo, come nel '600, quella pro e contro Tasso", suggerisce Eurialo De Michelis (19). Un accostamento persuasivo, anche se, nel secondo dopoguerra, Cardarelli si era allontanato da quel suo fascinoso, amato tempo "primo" (20) . Nella sua esistenza "avventurosa senza avventure", nella sua irripetibile vita letteraria bohémienne (morì povero nel 1959), Cardarelli aveva favorito il formarsi di una specie di "mito" intorno a sé e al suo carattere, ma negli anni Quaranta egli era ormai solo, disilluso, pressato da problemi pratici e di salute.

Quando nel 1949 prese a dirigere La Fiera Letteraria che sia pure nominalmente diresse fino al 1955, Cardarelli, era fisicamente condizionato da una malattia ai centri nervosi che non gli consentiva quasi più di lavorare, gli era di sollievo avere per amico un poeta colto e semplice come Marino Piazzolla, cui egli aveva affidato la rubrica "Critica di poesia" della Fiera.

Ogni tanto andavo a salutare Cardarelli e gli facevo gustare la focaccia di patate e farina lievitate (kukù) o altra ghiottoneria che a lui non dispiaceva. Egli apprezzava le mie rapide apparizioni.

Collaboravo anche alla Fiera.

Quando andai a ringraziarlo di aver pubblicato sulla rivista la riproduzione del mio ritratto in bronzo dello scultore Giuseppe Mazzullo (21) che aveva vinto il Premio Reggio Calabria, egli mi disse: "E' un bel ritratto da principessa sveva". E quel suo giudizio così lapidario e vero mi è rimasto dentro per sempre.

Dopo l'estate del '50 tornai a far visita a Cardarelli che nel ringraziarmi dell'invio di mie cartoline aggiunse distaccato e perentorio: "Anche Piazzolla mi ha spedito cartoline. Ma è di voi pugliesi eclissarvi e scomparire?".

Gli era dispiaciuta la nostra assenza prolungata, gli riusciva strana quella presente assenza (22) testimoniata soltanto da saluti epistolari. In quel momento gli sfuggiva il senso profondo dell'amicizia disarticolata nel tempo, eppur viva negli anni, tipica della gente mediterranea. Il rimprovero di Cardarelli muoveva da un inconscio bisogno di affetto e lo ritenevo assurdo, anche se lo giustificavo con le necessità di ogni giorno che rendono imprevedibili le azioni e gli atteggiamenti degli uomini, tanto più dei poeti e degli artisti.

Ho lavorato per alcuni anni lontano da Roma e non ebbi l'opportunità di raccontare l'aneddoto a Marino Piazzolla che forse avrebbe solo sorriso. Ora fuori del tempo si accompagnano insieme l'"erebico" (23) Cardarelli e il visionario Piazzolla.

A Roma, dunque, la vita culturale era intensa e pur disarticolata. E del resto, scrittori d'orientamento democratico che si erano già impegnati sulla rivista Mercurio, ebbero un nuovo punto di riferimento e di prestigio nella rivista Il Mondo, che nasceva nel 1949 diretta da Mario Pannunzio.

Il critico letterario del Mondo era Arnaldo Bocelli, che aveva diretto la Nuova biblioteca italiana dell'editore Tumminelli, una fortunata collezione dal colore rosso che aveva suscitato curiosità: il primo volume, La vedova timida di Bonaventura Tecchi, fu pubblicato nel 1941 e l'ultimo, il Foscolo minore di Mario Fubini, nel 1949. Nell'ambita collezione si segnalarono giovani o esordienti come Francesco Jovine con Signora Ava , Mario Tobino con i racconti La gelosia del marinaio, Anna Banti con Le monache cantano che era già alla sua terza prova.

Vi furono riproposte opportune raccolte come Le liriche, di Arturo Onofri a cura dello stesso Bocelli e di Girolamo Comi ed opere di contemporanei ben noti come gli Studi su D'Annunzio di Pietro Pancrazi. Dall'esame della produzione delle collane di quel periodo o poco dopo si evince, ad esempio, che il cosiddetto risvolto di copertina compare per la prima volta proprio nella collezione rossa di Tuminelli ricca di 35 volumi. Una curiosa segnalazione questa da ratificare fra le piccole note della nostra storia culturale, spesso disattenta a fenomeni che sembrano marginali e che pur formano la sottile filigrana dell'evolversi del pensiero e del costume. Oltre la Nuova biblioteca italiana Bocelli, dando implicita conferma a quanto aveva riconosciuto Attilio Momigliano che lo definiva veramente "impareggiabile direttore di collezioni", prese a dirigere dal 1957 fino al 1974, anno della sua morte, la collezione Aretusa, che continua regolarmente ad essere pubblicata, sempre presso l'editore Sciascia, per le cure di Mario Petrucciani.

Ora il mio incontro con Arnaldo Bocelli si determinò perché egli recensì sul Mondo, Nero amore rosso amore (24). Non conoscevo Arnaldo Bocelli: egli era un critico cui avevo inviato, come ad altri, una copia del volume.

Ogni autore sa quanta importanza abbia nella propria storia l'opera prima ed io, non sperando, speravo che qualche critico influente parlasse di quel mio primo libro. Così provai quell'indefinibile sensazione magistralmente resa da Giuseppe Ungaretti: "non ci pare bella che quella cosa che arrivi ad un ordine: ciò che è stato, è stato per sempre, è divenuto patrimonio della mente".

Conobbi di persona il critico del Mondo più tardi all'Enciclopedia Italiana Treccani, dove era uno dei redattori e, durante il corso degli anni, quella stima appena nata fiorì e si rafforzò in una schietta amicizia tale da indurre Bocelli a designarmi sua esecutrice testamentaria (25).

Arnaldo Bocelli, vedovo e senza figli, perseguì e maturò nel tempo, l'idea di lasciare in dono i propri libri all'Angelica, la bellissima biblioteca statale di Roma. Una generosità che rispecchiava la natura schiva, all'apparenza severa di Bocelli che, da piacevole conversatore qual era, era solito inserire nei suoi discorsi l'aneddoto e far scoccare la scintilla di un istintivo humour debordante nell'ironia. Egli ricordava le sue origini emiliane, ma si considerava romano "più del Cupolone" (26) - era nato a Roma il 1° giugno 1900 - e se ne compiaceva nello stesso modo con cui traeva diletto dalla amata lettura del Belli.

Ora, i libri di Bocelli costituiscono il Fondo Bocelli dell'Angelica: una raccolta che ha un fondamentale carattere documentario, in quanto parecchi testi narrativi e poetici - in edizioni fuori commercio o in tiratura limitata - sono irreperibili anche in antiquariato.

Ciò che appare, è cronaca della cultura, ma che durante gli anni diventa storia e materiale informativo e formativo della cultura stessa e costituisce uno degli aspetti più utili e concreti del lascito Bocelli, concupita delizia dei lettori. I quali, in una biblioteca come l'Angelica, specializzata in letteratura italiana con particolare attenzione al periodo fra Quattrocento e Settecento, possono opportunamente "giovarsi di quella letteratura che per essere detta amena, anche quand'è serissima…, difficilmente viene acquistata dalle biblioteche di studio" (27).

Nell'anno accademico 1979-'80 l'Arcadia Accademia Letteraria Italiana, che ha sede nell'Angelica, decise di ricordare il suo socio ordinario Arnaldo Bocelli: il discorso, molto bello e articolato, fu tenuto dallo scrittore Eurialo De Michelis, anche lui arcade, critico acuto e documentatissimo (28). E, in concomitanza, l'Angelica inaugurò la singolare mostra che era venuta preparando sul tema Con dedica dell'autore e che consisteva in una scelta di libri e autografi del Fondo e insieme di saggi critici, documenti e lettere di/a Bocelli.

Il successo della manifestazione, il carattere direi unico della scelta bibliografica e gli incuriositi visitatori sollecitarono a pubblicare l'elenco completo di libri con dedica e, la direttrice del Tempo, Candida Visco Romiti, pensò di farne un catalogo insolito ed esemplare. Catalogo che, stampato nel 1982 (29), riportava i volumi che poeti, narratori, critici e studiosi inviarono a chi "ebbe il coraggio di nessun libro" (30).

Per l'eccessivo costo tipografico le dediche non furono trascritte nel catalogo, ma chi vuole approfondire la ricerca e godere una lettura inconsueta, immediata, piacevole, il libro con dedica è subito accessibile.

Questa la storia di un'amicizia culturale, partecipe anche ai fini della pubblicazione dell'opera postuma di Bocelli, Letteratura del Novecento, finora in due volumi o serie, edita presso Sciascia (31) con l'affettuoso contributo della scelta dei testi e delle note introduttive e critiche dell'amico Eurialo De Michelis, il quale curò una terza raccolta postuma di Bocelli, Posizioni critiche del Novecento (32).

Data la vastità del tema ho potuto soffermarmi soltanto di scorcio e per accenni su maestri e amici e, appena sfumare, qualche altra personalità di indiscusso valore.

Ma prima di concludere desidero mettere a fuoco un lontano affiatamento letterario cui risale l'incontro con Giorgio Petrocchi. Un gruppo di letterati e poeti frequentava anche il "Rampolli", uno strano caffè in stile liberty scomparso da tempo vicino a Piazza di Spagna. L'asse portante di questa saltuaria letterarietà era lo scrittore e critico Giambattista Vicari che con acribia tutta nordica cercava di condurre in porto le sue rivistine, in mancanza di piccole edizioni. Fonderà nel 1953 Il Caffè che per anni ha condotto un'azione di rottura per sostenere una letteratura eccentrica, grottesca e satirica. Tuttavia in quel piccolo lasso di tempo al caffè Rampoldi Vicari riuscì a stampare un minuscolo ma curatissimo foglietto color paglierino, una insolita rarità, delizia certa di bibliofili, ove io stessa pubblicai alcuni versi e che, purtroppo, è andata dispersa.

Al gruppo - c'era fra gli altri il critico d'arte Marcello Venturoli, lo scrittore Libero Biagiaretti, il poeta Giorgio Bassani - si accompagnava Giorgio Petrocchi, bello da fare invidia a Enrico Falqui del quale sembrava essere la controfigura, ma fin d'allora serio al punto di dare l'impressione di essere distaccato. Petrocchi, invece, sapeva dominarsi: una qualità eccellente, piuttosto rara, che ho potuto poi constatare negli anni Settanta, quando, dopo la scomparsa di Aldo Ferrabino, Petrocchi divenne presidente del Centro Nazionale per le Biblioteche Italiane e per le Informazioni bibliografiche. Un Centro che era sorto nel 1951 a Roma per realizzare gli strumenti idonei a porre a disposizione degli studiosi il prezioso materiale posseduto dalle biblioteche italiane. Un Centro all'avanguardia dei problemi tecnici e bibliografici che, in seguito a promozione, ero andata a dirigere fra gli anni 1973 e 1976.Una amichevole coincidenza di lavoro che, pur saltuariamente, mi consentiva di avere con Giorgio Petrocchi un discorso culturale sia pure biblioteconomico. Del resto nel concorso sostenuto come bibliotecario, anni prima, Petrocchi si era classificato primo. E primo egli è stato sempre: nella filologia, nella critica e nell'interpretazione testuale, nella metodologia e nell'appassionato rapporto con gli allievi, i colleghi, gli amici. Basta scorrere la sua bibliografia risalente ad una adolescenziale attività che dall'iniziale campo musicologico si orienta poi verso quello critico e filologico; attraversando anche il momento creativo con La carità(33), romanzo che vinse il premio Vendemmia. Ma forse la vera natura di Petrocchi è quella "dell'itinerante e dell'interrogante" (34)), come ha felicemente delineato Lia Fava Guzzetta. Infatti gli incontri di Petrocchi con gli autori non sono stati mai casuali, anzi spesso vengono riproposti e formano quel vivo dialogo o quel continuum che è particolare dello studioso Giorgio Petrocchi. Basta l'esempio del suo legame con Dante e delle conclusioni cui egli perviene e sulle quali potrà costruire l'edizione critica della Commedia e scrivere una Vita del poeta.

Lasciando ai più abili esegeti una critica capillare dell'enorme lavoro da lui svolto, desidero affidare il ricordo di Petrocchi, pensoso lettore della poesia di Dante a questi luoghi, che io scopro per la prima volta e che passo passo riconducono a Dante e al suo poema.

E, spontaneo, sorge il raffronto fra la poesia della Commedia, monolitica e sfaccettata, quali aggettate pietre di un'altissima piramide e la poesia "diversa" di oggi. Così per l'incalzare dei giorni che ci coinvolgono, nulla come l'Inferno di Dante mi sembra che possa rispecchiare la nostra triste sorte, la turbinosa giornata, la quotidiana "bufera".

 

Note

(1)E. Flaiano, Solitudine del satiro, Milano, Rizzoli,1973 riprendi la lettura
(2) V. Cardarelli, Lettere non spedite, Roma, Astrolabio, 1946 riprendi la lettura
(3)V. Caldarelli, Epistolario (1907-1929), Tarquinia, Lions Club, 1978 riprendi la lettura
(4)S. Aleramo, Diario 1904 - 1944, Roma, Tumminelli, 1945, cui fece seguito - postumo - Il diario di una donna. Inediti 1945 - 1960, a cura di A. Morino, Milano, Feltrinelli, 1978. riprendi la lettura
(5)N. Savarese, Cronachetta siciliana dell'estate 1943, Palermo, 1945, ripubblicata da S. Sciascia, Caltanissetta - Roma, 1963. riprendi la lettura
(6)M. Valsecchi., in un testo critico del 1958, cfr. Aurelio De Felice, Mostra antologica, con prefazione di Cesare Vivaldi, Roma, editrice del Carretto, 1979, p. 226, id. p. 8. riprendi la lettura
(7)B. Marniti, Più forte è la vita, pref. di G. Ungaretti., "Lo Specchio", Milano, Mondadori, 1957. riprendi la lettura
(8)O. Sobrero, L'infini contre rien, in Letteratura, n. 35 - 36, pp. 358 - 359. riprendi la lettura
(9)G.Ungaretti, Vita di un uomo. Saggi e interventi, a cura di Mario Diacono e Luciano Rebay, Milano, Mondadori, 1986, IV ed., p.948, p. 430 -450 ove è riportato il seguito del discorso con il titolo Immagini del Leopardi e nostre, quale fu pubblicato in Nuova Antologia, Roma, a. 78, fasc. 1702, 16 febbraio 1943, pp. 221 - 232, ma acefalo dell'inizio qui riproposto. riprendi la lettura
(10) G. Bartolozzini, Il professor Ungaretti, in Atti del Convegno Internazionale su G. Ungaretti, Urbino, 3-6 ottobre 1979, Ed. 4 Venti, 1981, vol. I,. pp. 381-395. riprendi la lettura
(11)G. Ungaretti, "Mio fiume anche tu", in Vita d'un uomo. Tutte le poesie, a cura di L. Piccioni, Milano, Mondadori, 1969, pp. 228-230. riprendi la lettura
(12) G. Ungaretti, "Non gridate più", in Vita di un uomo. Tutte le poesie, op. cit., p. 236. riprendi la lettura
(13)B. Marniti, "Poesia e generosità di Ungaretti, in Letteratura", op. cit., pp. 354-355 e "Saluto", in Atti del Convegno Internazionale su G. Ungaretti, op. cit., vol. I, pp. 23-24. riprendi la lettura
(14)G. Barlozzini, Il professor Ungaretti, op. cit.,p.386. riprendi la lettura
(15)G. Ungaretti, G. De Robertis, Carteggio 1931-1962, a cura di D. De Robertis, Milano, Il Saggiatore, 1984,p. 116. riprendi la lettura
(16)A Roma nel 1944 oltre Mercurio, apparvero Nuova Europa e Domenica, a Napoli Aretusa che ebbe vita fino al 1946. Nel 1945 oltre Idea apparvero Comunità, Cosmopolita, Alfabeto e Società che ebbe vita fino al 1961. Oltre L'ancile nel 1947 apparvero Risorgimento liberale, Ulisse e Rassegna di cultura e di vita scolastica, nel 1948 Botteghe oscure, che ebbe vita fino al 1960 e Lo spettatore italiano di ispirazione laica e democratica che durò fino al 1956. Nel 1947 come organo del "centro internazionale di comparazione e sintesi" diretto da Maurizio Raffa era stata fondata Responsabilità del sapere, mentre nel 1949 sorgeva La via, diretta da Igino Giordani, e fra le vecchie testate riprendevano il loro peso La Fiera Letteraria che, sospesa nel 1936 ritornò nel 1946 e, dopo rinnovati propositi di libera informazione e di cultura, sospese definitivamente le pubblicazioni nel 1977 e la Nuova Antologia, tuttora sulla breccia. A Torino nel 1948 nasceva Momenti, poi La situazione. riprendi la lettura
(17)Cfr. la voce Riviste letterarie in Italia, nel Dizionario della letteratura mondiale del '900, vol. 3, Roma, Ed. Paoline, 1980. riprendi la lettura
(18) "Dalla nascita alla morte di Rocco Scotellaro", in R. Scotellaro, Contadini del Sud, Bari, Laterza, 1954, p. 232. riprendi la lettura
(19) E. De Michelis, Senza un dialetto Cardarelli soffriva, in "Il Giornale d'Italia", 15-16 luglio 1961. riprendi la lettura
(20) S. Caronia, L'usignolo di Orfeo, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1990, p. 104. riprendi la lettura
(21)Il Ritratto in bronzo di Giuseppe Mazzullo si conserva presso la fondazione Mazzullo nel Palazzo dei Duchi di Santo Stefano a Taormina.Cfr. S. Caronia, L'usignolo di Orfeo, cit. pp. 286-287; 302-304. riprendi la lettura
(22)"Presente assenza", titolo di una mia poesia sul tema dell'assenza pubblicata in Il cerchio e la parola, p.42, Caltanissetta-Roma, Sciascia,1979. riprendi la lettura
(23)P. Bigongiari, Cardarelli rivisitato. Relazione introduttiva al Convegno di Tarquinia in occasione della nascita del centenario di V. Cardarelli (1987). riprendi la lettura
(24) B. Marniti, Nero amore rosso amore, con 6 disegni di G. Omiccioli, Milano, Fiumara, 1951, ed. numerata di 200 esemplari. riprendi la lettura
(25) B. Marniti, "Il fondo Bocelli all'Angelica di Roma (Storia di un lascito )", in Ricerche letterarie e bibliografiche in onore di Renzo Frattarolo, Roma, Bulzoni, 1986, pp. 257-269. riprendi la lettura
(26)A proposito del "Rugantino" di Antonio Baldini così il professore Antonio Bonadies definiva l'autore; felice espressione che mi pare valida anche per Bocelli (cfr. B. Marriti, Dal carteggio Baldini-Bocelli. Storia di "Rugantino" in Accademie e biblioteche d'Italia, a. LI., n. 2, 1983, pp. 127-135. riprendi la lettura
(27)Cfr. E. Sormani, Con dedica dell'autore…, Presentazione della Mostra omonima allestita nella Biblioteca Angelica di Roma, 4 dicembre 1979 - 10 gennaio 1980 (dépliant illustrativo, Roma, fratelli Palombi, 1979, 24°, pp. 8, 1 ritr.: china inedita del 1944 di Orfeo Tamburi che ritrae il Bocelli quarantenne). riprendi la lettura
(28)La conferenza La critica di Arnaldo Bocelli, tenuta da E. De Michelis nel suggestivo salone dell'Angelica il 4 dicembre 1979, venne pubblicata negli Atti e Memorie dell'Arcadia, Roma, 1979, s. III, vol. VII. Fasc. 3, pp. 1-20. riprendi la lettura
(29)Biblioteca Angelica, Roma, Con dedica dell'autore. Gli autografi del fondo Bocelli. (Premessa di Candida Visco Romiti. Una rosa per Bocelli di Elsa Sormani). Roma, 1981, Firenze. Tipografia della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, 1982, pp. 164, 1 ritr. e 2 tav. num. nel testo (Cinquecento esemplari). riprendi la lettura
(30)Cfr. F. Virdia, "La scomparsa di Arnaldo Bocelli". "Il coraggio di nessun libro", in La voce repubblicana, 3 dicembre 1974. riprendi la lettura
(31)Nel 1975, tenendo fede da quanto da noi promesso all'editore Sciascia, venne pubblicata in Aretusa, 34, una prima serie di 64 saggi di Bocelli, giunta presto alla seconda edizione, riveduta e accresciuta con altri 6 saggi, nel novembre 1977. Una ristampa di questa seconda edizione si ebbe nel gennaio 1979. La seconda serie è uscita nel 1980 sempre da Sciascia, in Aretusa, 39, con gli stessi criteri della prima con 89 saggi disposti per ordine cronologico degli autori in quattro sezioni, "di cui le prime tre arricchiscono le corrispondenti del primo volume, mentre la quarta comprende gli scrittori delle generazioni successive, fino ai nati nel 1938" riprendi la lettura
(32) A. Bocelli, Posizioni critiche del Novecento, a cura di Eurialo De Michelis, Roma, Palombi, 1979, pp. 284, "Quaderni dell'Accademia dell'Arcadia, n. 6", comprende i saggi di Bocelli sui critici e i suoi interventi che affrontano generaliter i problemi "sottostanti e coevi", insieme con altri tre riguardanti "il proprio modo di accostarsi ai libri" e "far critica". riprendi la lettura
(33)G. Petrocchi, La carità, Torino, De Silva, 1948, p.181. (Uno dei membri della Commissione del premio Vendemmia era Arnaldo Bocelli). riprendi la lettura
(34)Lia Fava Guzzetta, Giorgio Petrocchi: il letterato, il maestro, prolusione all'apertura dell'Anno Accademico 1989-'90 dell'Istituto Universitario Pareggiato di Magistero "Maria SS. Assunta" di Roma, cfr. Annuario 1989-'90,pp. 27-47. riprendi la lettura


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