Chi percorra la costiera a picco sull'Adriatico che da Duino porta
verso Trieste, con l'azzurro del mare sulla destra e la roccia del
Carso che preme sulla sinistra, mentre all'orizzonte si profila
il dado zuccherino del Castello di Miramare - il "nido d'amore"
di Massimiliano e Carlotta, così popolato di romantiche leggende
- avverte, anche fisicamente, che quello che si avvicina è
un mondo diverso. E diversa è Trieste, fisicamente, ancora
oggi, con le sue architetture un po' grigie, così borghesi
e ottocentesche, tanto lontane dai colori pastello delle città
venete ariose e ridenti, più simile se mai a una Graz o a
una Zagabria: ancora oggi una città mitteleuropea, senza
gli splendori di Praga, la grandeur di Budapest, il fasto
imperiale di Vienna. Non è, ben inteso, una città
austriaca, ma certo paga uno scotto al suo passato, per certi aspetti
anche glorioso, di porto franco e di capitale marinara dell'impero
asburgico.
Una città di cui la televisione nazionale, grazie a Dio,
non si occupa mai, se non forse per qualche episodio legato al contrabbando
o all'immigrazione clandestina. Così, nell'immaginario dell'italiano
medio, Trieste, se esiste, viene associata a un limbo che vagamente
si situa tra Venezia e qualche cosa che sta più in là,
di solito definito con sbrigativa apocope Friuli, per via della
regione amministrativa, storicamente astratta e culturalmente assai
ibrida, che va sotto il nome di Friuli-Venezia Giulia. Che poi all'italiano
medio - romano, toscano, napoletano - importi poco o molto sapere
che senso abbia quel trattino tra le due espressioni geografiche,
che in realtà separa due tradizioni diversissime tra loro,
l'una agricola e campagnola, l'altra marinara e mercantile, questo
è diverso discorso. L'italiano televisivo non sa, né
se lo domanda.
Ora, la percezione di una lontananza della patria italiana, di un'indifferenza
o di un distratto oblio che fa dell'Italia, almeno agli occhi dei
triestini, una madre ideale e una noverca quanto alla realtà
politica ed economica, è stata (ed è ancora in una
certa misura) motivo di frustrazione e tormento che ha lasciato
segni vistosi nella psicologia e nella vita culturale della città.
Sul senso della propria identità la cultura triestina si
è arrovellata per più generazioni, dei suoi dubbi
e dei suoi traumi si è anzi alimentata, reagendo, di volta
in volta, con inquieta passione, ironico disincanto, orgogliosa
ritrosia.
Del resto, fin dalla grande stagione di Svevo, di Saba, di Slataper,
degli Stuparich, lo stesso essere scrittori, e scrittori italiani
per giunta, in quel mondo multietnico a vocazione prevalentemente
mercantile, in un contesto politico - l'impero austro-ungarico -
estraneo alle loro aspirazioni ideali, era di per sé motivo
di interna conflittualità, che interessava la sfera pubblica
come la vita privata dei singoli. Si aggiunga la mancanza di vere
tradizioni umanistiche e letterarie nel tessuto culturale della
città, la marginalità rispetto ai centri della grande
produzione intellettuale italiana, la scarsa consistenza di un pubblico
che potesse sostenerli col proprio consenso, e - di contro - la
diffidenza più o meno palese delle autorità austriache
nei loro confronti. Altro fattore di insicurezza, e non certo di
poco momento, la stessa difficoltà di maneggiare con padronanza
una lingua che di fatto in città non era comunemente parlata
- essendo il dialetto triestino la koiné in cui piuttosto
si riconoscevano e si amalgamavano le varie etnie nella comunicazione
quotidiana.
Non è qui il caso di esaminare partitamente come ognuno di
questi intellettuali reagisse alla contraddittorietà di tanti
elementi. Certo un Saba e uno Svevo sono più portati a spostare
e risolvere tali tensioni sul piano delle loro private inquietudini.
Saba, che percepisce forse più miticamente contraddizioni
e diversità, tende a ontologizzarle, per così dire,
nella stessa "aria natia", che tout court diventa
"un'aria strana, un'aria tormentosa". Il dissidio è
innanzi tutto per lui, di madre ebrea e di padre ariano, quello
intimo delle "due razze in eterna tenzone" che egli sente
rinnovarsi implacabile nella sua psiche lacerata: da una parte l'oscura
laboriosa mediocrità dei piccoli mercanti del ghetto cittadino
tra cui annovera i suoi parenti materni; dall'altra la fantasia
transfuga ed eslege di un padre dagli occhi azzurri, aereo come
una nuvola, cui per molti aspetti crede di assomigliare. La dialettica
è, così, interna alla sua memoria cosciente; e anche
del subconscio, quando, tra i primi a incrociare il freudismo, vorrà
risalire alle stagioni aurorali della sua esistenza.
Ma c'è anche, in Saba, oltre alle sue private ragioni d'inquietudine,
la consapevolezza di un ritardo culturale, che del resto i suoi
primi critici, con accademica supponenza, non perdono occasione
per rinfacciargli. Le accuse di romanticismo attardato, di piccolo
pascolismo, di crepuscolarismo lo feriscono particolarmente. Egli
avverte il respiro per così dire epico di quello che non
esita a chiamare il suo "canto": e Canzoniere sarà
poi infatti il titolo complessivo della sua opera in versi, a mano
a mano che negli anni cresce su se stessa, di raccolta in raccolta.
Anche se poi in Storia e cronistoria del Canzoniere Saba
ammette l'arretratezza e il provincialismo della sua formazione,
fornendone una giustificazione storica e geografica." Dal punto
di vista della cultura" - dirà con parole che ormai
sempre si citano - "nascere a Trieste nel 1883 era come nascere
'sull'altra sponda' nel 1850".
Quanto alla lingua, dice di aver avuto sempre "una naturale
disposizione all'uso dell'italiano". Ma quale italiano? possiamo
chiederci. Come non accorgersi che la lingua di cui Saba si serve
è quella della tradizione poetica aristocratica, che passa
per Petrarca e Leopardi, e che per lui è, d'istinto e per
la sua formazione di autodidatta, la lingua della poesia, sic
et simpliciter? Ed è la stessa tradizione da cui deriva
pure accenti, ritmi e colorito.
Che la patina esteriore sia quella, che ci sia qualcosa di antiquato,
di scolastico, di ingenuo, di troppo sonoro e canoro nella versificazione
di Saba, chi potrebbe negarlo? E Saba allora si arrocca in difesa,
si fa un titolo di vanto di aver ritrovato il filo d'oro della letteratura
italiana, di aver saputo rinnovare - a conferma della sua apertura
verso una dimensione popolare dell'arte - la rima "fiore-amore,
la più antica e difficile del mondo".
Naturalmente soltanto in prospettiva, e per così dire col
senno di poi, oggi possiamo scorgere quanto di peculiare e di innovativo
- anche sul piano ritmico e formale - c'era nei versi di un poeta
apparso per troppi anni non più che un epigono provinciale
del romanticismo. E questo anche nella sua Trieste, austriaca prima,
italiana poi, più ancora forse che altrove. Quando Saba per
esempio entrerà in contatto con quella che egli stesso chiama
la famiglia della "Voce", la celebre rivista fiorentina
di inizio secolo, è noto che le diffidenze maggiori, i consensi
più tiepidi gli vennero proprio dai suoi conterranei, a cominciare
da Slataper, la cui cultura era più aggiornata, più
criticamente consapevole, più in linea con la sensibilità
corrente. E Saba, deluso, chioserà: "ero tra lor di
un'altra specie".
Nemo propheta in patria. Anche Svevo incontra nella sua città,
nella sua stessa famiglia (con l'unica eccezione del fratello Elio),
solo contrarietà o, peggio, indifferenza. Almeno i due suoi
primi romanzi passano inosservati o destano solo perplessità.
Anche nel suo caso, ci si ferma all'esteriorità, al grigiore
così poco accattivante della sua pagina, alla goffaggine
di qualche espressione antiquata, a qualche innegabile intoppo sintattico.
La sua lingua sembra a volte quasi modellata su un originale straniero,
il giro della frase quasi pensato in dialetto. Figurarsi, a quei
tempi, i lettori educati su D'Annunzio!
Solo molto più tardi, all'uscita del terzo capolavoro, e
per merito soprattutto di stranieri, si saprà cogliere tutta
la modernità di quella prosa disadorna, lo spessore intellettuale
che la sorregge, l'acutezza dell'indagine psicologica, la disincantata
saggezza, la sottigliezza dell'ironia. Solo oggi Svevo è
stato assunto nel pantheon, tra i classici del decadentismo. E neppure
oggi si può dire che i suoi ormai così divulgati romanzi
(quante edizioni tascabili e popolari di Senilità
e della Coscienza in questi ultimi vent'anni!) siano veramente
letti e amati da un pubblico vasto.
Allora, nella sua Trieste asburgica, nel suo mondo mercantile e
borghese, un po' ebraico e un po' tedesco, che conosceva molte lingue
ma nessuna bene e presso il quale l'unica arte veramente apprezzata
era la musica (grazie al benemerito costume, così nordico
e mitteleuropeo, del musizieren, del far musica in casa),
questo "dilettante di genio" aveva avuto di che arrovellarsi
sui problemi della scrittura e sulle sue stesse capacità
di scrittore