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Trieste la diversa
Divagazioni e ricordi di un transfuga

di Roberto Pagan

 

 

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Chi percorra la costiera a picco sull'Adriatico che da Duino porta verso Trieste, con l'azzurro del mare sulla destra e la roccia del Carso che preme sulla sinistra, mentre all'orizzonte si profila il dado zuccherino del Castello di Miramare - il "nido d'amore" di Massimiliano e Carlotta, così popolato di romantiche leggende - avverte, anche fisicamente, che quello che si avvicina è un mondo diverso. E diversa è Trieste, fisicamente, ancora oggi, con le sue architetture un po' grigie, così borghesi e ottocentesche, tanto lontane dai colori pastello delle città venete ariose e ridenti, più simile se mai a una Graz o a una Zagabria: ancora oggi una città mitteleuropea, senza gli splendori di Praga, la grandeur di Budapest, il fasto imperiale di Vienna. Non è, ben inteso, una città austriaca, ma certo paga uno scotto al suo passato, per certi aspetti anche glorioso, di porto franco e di capitale marinara dell'impero asburgico.
Una città di cui la televisione nazionale, grazie a Dio, non si occupa mai, se non forse per qualche episodio legato al contrabbando o all'immigrazione clandestina. Così, nell'immaginario dell'italiano medio, Trieste, se esiste, viene associata a un limbo che vagamente si situa tra Venezia e qualche cosa che sta più in là, di solito definito con sbrigativa apocope Friuli, per via della regione amministrativa, storicamente astratta e culturalmente assai ibrida, che va sotto il nome di Friuli-Venezia Giulia. Che poi all'italiano medio - romano, toscano, napoletano - importi poco o molto sapere che senso abbia quel trattino tra le due espressioni geografiche, che in realtà separa due tradizioni diversissime tra loro, l'una agricola e campagnola, l'altra marinara e mercantile, questo è diverso discorso. L'italiano televisivo non sa, né se lo domanda.
Ora, la percezione di una lontananza della patria italiana, di un'indifferenza o di un distratto oblio che fa dell'Italia, almeno agli occhi dei triestini, una madre ideale e una noverca quanto alla realtà politica ed economica, è stata (ed è ancora in una certa misura) motivo di frustrazione e tormento che ha lasciato segni vistosi nella psicologia e nella vita culturale della città.
Sul senso della propria identità la cultura triestina si è arrovellata per più generazioni, dei suoi dubbi e dei suoi traumi si è anzi alimentata, reagendo, di volta in volta, con inquieta passione, ironico disincanto, orgogliosa ritrosia.
Del resto, fin dalla grande stagione di Svevo, di Saba, di Slataper, degli Stuparich, lo stesso essere scrittori, e scrittori italiani per giunta, in quel mondo multietnico a vocazione prevalentemente mercantile, in un contesto politico - l'impero austro-ungarico - estraneo alle loro aspirazioni ideali, era di per sé motivo di interna conflittualità, che interessava la sfera pubblica come la vita privata dei singoli. Si aggiunga la mancanza di vere tradizioni umanistiche e letterarie nel tessuto culturale della città, la marginalità rispetto ai centri della grande produzione intellettuale italiana, la scarsa consistenza di un pubblico che potesse sostenerli col proprio consenso, e - di contro - la diffidenza più o meno palese delle autorità austriache nei loro confronti. Altro fattore di insicurezza, e non certo di poco momento, la stessa difficoltà di maneggiare con padronanza una lingua che di fatto in città non era comunemente parlata - essendo il dialetto triestino la koiné in cui piuttosto si riconoscevano e si amalgamavano le varie etnie nella comunicazione quotidiana.
Non è qui il caso di esaminare partitamente come ognuno di questi intellettuali reagisse alla contraddittorietà di tanti elementi. Certo un Saba e uno Svevo sono più portati a spostare e risolvere tali tensioni sul piano delle loro private inquietudini.
Saba, che percepisce forse più miticamente contraddizioni e diversità, tende a ontologizzarle, per così dire, nella stessa "aria natia", che tout court diventa "un'aria strana, un'aria tormentosa". Il dissidio è innanzi tutto per lui, di madre ebrea e di padre ariano, quello intimo delle "due razze in eterna tenzone" che egli sente rinnovarsi implacabile nella sua psiche lacerata: da una parte l'oscura laboriosa mediocrità dei piccoli mercanti del ghetto cittadino tra cui annovera i suoi parenti materni; dall'altra la fantasia transfuga ed eslege di un padre dagli occhi azzurri, aereo come una nuvola, cui per molti aspetti crede di assomigliare. La dialettica è, così, interna alla sua memoria cosciente; e anche del subconscio, quando, tra i primi a incrociare il freudismo, vorrà risalire alle stagioni aurorali della sua esistenza.
Ma c'è anche, in Saba, oltre alle sue private ragioni d'inquietudine, la consapevolezza di un ritardo culturale, che del resto i suoi primi critici, con accademica supponenza, non perdono occasione per rinfacciargli. Le accuse di romanticismo attardato, di piccolo pascolismo, di crepuscolarismo lo feriscono particolarmente. Egli avverte il respiro per così dire epico di quello che non esita a chiamare il suo "canto": e Canzoniere sarà poi infatti il titolo complessivo della sua opera in versi, a mano a mano che negli anni cresce su se stessa, di raccolta in raccolta. Anche se poi in Storia e cronistoria del Canzoniere Saba ammette l'arretratezza e il provincialismo della sua formazione, fornendone una giustificazione storica e geografica." Dal punto di vista della cultura" - dirà con parole che ormai sempre si citano - "nascere a Trieste nel 1883 era come nascere 'sull'altra sponda' nel 1850".
Quanto alla lingua, dice di aver avuto sempre "una naturale disposizione all'uso dell'italiano". Ma quale italiano? possiamo chiederci. Come non accorgersi che la lingua di cui Saba si serve è quella della tradizione poetica aristocratica, che passa per Petrarca e Leopardi, e che per lui è, d'istinto e per la sua formazione di autodidatta, la lingua della poesia, sic et simpliciter? Ed è la stessa tradizione da cui deriva pure accenti, ritmi e colorito.
Che la patina esteriore sia quella, che ci sia qualcosa di antiquato, di scolastico, di ingenuo, di troppo sonoro e canoro nella versificazione di Saba, chi potrebbe negarlo? E Saba allora si arrocca in difesa, si fa un titolo di vanto di aver ritrovato il filo d'oro della letteratura italiana, di aver saputo rinnovare - a conferma della sua apertura verso una dimensione popolare dell'arte - la rima "fiore-amore, la più antica e difficile del mondo".
Naturalmente soltanto in prospettiva, e per così dire col senno di poi, oggi possiamo scorgere quanto di peculiare e di innovativo - anche sul piano ritmico e formale - c'era nei versi di un poeta apparso per troppi anni non più che un epigono provinciale del romanticismo. E questo anche nella sua Trieste, austriaca prima, italiana poi, più ancora forse che altrove. Quando Saba per esempio entrerà in contatto con quella che egli stesso chiama la famiglia della "Voce", la celebre rivista fiorentina di inizio secolo, è noto che le diffidenze maggiori, i consensi più tiepidi gli vennero proprio dai suoi conterranei, a cominciare da Slataper, la cui cultura era più aggiornata, più criticamente consapevole, più in linea con la sensibilità corrente. E Saba, deluso, chioserà: "ero tra lor di un'altra specie".
Nemo propheta in patria. Anche Svevo incontra nella sua città, nella sua stessa famiglia (con l'unica eccezione del fratello Elio), solo contrarietà o, peggio, indifferenza. Almeno i due suoi primi romanzi passano inosservati o destano solo perplessità. Anche nel suo caso, ci si ferma all'esteriorità, al grigiore così poco accattivante della sua pagina, alla goffaggine di qualche espressione antiquata, a qualche innegabile intoppo sintattico. La sua lingua sembra a volte quasi modellata su un originale straniero, il giro della frase quasi pensato in dialetto. Figurarsi, a quei tempi, i lettori educati su D'Annunzio!
Solo molto più tardi, all'uscita del terzo capolavoro, e per merito soprattutto di stranieri, si saprà cogliere tutta la modernità di quella prosa disadorna, lo spessore intellettuale che la sorregge, l'acutezza dell'indagine psicologica, la disincantata saggezza, la sottigliezza dell'ironia. Solo oggi Svevo è stato assunto nel pantheon, tra i classici del decadentismo. E neppure oggi si può dire che i suoi ormai così divulgati romanzi (quante edizioni tascabili e popolari di Senilità e della Coscienza in questi ultimi vent'anni!) siano veramente letti e amati da un pubblico vasto.
Allora, nella sua Trieste asburgica, nel suo mondo mercantile e borghese, un po' ebraico e un po' tedesco, che conosceva molte lingue ma nessuna bene e presso il quale l'unica arte veramente apprezzata era la musica (grazie al benemerito costume, così nordico e mitteleuropeo, del musizieren, del far musica in casa), questo "dilettante di genio" aveva avuto di che arrovellarsi sui problemi della scrittura e sulle sue stesse capacità di scrittore

 

 

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