Appartengo a quella generazione a cui non sono state risparmiate
le esperienze più tormentate del secolo: dalla seconda guerra mondiale
al nazismo e allo stalinismo, dalle crisi ideologiche a quelle sociali
ed economiche che tuttora ci avvolgono in un disagio di non so quante
atmosfere, un disagio che rende sempre più difficile la nostra quotidianità.
La cultura stessa corre più di un rischio e, pur martellando la
coscienza, forse, va appiattendosi verso una esistenza senza prospettive,
speranze, valori, idealità mentre sale l'incognita della violenza
e par venga a mancare anche una religione laica.
Appartengo a quella società letteraria e artistica di cui si è
sbiadita la memoria, si è perduto il segreto, il travaglio e che,
con la sua "civiltà" ha effuso gli ultimi, fuggenti bagliori, fin
verso gli anni Cinquanta. Di quella "società letteraria" in cui
era viva la colloquialità dell'intelligenza ho una intima nostalgia,
simile ad un cielo notturno dissolventesi nell'alba.
Giovanna d'Arco asserisce: "Nessuno sa dove la vita ci conduce,
noi conosciamo la strada quando siamo arrivati alla fine", e con
questa parafrasi da Giovanna a me pare che gli incontri e gli episodi
soprattutto degli anni romani si intramino in una straordinaria
parabola.
Piuttosto per delineare ordinate e ascisse di cronache intrecciate
mi servirebbe l'abilità di un astronomo il quale, per determinare
l'altezza di un astro all'orizzonte, punta il suo astrolabio con
l'alidada e, con la pazienza dell'astronomo, anch'io tenterò di
riscoprire quel tempo perduto.
Ripenso agli anni giovanili trascorsi in un isolamento interrotto
soltanto dalle lezioni che frequentavo presso l'Università di Roma,
ove i miei genitori si erano trasferiti dalla nativa Puglia, per
farmi seguire i corsi della Facoltà di Lettere che, nel 1938, a
Bari non esisteva.
Il mio primo lettore fu un pubblicista, amico di Enrico Falqui,
Roberto Bartolozzi, spinto alla lettura dei versi da sua figlia
Ester, compagna di classe di Corsignana, la mia più giovane e vivace
sorella. Bartolozzi fu colpito dalla freschezza dei versi e dalla
ricerca dell'essenzialità che mi sforzavo di perseguire, e che più
tardi anche Ungaretti avrebbe rilevato, e mi offrì di pubblicare
dei versi su Quadrivio, cui collaborava qualche intelligenza romana.
I versi scelti da Bartolozzi uscirono nei primi del '42, ma altri
ne scrissi e durante l'anno vennero pubblicati su quel settimanale
letterario, in una nuova rubrica dal titolo "Amore di poesia".
A me ignara di Ungaretti e della vita culturale - nei programmi
liceali degli anni Trenta la poesia contemporanea italiana toccava
si e no D'Annunzio - Bartolozzi regalò Beltempo. Almanacco delle
lettere e delle arti, appena uscito a cura di Libero De Libero,
nelle edizioni della Cometa e aggiunse, ridendo fra il malizioso
e il perplesso "Lei è caduta nel pozzo nero della letteratura!".
Beltempo si apriva con "Fronte dell'arte", un articolo di Giuseppe
Bottai, e , la carrellata dei testi e delle tavole mi segnalò in
piena guerra, la situazione artistica e letteraria del Paese: dal
pittore-poeta Scipione a Rosai, al pittore e critico Virgilio Guzzi,
da Mazzacurati ad Aurelio De Felice, da Bontempelli ad Alberto Savino
e al fratello Giorgio De Chirico, da Ungaretti ad Arnaldo Beccaria,
autore di una raccolta Adamo, che nessuno ricordava più. Beltempo
costava venti lire.
Il riconoscimento di Bartolozzi - anche lui collaboratore di Beltempo
- mi ricompensava della vocazione manifestatasi fin dalle strane
storie che nell'infanzia raccontavo a mia madre, durante le sere
d'inverno, e che mi aveva portato a scrivere presto.
Con la pubblicazione si affacciò la questione dello pseudonimo.
Bartolozzi mi ammoniva sull'inopportunità dello pseudonimo una volta
raggiunta la notorietà. Incalzava "pensi bene prima di usarlo".
Ma io desideravo affermare me stessa e nello stesso tempo inventarmi
un cognome insolito e che pur rispecchiasse intimi legami.
Lo pseudonimo che scelsi, e può sembrare poco "rubastino" in quanto
non appartiene all'onomastica locale, è invece legato al mio paese,
perché nell'inventarlo volli abbinare proprio qualche elemento del
mio cognome anagrafico Masulli con un richiamo alla terra d'origine.
Infatti conservai la sillaba iniziale di quello, Ma e, pensando
alla Puglia, in alcune zone così arida, spesso argillosa e calcarea,
l'immagine della marna mi portò, istintivamente, a Marniti. Quel
Marniti la cui liquida vibrante ben si accompagna alla labiale e
alla palatale di Biagia, nome di battesimo che mi piacque conservare
perché insolito in una donna.
A Roma, nell'aria ovattata della vecchia Biblioteca Nazionale,
al Collegio Romano, lessi per la prima volta la poesia di Giuseppe
Ungaretti. Nella redazione di Quadrivio conobbi Luigi Diemoz, un
critico-scrittore da riproporre o meglio scoprire, la cui sottile
dialettica piaceva a un musicista geniale della statura (anche fisica)
di Bruno Barilli e non dispiaceva a Vincenzo Caldarelli. Un protagonista
questi la cui ricca aneddotica si può leggere con diletto fra le
pagine postume della Solitudine del satiro di Ennio Flaiano (1)
e fra le Lettere non spedite (2)
e l'Epistolario dello stesso Cardarelli (3).
Un aneddoto sul poeta che direi storico è riportato nel Diario,
avvincente come un romanzo, di Sibilla Aleramo (4).
A pagina 288 - 9 aprile, Pasqua, pomeriggio 1944 - Sibilla racconta:
A mezzogiorno, a Piazza di Spagna, ho compiuto un'azione cristiana.
Non so neppur io quale impulso m'ha mossa. Mi sono imbattuta viso
a viso con Cardarelli col quale non scambiavo saluto da circa venticinque
anni (si, sono esattamente venticinque anni che uscì Il Passaggio
per cui egli a torto, senza fondamento alcuno, mi divenne nemico
feroce).
L'ho fermato, ho detto: "Vogliamo salutarci, poiché è Pasqua?".
M'ha guardata, ha risposto: "Salutiamoci pure".
Ho continuato: "Ci si intravede di quando in quando, non è vero?".
"Già - ha fatto lui - ma sarebbe forse meglio non riconoscersi,
cara Signora…Il paese è in rovina…".
"Purtroppo - ho interrotto - ma ci si riconosce lo stesso…". Ha
avuto un barlume di sorriso, m'ha teso la mano: "Buona Pasqua".
"Auguri" ho risposto, e abbiam ripreso ciascuno la propria strada,
in senso opposto.
A Roma, sulla soglia degli esordi, venni presentata allo scrittore
ennese Nino Savarese, autore fra l'altro di una Cronachetta siciliana
dell'estate 1943 che "è il giro di una piccola contrada all'interno
della Sicilia" (5).
Scrittore attento e gentile, Savarese più del silenzio si stupiva
delle mie brevi eppur decise puntualizzazioni sia pure giovanili.
Per curiosa coincidenza, presso la Soprintendenza ai Monumenti
- stavo finendo la mia tesi in archeologia - ebbi occasione di conoscere
il critico d'arte Enrico Maselli padre del noto regista e, nella
trattoria "L'antico Bottaio", occhieggiante fra i platani del Lungotevere
Ripetta e che ancora mi punge con la sua distanza, il giovane scultore
Aurelio De Felice "il sorprendente enfant prodige della Scuola romana",
alla cui fase estrema egli diede "un rapporto essenziale e originalissimo"
(6).
L'istintiva timidezza, che tento di nascondere con apparente distacco,
mi impediva un discorso aperto, modulato. Preferivo ascoltare più
che intervenire, e alternavo poche frasi a lunghi silenzi, senza
riuscire ad intessere un dialogo che mi avrebbe resa disinvolta
e leggera. Ero una ragazza schiva, murata dentro. Lo scultore Marino
Mazzacurati che a Roma aveva fama di essere un mordace "epigrammista"
per le sue graffianti espressioni, mi chiamò con simpatia "la poetessa".
Per capire la causticità dello scultore basta ripetere una sua famosa
battuta su Guttuso: "Il Picasso della contessa".
Ungaretti amò definirmi "nera", non per i capelli, ma per il mio
modo di essere introversa, per quella natura fiera e senza difese
in cui mi dibattevo.
Sono stata un'allieva ante litteram o sui generis di Giuseppe Ungaretti
nel suo primo anno di insegnamento all'Università di Roma: ben pochi
lo sanno, molti preferiscono ignorarlo, ma la prefazione del poeta
a Più forte è la vita (7)
ne dà testimonianza . Di ritorno in Italia nel 1942, dopo sei anni
di insegnamento in Brasile, Ungaretti era stato nominato Accademico
d'Italia e, per chiara fama, professore ordinario di Letteratura
Italiana Moderna e Contemporanea. Affiora alla memoria come in un
sogno l'atmosfera creatasi durante la prolusione che egli tenne
quel venerdì 29 gennaio 1943 nell'aula Prima della Facoltà di Lettere,
ove fra il verde scuro del marmo alle pareti e i banchi a gradinata
si stipavano studenti, accademici più o meno incuriositi, personalità
del mondo culturale e artistico non solo della capitale ma di altre
città.
Qui "come sul Carso" Ungaretti sceglieva "la divisa del soldato
semplice" (8)
e affrontava quell'impegno professorale che manterrà per la durata
di una generazione, fino al 1958,anno del suo pensionamento e della
scomparsa dell'impareggiabile Jeanne Dupoix, sua moglie.
Con apparente umiltà e profonda consapevolezza quel giorno così
cominciò (9):
L'onore … devo interpretarlo non come reso ai miei pochi meriti,
ma tributato agli sforzi di rinnovamento compiuto in un quarantennio
da tanti scrittori e poeti, per riportare nel mondo ad una altezza
invidiata la nostra espressione artistica. Se la scelta non ha distinto
il più degno né il più provetto, la colpa è imputabile ad un privilegio
di circostanze che mi indussero per servire la mia Patria in un
paese lontano, al tirocinio di alcuni anni di insegnamento superiore.
Nel prendere possesso di così alto posto, in mezzo a colleghi così
illustri per vastità e solidità di scienza, so bene che non potrei
competere con essi se non nei limiti dove m'autorizza a muovermi
la mia pratica non breve e appassionatissima dell'arte poetica.
Sarò qui quello che sono e si vuole che io sia, non un dotto, ma
un modesto artigiano e, oserei dire, un buon artigiano. Le cose
ch'io so, le ho imparate via via , spinto da necessità espressive:
erano difficoltà d'arte che via via mi portavano a impossessarmi
di quella erudizione che posseggo, specialissima anche se scarsa.
Forse sarò in grado di dare qualche consiglio fruttuoso su alcuni
degli infiniti casi che derivano, componendo versi, dal sottile
rapporto tra forma e ispirazione.
Tale l'esordio dimenticato del poeta e utile per chi ignora che
"ogni parola, ogni gesto, persino qualche apparente stramberia,
e tutta la novità e tutta la carica e tutto il fascino di Ungaretti
professore, si spiegano in modo perfetto e lucido con quella premessa"
(10).
Mi ero appena laureata in lettere e colsi l'opportunità della cattedra
per la prima volta istituita nell'Università italiana e, come Perfezionamento
mi iscrissi al corso di Ungaretti.
La cultura romana di quel periodo, da approfondire in tutte le
sue sfaccettature, veniva a coabitare con la cultura universitaria,
e si articolò più vivacemente, e si arricchì, in virtù del particolare
discorso critico e poetico che Ungaretti seppe offrire ai giovani,
universitari e no, dalla cattedra e, dopo la sua lezione, senza
mostrarsi infastidito, con la sua originale conversazione. Oppure,
dal suo successivo avviarsi verso la Circolare rossa con gli allievi,
ai quali, talvolta, egli offriva il caffè e, ai quali, venendone
stimolato, non mancava di dare giudizi pertinenti su fatti e scrittori
coevi.
Era l'incontro della cultura con le illuminazioni, la forza e la
natura misteriosa della poesia, per la qual cosa si può affermare
che la cultura romana di quegli anni è anche la cultura della Facoltà
di Lettere, dove Ungaretti estrosamente diede l'esempio del suo
valore e della sua straordinaria umanità. L'essenziale ricerca della
sua poesia, la sua particolarità espressiva incastonata fra il canto
e i nascosti sigilli della metrica, hanno sollecitato in profondità
gli autori che amano la poesia verso nuovi orizzonti. Ed Ungaretti
è stato l'unico poeta del Novecento generoso verso i suoi coetanei
e verso i giovani, di qualunque estrazione sociale, che ha disinteressatamente
aiutato e valorizzato. Come afferma Tolstoj il poeta insegna inconsciamente
ed Ungaretti era uno sguardo che frugava.
Ma la guerra incalzava per gli "infelici vivi" (11)
e a Roma sopraggiunse l'occupazione tedesca.
Cessate di uccidere i morti,
Non gridate più, non gridate
Se li volete ancora udire,
Se sperate di non perire.
Hanno l'impercettibile sussurro,
Non fanno più rumore
Del crescere dell'erba,
Lieta dove non passa l'uomo. (12)
Ungaretti ha cantato quei giorni.
Personalmente ero colpita dal vigore della sua lirica. Come ho
scritto altrove (13)
amavo e amo quel Sentimento del tempo, spaziale e cosmico che s'accende
- tale è il lampo di una lama - nel pensiero e nel cuore. Ascoltare
Ungaretti mi dava una sensazione vibrante, come se un'acqua violenta
mi tumultuasse nell'intimo per donarsi, e per timidezza finisse
per nascondersi.
Sospinta dalla guerra, dalle esigenze di sopravvivenza e di lavoro,
mi resi conto che non avrei potuto portare a termine quel Perfezionamento
affrontato con solare entusiasmo.
Come tutte le necessità che dipendono da cause esterne, ne rimasi
mortificata e con il coraggio delle decisioni estreme - una giornata
luminosa rallegrava i corridoi e le finestre della Facoltà - mi
avvicinai a Ungaretti e gli consegnai le poesie che avevo pubblicato
su Quadrivio.
Ungaretti sorrise, un sorriso affilato e profondo come le onde
lunghe che s'incurvano senza spuma e consentì a leggere i versi.
L'incontro era quella rara grazia che avevo sempre desiderato potesse
toccarmi. Non mi rendevo conto se fosse realtà o la mia ardita fantasia
che si allucinava nell'ascoltare parole di speranza. Sconvolta e
felice sentivo fiorire un inconsapevole legame spirituale che apparve
più chiaro, generoso, inconfondibile, qualche tempo dopo, quando
Ungaretti mi ricevette nella sua accogliente e tranquilla casa in
Piazza Remuria, a San Saba. Il suo invito era una lenta frase e
già mi offriva la possibilità di seguire i suoi lunghi, vivissimi
e singolari discorsi. Un episodio che appartiene all'imponderabile
senso delle cose, che per fuggitiva magia ha assunto il volto della
poesia.
Nel semplice e sobrio salotto di Ungaretti che si affacciava sul
verde dell'Aventino, ho rivisto e anche conosciuto altri poeti,
scrittori e artisti, Guido Barlozzini e poi Luigi Siroli, giovanissimi
assistenti "ufficiali" del poeta. Una varietà di persone semplici
e di cultura: il simpatico Tanino Chiurazzi che aveva una Galleria
d'arte in via del Babuino, l'assiduo Leone Piccioni, Sandro Penna
più o meno esplicitamente insofferente del pianeta donna, Ornella
Sobrero molto bella e di forte ingegno, Pier Paolo Pasolini piuttosto
taciturno che avevo già incontrato combattivo a Palazzo Del Drago
nella prima riunione della rivista La strada, fondata e diretta
da Antonio Russi dal 1946 al 1947.
La valigia dei ricordi non ha fondo: sono stati tanti i famosi
"giovedì" così argutamente definiti da Barlozzini (14).
Il 18 marzo 1948, con un suo biglietto, Ungaretti mi presentava
a Giuseppe De Robertis e testualmente gli diceva che scrivevo poesia
"con vero dono" (15)
. Ma il rapido incontro con Giuseppe De Robertis risultò distaccato
e freddo ed Ungaretti se ne dolse forse più di me.
Firenze però mi ripagava con il cristiano consenso di Nicola Lisi,
che mi liberava dall'umidità pesante di quelle nere giornate. Egli
si offrì di presentarmi all'autrice della Sabbia e l'angelo con
la quale aveva anche rapporti di parentela. Nel marzo 1948, conobbi
Margherita Guidacci che mi accolse nella sua casa affastellata di
mobili antichi che, arricchendo l'ambiente, ne rendevano raccolta
l'atmosfera. E' un incontro quello con la Guidacci quasi favola
perché, pur stimandoci sempre negli anni, abbiamo avuto rare occasioni
di colloquio. Le nostre vite divergevano, ma simile all'erba sui
muri l'amicizia è rimasta intrepida e viva. Ne ebbi conferma nell'estate
del 1991, quando andai a farle visita nella sua casa romana. Trovai
una Guidacci combattiva, impedita sì dalla malattia ,ma lucida e
coraggiosa: era lietissima e stupita di chiacchierare con me. Ora
come Ungaretti, come Lisi, come Pasolini e altri, anche la Guidacci
è scomparsa. Ed io ritorno a pensare, come in quel caldo ferragosto,
al suo Inno alla gioia, alla vitalità umana e alla bellezza di quella
poesia che spinge l'amore oltre se stesso trasfigurandolo in uno
abbraccio cosmico.
Ma quale era la situazione della poesia negli anni Quaranta? La
poesia italiana nasceva nel solco di una tradizione pluridimensionale
che, pur avendo acquisito il linguaggio e lo stile dell'Ermetismo,
veniva mossa dall'esigenza di nuovi contenuti, di nuove forme e
riceveva travagliati e forti impulsi dalle tensioni ideologiche
maturatesi con la guerra e la Resistenza.
Nel campo artistico e letterario quell'esigenza di rinnovamento,
non solo espressiva, ma di attiva partecipazione umana che avevo
sentito fin dagli esordi come vitale problema e che, come Luigi
Diemoz onestamente aveva affermato, "circolava nell'aria": quell'esigenza
di rinnovamento, dicevo, con la fine della guerra si allargò, diventò
posizione comune, generazionale.
Non so se la mia iniziale esperienza sia stata diversa da quella
dei coetanei che più o meno in quegli anni cominciavano a scrivere,
a dipingere, ma Erasmo Valente affermatosi critico e musicologo,
Mario Di Pinto professore di letteratura spagnola noto internazionalmente,
Accrocca affermatosi poeta, Lionello Lanciotti illustre sinologo,
Armando Buratti, Renzo Vespignani ed altri giovani di talento li
ho conosciuti in quel periodo. Con Barlozzini ed altri tentammo
di pubblicare nel 1947 L'Ancile, una rivistina che si fermò al primo
numero e in copertina riproduceva un bel disegno di Buratti.
Il 4 giugno 1944 con la venuta degli alleati a Roma, vengono alla
luce nuovi periodici e giornali, i quotidiani uscirono in un primo
momento sotto il controllo americano, la carta era pessima e i refusi
abbondavano. Fra le riviste di cui potrei fare un lungo elenco (16)
va indicizzata Mercurio, apparsa nel settembre 1944. Era una rivista
politica, arte e scienze ed era diretta da Alba de Céspedes, antifascista,
squisita padrona di casa e soprattutto scrittrice molto brava, fin
dal 1938 nota anche sul piano internazionale, ma ora dimenticata.
Mercurio venne "ad innestarsi in quello spirito di unità resistenziale
che informava… anche il lavoro dei partiti… e la stessa attività
artistica e culturale". L'Italia era ancora divisa in Nord e Sud,
e la controprova appare nel denso fascicolo del dicembre successivo
che Mercurio dedicò alla lotta partigiana e, pertanto, vari collaboratori
firmarono con lo pseudonimo.
Il fermento culturale è, dunque, sofferto e nasce non dalla ricerca
di uno scomposto ritorno al reale, ma dall'aprirsi alla rappresentazione
dell'ambiente sociale, alle dimensioni civili, alle aspirazioni
spirituali delle diverse comunità e del proletariato. Il lavorìo
complesso e vivace risente della identità nazionale e cattura le
parlate regionali, gergali, quella della incipiente tecnologia e,
cercando una sua koiné, si sliricizza.
A Milano nel '45 Il Politecnico espresse in modo emblematico quel
rinnovato clima. Il Politecnico - durò fino al '47 - affrontò l'esigenza
di una cultura diversa da quella tradizionale, non più una cultura
che "consoli nelle sofferenze, ma una cultura che protegga dalle
sofferenze e le elimini".
Dedicata esclusivamente alla poesia, ma su posizioni degli anni
Trenta, nasceva Poesia di Enrico Falqui (1945-1949) con carattere
antologico-documentario come la consorella Prosa, diretta da Gianna
Manzini.
Nel 1949 si era affacciata Galleria, stampata a Caltanissetta ma
redatta a Roma, e come tale romana, spesso con numeri monografici
dedicati all'arte e alla letteratura, rivista tuttora vitale come
la rivista Idea, fondata nel1945 da Pietro Barbieri più volte rinnovata
e che conserva l'antica testata su orientamenti di spiritualità
cristiana.
Galleria e Idea sono le uniche sopravvissute, ma numerose sono
state le riviste e le Case editrici fiorite fra il Quaranta e il
Cinquanta ed esse restano rappresentative nel documentare i diversificati
atteggiamenti della vita culturale e politica di quegli anni (17).
Va però chiarito che a Roma non c'è mai stata nel dopoguerra, né
in seguito, una rivista aperta ai giovani di qualsiasi tendenza
e intesa nel senso comparativo di palestra letteraria: la stessa
Fiera Letteraria, risorta a Roma nel 1946, e altre riviste di carattere
più popolare e divulgativo, ci ospitano di rado, mentre da parte
nostra si faceva più acuto il bisogno di chiarire chi eravamo e
cosa volevamo, e più profonda si acuiva la richiesta di un'arte
aderente alla realtà nell'ambita sintonia di una ricerca espressiva
concreta ed efficace. Tuttavia non c'è stato scrittore o artista
della Quarta generazione che, almeno una volta, non abbia pubblicato
sulla Fiera Letteraria, dove fra gli altri, strinsi amicizia con
Luciano Luisi, Massimo Franciosa e Pasquale Festa Campanile che
lavoravano nella redazione.
Nella prospettiva di quegli anni, anche la redazione romana della
casa editrice Einaudi, che allora aveva la sua bella sede in via
degli Uffici del Vicario, presso Montecitorio, era frequentata da
intellettuali di sinistra: un giorno mi venne incontro il poeta
- sindaco Rocco Scotellaro che, con confidenziale semplicità, mi
pregava di presentargli una ragazza giovane da sposare. Scotellaro,
un bel poeta e narratore, anche lui dimenticato, era come lo descrive
sua madre, casalinga e artigiana di Lucania
(18), un ragazzo privo "di
un grande personale", ma con una "bella voce" e che usando abilmente
le parole, riusciva ad "incantare il popolo". Scotellaro morì poco
tempo dopo (1953).
Anche a quegli anni risalgono due luoghi antitetici e obbligati:
l'uno - casa Bellonci - che accoglieva un ristretto e volutamente
eletto numero di scrittori che poi formeranno il salotto degli "Amici
della domenica", l'altro una piccola casa-studio, in via Sabazio,
dello scultore Giuseppe Mazzullo, ove si avvicendavano e si mescolavano
con sconosciuti, o quasi ignoti autori, artisti e scrittori prestigiosi.
In questa casa dipinta di un rosso slavato dalla pioggia, aperta
come una stazione o fermata d'obbligo, si recava la Roma intellettuale
del momento: ne veniva fuori una realtà antiretorica, vivacissima
e si faceva la "colletta" per comprare il vino e alla somma sempre
modesta che ciascuno poteva dare si aggiungeva qualche sigaretta,
qualche oliva. E la "colletta" secondo la stagione allargava la
conversazione, il chiacchierio, le simpatie.
In questo antisalotto Giuseppe Ungaretti allungava la sua inconfondibile
risata, Cesare Zavattini, con il fervore della sua natura, sosteneva
l'idea di un foglio letterario da intitolarsi Sabazio 34 , Turi
Pandolfini cantava con la sua chitarra gli stornelli siciliani.
C'erano i collaboratori di Domenica, di Cosmopolita. A volte, il
pittore-professore Ivan Mosca - biondo - suonava la chitarra e il
pittore Casotti - bruno - si abbandonava con meridionale dolcezza
alla sua fisarmonica. Il duetto degli strumenti giocava in sordina
il suo ruolo insinuante. Si criticava un libro, un saggio, un articolo;
si scambiavano confidenze. L'atmosfera, tesa come una corda bagnata
fra la musica e il vocìo, diveniva calda, animata e su tutto e tutti
si levava, a scatti, la parola del pittore e poeta Sebastiano Carta,
anche lui dimenticato.
L'ambiente sembrava un vivente quadro fauve. Una volta giunse e
si fermò in incognito Paul Eluard, il famoso poeta di Libertè.
Da quanto sono venuta esponendo è evidente che Roma, con la fine
della guerra, era divenuta una città-simbolo ben ricca di fermenti
e quasi euforica: soprattutto negli ambienti culturali serpeggiava
una atmosfera nuova, mossa da slanci generosi, un po' rari fra persone
amanti della battuta scherzosa, pungente, maliziosa. In piazza di
Spagna, da Babington, continuavano ad incontrarsi Bruno Barilli
e Vincenzo Caldarelli, Giacomo Natta e Luigi Diemoz, Bruno Fonzi
e Velso Mucci che dirigeva una rivista problematica come Il costume
politico e letterario (1945-1950). Al gruppo si aggiungevano saltuariamente
Alfredo Zennaro, Blasi, Nicola Ciarletta, Marcello Pagliero e altri
giornalisti che amavano discutere vivacemente di letteratura, di
teatro e di politica. Erano intellettuali di varie tendenze: anarchici
e comunisti, socialisti, liberali e individualisti e, fra battute,
paradossi, fra notabili e antinotabili, l'intelligenza scintillava
come scossa da un invisibile maglio. I convitati erano sempre pronti
allo scontro, fra una tazza di tè e, chi poteva permetterselo, un
pasticcino. Si viveva di carne in scatola, di latte, di pane raffermo,
di castagnaccio, di noccioline, di olive, di castagne arrostite
e sigarette fatte a mano. Erano mesi di dignitosa povertà, e dopo
tante sofferenze e amarezze, erano densi di iniziative fluttuanti
fra gli estremi lampi di una bohème che stava per scomparire. L'unica
certezza era l'essere vivi, l'essere in buona salute. Si cercava
un lavoro e si avevano cento idee.
Come ho accennato ero giovanissima, inesperta, intimamente sollecitata
dalla quotidianità disarticolata e difficile di quel periodo ma
tesa alle espressioni dell'arte e della poesia. Lavoravo, e di rado
mi recavo a Piazza di Spagna. In una breve sosta da Babington fui
presentata a Cardarelli, e mi sembrò naturale conoscerlo senza avvertirne
soggezione se non quella di una giovane ai suoi esordi. Cardarelli
lo intuì e con benevolenza cercava di calettare il mio pensiero
e l'attenzione generale un po' statica su cui scivolavano a ventaglio
le parole degli altri. Percepivo ritmi diversi mentre l'iconoclastico
orologio della sala spingeva la ruota del tempo.
"Appartenere al cerchio di Cardarelli era più e meno che avere
certi gusti in letteratura, era una milizia; in certo modo, come
nel '600, quella pro e contro Tasso", suggerisce Eurialo De Michelis
(19).
Un accostamento persuasivo, anche se, nel secondo dopoguerra, Cardarelli
si era allontanato da quel suo fascinoso, amato tempo "primo" (20)
. Nella sua esistenza "avventurosa senza avventure", nella sua irripetibile
vita letteraria bohémienne (morì povero nel 1959), Cardarelli aveva
favorito il formarsi di una specie di "mito" intorno a sé e al suo
carattere, ma negli anni Quaranta egli era ormai solo, disilluso,
pressato da problemi pratici e di salute.
Quando nel 1949 prese a dirigere La Fiera Letteraria che sia pure
nominalmente diresse fino al 1955, Cardarelli, era fisicamente condizionato
da una malattia ai centri nervosi che non gli consentiva quasi più
di lavorare, gli era di sollievo avere per amico un poeta colto
e semplice come Marino Piazzolla, cui egli aveva affidato la rubrica
"Critica di poesia" della Fiera.
Ogni tanto andavo a salutare Cardarelli e gli facevo gustare la
focaccia di patate e farina lievitate (kukù) o altra ghiottoneria
che a lui non dispiaceva. Egli apprezzava le mie rapide apparizioni.
Collaboravo anche alla Fiera.
Quando andai a ringraziarlo di aver pubblicato sulla rivista la
riproduzione del mio ritratto in bronzo dello scultore Giuseppe
Mazzullo (21)
che aveva vinto il Premio Reggio Calabria, egli mi disse: "E' un
bel ritratto da principessa sveva". E quel suo giudizio così lapidario
e vero mi è rimasto dentro per sempre.
Dopo l'estate del '50 tornai a far visita a Cardarelli che nel
ringraziarmi dell'invio di mie cartoline aggiunse distaccato e perentorio:
"Anche Piazzolla mi ha spedito cartoline. Ma è di voi pugliesi eclissarvi
e scomparire?".
Gli era dispiaciuta la nostra assenza prolungata, gli riusciva
strana quella presente assenza (22)
testimoniata soltanto da saluti epistolari. In quel momento gli
sfuggiva il senso profondo dell'amicizia disarticolata nel tempo,
eppur viva negli anni, tipica della gente mediterranea. Il rimprovero
di Cardarelli muoveva da un inconscio bisogno di affetto e lo ritenevo
assurdo, anche se lo giustificavo con le necessità di ogni giorno
che rendono imprevedibili le azioni e gli atteggiamenti degli uomini,
tanto più dei poeti e degli artisti.
Ho lavorato per alcuni anni lontano da Roma e non ebbi l'opportunità
di raccontare l'aneddoto a Marino Piazzolla che forse avrebbe solo
sorriso. Ora fuori del tempo si accompagnano insieme l'"erebico"
(23)
Cardarelli e il visionario Piazzolla.
A Roma, dunque, la vita culturale era intensa e pur disarticolata.
E del resto, scrittori d'orientamento democratico che si erano già
impegnati sulla rivista Mercurio, ebbero un nuovo punto di riferimento
e di prestigio nella rivista Il Mondo, che nasceva nel 1949 diretta
da Mario Pannunzio.
Il critico letterario del Mondo era Arnaldo Bocelli, che aveva
diretto la Nuova biblioteca italiana dell'editore Tumminelli, una
fortunata collezione dal colore rosso che aveva suscitato curiosità:
il primo volume, La vedova timida di Bonaventura Tecchi, fu pubblicato
nel 1941 e l'ultimo, il Foscolo minore di Mario Fubini, nel 1949.
Nell'ambita collezione si segnalarono giovani o esordienti come
Francesco Jovine con Signora Ava , Mario Tobino con i racconti La
gelosia del marinaio, Anna Banti con Le monache cantano che era
già alla sua terza prova.
Vi furono riproposte opportune raccolte come Le liriche, di Arturo
Onofri a cura dello stesso Bocelli e di Girolamo Comi ed opere di
contemporanei ben noti come gli Studi su D'Annunzio di Pietro Pancrazi.
Dall'esame della produzione delle collane di quel periodo o poco
dopo si evince, ad esempio, che il cosiddetto risvolto di copertina
compare per la prima volta proprio nella collezione rossa di Tuminelli
ricca di 35 volumi. Una curiosa segnalazione questa da ratificare
fra le piccole note della nostra storia culturale, spesso disattenta
a fenomeni che sembrano marginali e che pur formano la sottile filigrana
dell'evolversi del pensiero e del costume. Oltre la Nuova biblioteca
italiana Bocelli, dando implicita conferma a quanto aveva riconosciuto
Attilio Momigliano che lo definiva veramente "impareggiabile direttore
di collezioni", prese a dirigere dal 1957 fino al 1974, anno della
sua morte, la collezione Aretusa, che continua regolarmente ad essere
pubblicata, sempre presso l'editore Sciascia, per le cure di Mario
Petrucciani.
Ora il mio incontro con Arnaldo Bocelli si determinò perché egli
recensì sul Mondo, Nero amore rosso amore (24).
Non conoscevo Arnaldo Bocelli: egli era un critico cui avevo inviato,
come ad altri, una copia del volume.
Ogni autore sa quanta importanza abbia nella propria storia l'opera
prima ed io, non sperando, speravo che qualche critico influente
parlasse di quel mio primo libro. Così provai quell'indefinibile
sensazione magistralmente resa da Giuseppe Ungaretti: "non ci pare
bella che quella cosa che arrivi ad un ordine: ciò che è stato,
è stato per sempre, è divenuto patrimonio della mente".
Conobbi di persona il critico del Mondo più tardi all'Enciclopedia
Italiana Treccani, dove era uno dei redattori e, durante il corso
degli anni, quella stima appena nata fiorì e si rafforzò in una
schietta amicizia tale da indurre Bocelli a designarmi sua esecutrice
testamentaria (25).
Arnaldo Bocelli, vedovo e senza figli, perseguì e maturò nel tempo,
l'idea di lasciare in dono i propri libri all'Angelica, la bellissima
biblioteca statale di Roma. Una generosità che rispecchiava la natura
schiva, all'apparenza severa di Bocelli che, da piacevole conversatore
qual era, era solito inserire nei suoi discorsi l'aneddoto e far
scoccare la scintilla di un istintivo humour debordante nell'ironia.
Egli ricordava le sue origini emiliane, ma si considerava romano
"più del Cupolone" (26)
- era nato a Roma il 1° giugno 1900 - e se ne compiaceva nello stesso
modo con cui traeva diletto dalla amata lettura del Belli.
Ora, i libri di Bocelli costituiscono il Fondo Bocelli dell'Angelica:
una raccolta che ha un fondamentale carattere documentario, in quanto
parecchi testi narrativi e poetici - in edizioni fuori commercio
o in tiratura limitata - sono irreperibili anche in antiquariato.
Ciò che appare, è cronaca della cultura, ma che durante gli anni
diventa storia e materiale informativo e formativo della cultura
stessa e costituisce uno degli aspetti più utili e concreti del
lascito Bocelli, concupita delizia dei lettori. I quali, in una
biblioteca come l'Angelica, specializzata in letteratura italiana
con particolare attenzione al periodo fra Quattrocento e Settecento,
possono opportunamente "giovarsi di quella letteratura che per essere
detta amena, anche quand'è serissima…, difficilmente viene acquistata
dalle biblioteche di studio" (27).
Nell'anno accademico 1979-'80 l'Arcadia Accademia Letteraria Italiana,
che ha sede nell'Angelica, decise di ricordare il suo socio ordinario
Arnaldo Bocelli: il discorso, molto bello e articolato, fu tenuto
dallo scrittore Eurialo De Michelis, anche lui arcade, critico acuto
e documentatissimo (28).
E, in concomitanza, l'Angelica inaugurò la singolare mostra che
era venuta preparando sul tema Con dedica dell'autore e che consisteva
in una scelta di libri e autografi del Fondo e insieme di saggi
critici, documenti e lettere di/a Bocelli.
Il successo della manifestazione, il carattere direi unico della
scelta bibliografica e gli incuriositi visitatori sollecitarono
a pubblicare l'elenco completo di libri con dedica e, la direttrice
del Tempo, Candida Visco Romiti, pensò di farne un catalogo insolito
ed esemplare. Catalogo che, stampato nel 1982 (29),
riportava i volumi che poeti, narratori, critici e studiosi inviarono
a chi "ebbe il coraggio di nessun libro" (30).
Per l'eccessivo costo tipografico le dediche non furono trascritte
nel catalogo, ma chi vuole approfondire la ricerca e godere una
lettura inconsueta, immediata, piacevole, il libro con dedica è
subito accessibile.
Questa la storia di un'amicizia culturale, partecipe anche ai fini
della pubblicazione dell'opera postuma di Bocelli, Letteratura del
Novecento, finora in due volumi o serie, edita presso Sciascia (31)
con l'affettuoso contributo della scelta dei testi e delle note
introduttive e critiche dell'amico Eurialo De Michelis, il quale
curò una terza raccolta postuma di Bocelli, Posizioni critiche del
Novecento (32).
Data la vastità del tema ho potuto soffermarmi soltanto di scorcio
e per accenni su maestri e amici e, appena sfumare, qualche altra
personalità di indiscusso valore.
Ma prima di concludere desidero mettere a fuoco un lontano affiatamento
letterario cui risale l'incontro con Giorgio Petrocchi. Un gruppo
di letterati e poeti frequentava anche il "Rampolli", uno strano
caffè in stile liberty scomparso da tempo vicino a Piazza di Spagna.
L'asse portante di questa saltuaria letterarietà era lo scrittore
e critico Giambattista Vicari che con acribia tutta nordica cercava
di condurre in porto le sue rivistine, in mancanza di piccole edizioni.
Fonderà nel 1953 Il Caffè che per anni ha condotto un'azione di
rottura per sostenere una letteratura eccentrica, grottesca e satirica.
Tuttavia in quel piccolo lasso di tempo al caffè Rampoldi Vicari
riuscì a stampare un minuscolo ma curatissimo foglietto color paglierino,
una insolita rarità, delizia certa di bibliofili, ove io stessa
pubblicai alcuni versi e che, purtroppo, è andata dispersa.
Al gruppo - c'era fra gli altri il critico d'arte Marcello Venturoli,
lo scrittore Libero Biagiaretti, il poeta Giorgio Bassani - si accompagnava
Giorgio Petrocchi, bello da fare invidia a Enrico Falqui del quale
sembrava essere la controfigura, ma fin d'allora serio al punto
di dare l'impressione di essere distaccato. Petrocchi, invece, sapeva
dominarsi: una qualità eccellente, piuttosto rara, che ho potuto
poi constatare negli anni Settanta, quando, dopo la scomparsa di
Aldo Ferrabino, Petrocchi divenne presidente del Centro Nazionale
per le Biblioteche Italiane e per le Informazioni bibliografiche.
Un Centro che era sorto nel 1951 a Roma per realizzare gli strumenti
idonei a porre a disposizione degli studiosi il prezioso materiale
posseduto dalle biblioteche italiane. Un Centro all'avanguardia
dei problemi tecnici e bibliografici che, in seguito a promozione,
ero andata a dirigere fra gli anni 1973 e 1976.Una amichevole coincidenza
di lavoro che, pur saltuariamente, mi consentiva di avere con Giorgio
Petrocchi un discorso culturale sia pure biblioteconomico. Del resto
nel concorso sostenuto come bibliotecario, anni prima, Petrocchi
si era classificato primo. E primo egli è stato sempre: nella filologia,
nella critica e nell'interpretazione testuale, nella metodologia
e nell'appassionato rapporto con gli allievi, i colleghi, gli amici.
Basta scorrere la sua bibliografia risalente ad una adolescenziale
attività che dall'iniziale campo musicologico si orienta poi verso
quello critico e filologico; attraversando anche il momento creativo
con La carità(33),
romanzo che vinse il premio Vendemmia. Ma forse la vera natura di
Petrocchi è quella "dell'itinerante e dell'interrogante" (34)),
come ha felicemente delineato Lia Fava Guzzetta. Infatti gli incontri
di Petrocchi con gli autori non sono stati mai casuali, anzi spesso
vengono riproposti e formano quel vivo dialogo o quel continuum
che è particolare dello studioso Giorgio Petrocchi. Basta l'esempio
del suo legame con Dante e delle conclusioni cui egli perviene e
sulle quali potrà costruire l'edizione critica della Commedia e
scrivere una Vita del poeta.
Lasciando ai più abili esegeti una critica capillare dell'enorme
lavoro da lui svolto, desidero affidare il ricordo di Petrocchi,
pensoso lettore della poesia di Dante a questi luoghi, che io scopro
per la prima volta e che passo passo riconducono a Dante e al suo
poema.
E, spontaneo, sorge il raffronto fra la poesia della Commedia,
monolitica e sfaccettata, quali aggettate pietre di un'altissima
piramide e la poesia "diversa" di oggi. Così per l'incalzare dei
giorni che ci coinvolgono, nulla come l'Inferno di Dante mi sembra
che possa rispecchiare la nostra triste sorte, la turbinosa giornata,
la quotidiana "bufera".
Note
(1)E. Flaiano, Solitudine del satiro, Milano, Rizzoli,1973
riprendi la lettura
(2) V. Cardarelli, Lettere
non spedite, Roma, Astrolabio, 1946
riprendi la lettura
(3)V. Caldarelli, Epistolario
(1907-1929), Tarquinia, Lions Club, 1978
riprendi la lettura
(4)S. Aleramo, Diario 1904
- 1944, Roma, Tumminelli, 1945, cui fece seguito - postumo - Il
diario di una donna. Inediti 1945 - 1960, a cura di A. Morino, Milano,
Feltrinelli, 1978.
riprendi la lettura
(5)N. Savarese, Cronachetta
siciliana dell'estate 1943, Palermo, 1945, ripubblicata da S. Sciascia,
Caltanissetta - Roma, 1963.
riprendi la lettura
(6)M. Valsecchi., in un testo
critico del 1958, cfr. Aurelio De Felice, Mostra antologica, con
prefazione di Cesare Vivaldi, Roma, editrice del Carretto, 1979,
p. 226, id. p. 8.
riprendi la lettura
(7)B. Marniti, Più forte è
la vita, pref. di G. Ungaretti., "Lo Specchio", Milano, Mondadori,
1957.
riprendi la lettura
(8)O. Sobrero, L'infini contre
rien, in Letteratura, n. 35 - 36, pp. 358 - 359.
riprendi la lettura
(9)G.Ungaretti, Vita di un
uomo. Saggi e interventi, a cura di Mario Diacono e Luciano Rebay,
Milano, Mondadori, 1986, IV ed., p.948, p. 430 -450 ove è riportato
il seguito del discorso con il titolo Immagini del Leopardi e nostre,
quale fu pubblicato in Nuova Antologia, Roma, a. 78, fasc. 1702,
16 febbraio 1943, pp. 221 - 232, ma acefalo dell'inizio qui riproposto.
riprendi la lettura
(10) G. Bartolozzini, Il professor
Ungaretti, in Atti del Convegno Internazionale su G. Ungaretti,
Urbino, 3-6 ottobre 1979, Ed. 4 Venti, 1981, vol. I,. pp. 381-395.
riprendi la lettura
(11)G. Ungaretti, "Mio fiume
anche tu", in Vita d'un uomo. Tutte le poesie, a cura di L. Piccioni,
Milano, Mondadori, 1969, pp. 228-230.
riprendi la lettura
(12) G. Ungaretti, "Non gridate
più", in Vita di un uomo. Tutte le poesie, op. cit., p. 236.
riprendi la lettura
(13)B. Marniti, "Poesia e
generosità di Ungaretti, in Letteratura", op. cit., pp. 354-355
e "Saluto", in Atti del Convegno Internazionale su G. Ungaretti,
op. cit., vol. I, pp. 23-24.
riprendi la lettura
(14)G. Barlozzini, Il professor
Ungaretti, op. cit.,p.386.
riprendi la lettura
(15)G. Ungaretti, G. De Robertis,
Carteggio 1931-1962, a cura di D. De Robertis, Milano, Il Saggiatore,
1984,p. 116.
riprendi la lettura
(16)A Roma nel 1944 oltre
Mercurio, apparvero Nuova Europa e Domenica, a Napoli Aretusa che
ebbe vita fino al 1946. Nel 1945 oltre Idea apparvero Comunità,
Cosmopolita, Alfabeto e Società che ebbe vita fino al 1961. Oltre
L'ancile nel 1947 apparvero Risorgimento liberale, Ulisse e Rassegna
di cultura e di vita scolastica, nel 1948 Botteghe oscure, che ebbe
vita fino al 1960 e Lo spettatore italiano di ispirazione laica
e democratica che durò fino al 1956. Nel 1947 come organo del "centro
internazionale di comparazione e sintesi" diretto da Maurizio Raffa
era stata fondata Responsabilità del sapere, mentre nel 1949 sorgeva
La via, diretta da Igino Giordani, e fra le vecchie testate riprendevano
il loro peso La Fiera Letteraria che, sospesa nel 1936 ritornò nel
1946 e, dopo rinnovati propositi di libera informazione e di cultura,
sospese definitivamente le pubblicazioni nel 1977 e la Nuova Antologia,
tuttora sulla breccia. A Torino nel 1948 nasceva Momenti, poi La
situazione.
riprendi la lettura
(17)Cfr. la voce Riviste
letterarie in Italia, nel Dizionario della letteratura mondiale
del '900, vol. 3, Roma, Ed. Paoline, 1980.
riprendi la lettura
(18) "Dalla nascita alla morte
di Rocco Scotellaro", in R. Scotellaro, Contadini del Sud, Bari,
Laterza, 1954, p. 232.
riprendi la lettura
(19) E. De Michelis, Senza
un dialetto Cardarelli soffriva, in "Il Giornale d'Italia", 15-16
luglio 1961.
riprendi la lettura
(20) S. Caronia, L'usignolo
di Orfeo, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1990, p. 104.
riprendi la lettura
(21)Il Ritratto in bronzo
di Giuseppe Mazzullo si conserva presso la fondazione Mazzullo nel
Palazzo dei Duchi di Santo Stefano a Taormina.Cfr. S. Caronia, L'usignolo
di Orfeo, cit. pp. 286-287; 302-304.
riprendi la lettura
(22)"Presente assenza", titolo
di una mia poesia sul tema dell'assenza pubblicata in Il cerchio
e la parola, p.42, Caltanissetta-Roma, Sciascia,1979.
riprendi la lettura
(23)P. Bigongiari, Cardarelli
rivisitato. Relazione introduttiva al Convegno di Tarquinia in occasione
della nascita del centenario di V. Cardarelli (1987).
riprendi la lettura
(24) B. Marniti, Nero amore
rosso amore, con 6 disegni di G. Omiccioli, Milano, Fiumara, 1951,
ed. numerata di 200 esemplari.
riprendi la lettura
(25) B. Marniti, "Il fondo
Bocelli all'Angelica di Roma (Storia di un lascito )", in Ricerche
letterarie e bibliografiche in onore di Renzo Frattarolo, Roma,
Bulzoni, 1986, pp. 257-269.
riprendi la lettura
(26)A proposito del "Rugantino"
di Antonio Baldini così il professore Antonio Bonadies definiva
l'autore; felice espressione che mi pare valida anche per Bocelli
(cfr. B. Marriti, Dal carteggio Baldini-Bocelli. Storia di "Rugantino"
in Accademie e biblioteche d'Italia, a. LI., n. 2, 1983, pp. 127-135.
riprendi la lettura
(27)Cfr. E. Sormani, Con
dedica dell'autore…, Presentazione della Mostra omonima allestita
nella Biblioteca Angelica di Roma, 4 dicembre 1979 - 10 gennaio
1980 (dépliant illustrativo, Roma, fratelli Palombi, 1979, 24°,
pp. 8, 1 ritr.: china inedita del 1944 di Orfeo Tamburi che ritrae
il Bocelli quarantenne).
riprendi la lettura
(28)La conferenza La critica
di Arnaldo Bocelli, tenuta da E. De Michelis nel suggestivo salone
dell'Angelica il 4 dicembre 1979, venne pubblicata negli Atti e
Memorie dell'Arcadia, Roma, 1979, s. III, vol. VII. Fasc. 3, pp.
1-20.
riprendi la lettura
(29)Biblioteca Angelica,
Roma, Con dedica dell'autore. Gli autografi del fondo Bocelli. (Premessa
di Candida Visco Romiti. Una rosa per Bocelli di Elsa Sormani).
Roma, 1981, Firenze. Tipografia della Biblioteca Nazionale Centrale
di Firenze, 1982, pp. 164, 1 ritr. e 2 tav. num. nel testo (Cinquecento
esemplari).
riprendi la lettura
(30)Cfr. F. Virdia, "La scomparsa
di Arnaldo Bocelli". "Il coraggio di nessun libro", in La voce repubblicana,
3 dicembre 1974.
riprendi la lettura
(31)Nel 1975, tenendo fede
da quanto da noi promesso all'editore Sciascia, venne pubblicata
in Aretusa, 34, una prima serie di 64 saggi di Bocelli, giunta presto
alla seconda edizione, riveduta e accresciuta con altri 6 saggi,
nel novembre 1977. Una ristampa di questa seconda edizione si ebbe
nel gennaio 1979. La seconda serie è uscita nel 1980 sempre da Sciascia,
in Aretusa, 39, con gli stessi criteri della prima con 89 saggi
disposti per ordine cronologico degli autori in quattro sezioni,
"di cui le prime tre arricchiscono le corrispondenti del primo volume,
mentre la quarta comprende gli scrittori delle generazioni successive,
fino ai nati nel 1938"
riprendi la lettura
(32) A. Bocelli, Posizioni
critiche del Novecento, a cura di Eurialo De Michelis, Roma, Palombi,
1979, pp. 284, "Quaderni dell'Accademia dell'Arcadia, n. 6", comprende
i saggi di Bocelli sui critici e i suoi interventi che affrontano
generaliter i problemi "sottostanti e coevi", insieme con altri
tre riguardanti "il proprio modo di accostarsi ai libri" e "far
critica".
riprendi la lettura
(33)G. Petrocchi, La carità,
Torino, De Silva, 1948, p.181. (Uno dei membri della Commissione
del premio Vendemmia era Arnaldo Bocelli).
riprendi la lettura
(34)Lia Fava Guzzetta, Giorgio
Petrocchi: il letterato, il maestro, prolusione all'apertura dell'Anno
Accademico 1989-'90 dell'Istituto Universitario Pareggiato di Magistero
"Maria SS. Assunta" di Roma, cfr. Annuario 1989-'90,pp. 27-47.
riprendi la lettura