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Dall'impegno al mercato

di Alberto Scarponi

 

Secondo lo scrittore ungherese Péter Esterházy, alla letteratura compete ormai un posto esiguo nella vita sociale. È, questa, una convinzione che può aver a che fare con le tendenze culturali postmoderne largamente imperanti anche negli ex paesi a regime comunista. Potrebbe però nascere dall'esperienza specifica di quei paesi, dove, dopo il crollo dei precedenti regimi, si è fatta palese una crisi intellettuale e degli intellettuali. Insomma, può non essere solo questione di estetica intra-letteraria (semmai questa fosse possibile). Certo è che gli intellettuali di quei paesi hanno avuto una sorta di occasione storica: tutte le élites dirigenti stavano saltando e nel guazzabuglio si è guardato a loro come ai custodi della parola certa e, finalmente, vera, sul fondamento della quale ricominciare tutto. Possibile eco o residuo della funzione nazionale attribuita nei secoli passati al poeta vate? Effetto empirico imprevisto del fenomeno della "dissidenza"? Normale processo interno della "società dello spettacolo", dove chi è sulla scena (magari casualmente) vince? Rimane il fatto che, per esempio, a Praga un uomo di lettere è divenuto Capo dello Stato, così come a Budapest; e anche a Sofia è accaduta la stessa cosa, fino a quando Blaga Dimitrova non ha gettato la spugna, per tornare a scegliere il proprio mestiere. Ma, ciò nonostante, gli intellettuali si sono sentiti inadeguati all'occasione e sono entrati in crisi.

 

Fine di stagione

Un esperto di cose russe, Giulietto Chiesa, ha tentato di spiegare tale crisi: "L'intellighenzia creativa russa è uscita demolita da questa transizione. Avrebbe potuto, se ne fosse stata all'altezza, svolgervi un ruolo costruttivo, di saggezza. Non ne è stata capace. Forse non poteva, per i suoi limiti storici, per essere stata, al tempo stesso, contro il regime sovietico, accettandone però (come gruppo sociale privilegiato) le blandizie". Lo scrittore polacco Kazimierz Brandys, da parte sua, commentava nel 1990: "Quando il sistema crolla, qualcosa si spezza dentro gli uomini". Siamo quindi in presenza di un'impotenza grave oppure di scosse profonde, non di superficie, che trovano origine probabilmente in una qualche legge che dà efficacia, significato e senso (e forse limite) alle azioni degli uomini solo entro il contesto entro cui si svolge la loro vita. Fuori di quello, è tutta un'altra cosa. È un punto, questo, che sollecita a interrogazioni più generali. Infatti, anche volessimo soltanto fermarci a riscontrare che per quegli intellettuali semplicemente è venuto a mancare il nemico e che perciò è saltato il loro quadro di riferimento storico, saremmo già più vicini alla verità. Perché un quadro di riferimento storico, per quanto negativo nella sua fenomenologia e nella percezione che se ne ha, è anche sempre una condizione di esistenza, cioè una regola di comportamento e, a ben vedere, una garanzia di vita. È stato notato per esempio (da Barbara Spinelli a proposito della Polonia) come la fine del regime socialista abbia fatto scomparire la coltre di neve che ai suoi tempi nascondeva la società: ora malattie e peccati sono divenuti visibili. Ma in questa nuova condizione tutto quello che le persone, e gli intellettuali per primi, possono o comunque sanno fare è proclamarsi innocenti (come per il passato), perciò la colpa del presente, di quelle malattie e di quei peccati, è a loro avviso di altri: adesso non più o non solo degli altri dell'Est ma degli altri dell'Ovest. Lo storico ungherese Péter Hanak ha appunto rilevato come nei paesi dell'Est viga attualmente il complesso dell'innocenza: "Slovacchi, Romeni e Polacchi gettano la responsabilità su Russi e Tedeschi, o sugli Ungheresi; i nazionalisti dell'impero russo conquistatore, sui popoli delle repubbliche alleate; tutti condannano gli Ebrei, l'Occidente e, come istanza finale, la malasorte". In tutta questa storia gli intellettuali non sono protagonisti. E invece dovrebbero esserlo, stando a una lunga tradizione culturale che, sotto varie marche (vate, intellettuale, impegno, ingegnere delle anime), ha loro attribuito il ruolo di guida spirituale delle masse (anche questo secondo termine dell'endiadi ha avuto più nomi e contenuti: popolo, nazione, classe, cittadini, uomini). Il fatto è che quella tradizione sembra essersi esaurita dappertutto, basta girare lo sguardo attorno. Anche in Italia. In sintesi e sostanza, possiamo dire che è terminata definitivamente la stagione dell'"impegno" apertasi all'indomani della seconda guerra mondiale. Che naturalmente ha avuto caratteristiche diverse da luogo a luogo, in qualche modo condizionando in questa diversità la sua stessa fine e ciò che ora ne segue.

 

L'impegno e il mestiere

All'origine ci fu il clima psicologico del dopoguerra e, nel 1947, la teorizzazione formale, filosoficamente coltivata, di Sartre in "Che cos'è la letteratura?", il saggio che egli pubblicò nel febbraio di quell'anno sulla propria rivista Les temps modernes. Una volta che si sia cominciato a scrivere, analizzava Sartre, "per amore o per forza ci si trova impegnati". Al principio invero c'è "la libertà: io sono scrittore prima di tutto per il mio libero progetto di scrivere. Ma subito dopo accade che io diventi un uomo che gli altri uomini considerano come scrittore, che deve cioè rispondere a una certa domanda e a cui si attribuisce, lo voglia o no, una determinata funzione sociale". A questa funzione sociale, genericamente intesa, dà poi concretezza e contenuti specifici la situazione nella quale lo scrittore viene a trovarsi. Ne secolo XIX si è per l'appunto verificata una situazione in cui, "mettendo in luce e appoggiando le rivendicazioni del proletariato, lo scrittore avrebbe approfondito l'essenza dell'arte dello scrivere e afferrato la coincidenza che esiste, non solo fra libertà formale del pensiero e democrazia politica, ma anche fra l'obbligo morale di scegliere l'uomo come tema permanente di meditazione e la democrazia sociale". Questa la teoria codificata, ma nella pratica in Italia l'impegno era già cominciato prima, addirittura da decenni. A essere imprecisi, persino l'ermetismo con il suo distacco dalla cronaca (fascista) può essere interpretato più o meno come parte di questa scelta. In ogni caso, dalla metà degli anni trenta si fa precisa l'attribuzione di responsabilità etiche alla letteratura. Ma il momento più importante di questo processo è che la difesa contro l'interventismo del potere politico totalitario esalta, quasi per legge fisica, il senso di autonomia dell'attività letteraria e appunto l'assunzione diretta di responsabilità tendenzialmente politiche da parte del ceto intellettuale. Così, mentre la scrittura e l'esercizio artistico in genere divengono un luogo di resistenza, di scarto dall'ordine costituito, compare una albeggiante coscienza di ceto fra gli intellettuali, seppure, nel caso degli scrittori, frammischiata a questioni di poetica e di estetica. Non per nulla il regime fascista - sempre attentissimo al governo della popolazione - incanalerà subito tale impulso modernizzante (che punta alla professionalizzazione) in nuove istituzioni pubbliche. Nel 1928 viene costituita la Confederazione nazionale dei professionisti e degli artisti, suddivisa in cinque sindacati di categoria (giornalisti, autori e scrittori, architetti e ingegneri, pittori e scultori, musicisti). Né è impresa di scarso rilievo se tra i segretari del sindacato scrittori ci saranno in tempi diversi Filippo Tommaso Marinetti e Massimo Bontempelli, figure che da sponde culturali differenti prospettano la modernizzazione della pratica letteraria. Bontempelli, per esempio, nel marzo 1927 sosteneva che, "perché possa aversi un buon periodo letterario, occorre che lo scrittore diventi un mestierante", aggiungendo: "Se l'opera non ci sarà, almeno sarai stato un dignitoso lavoratore". Questo aspetto va sottolineato perché avrà una parte, a mio avviso, non indifferente (ma con una presenza da convitato di pietra) negli scontri e dibattiti politico-culturali del dopoguerra. Era già stato Baudelaire a segnalare la mutazione genetica nel rapporto fra artista e società, raccontando in un poemetto in prosa della "perdita dell'aureola" da parte del poeta e di come questi ne fosse lieto, giacché ora poteva fare tutto quello che fanno i semplici mortali, evidentemente anche esercitare un mestiere fra gli altri. Eppure nel postfascismo italiano attitudini che magari solo blandamente (e forse inconsapevolmente) alludevano a questa mutazione vennero allora scambiate per altra cosa, per rifiuto del rapporto "impegnato" con la realtà sociale da parte degli scrittori. Nel 1946, ad esempio, - poco prima di scatenare con una delle sue "noterelle di letteratura" sul mensile del Pci Rinascita la polemica fra Togliatti e Vittorini poi divenuta celebre come primo segno di zdanovismo italiano, - il responsabile della cultura comunista Mario Alicata (in una noterella intitolata "Et in Arcadia ego?") se la prende con il settimanale La fiera letteraria, per una iniziativa che egli stesso giudica in sé innocente, ma che "fa da spia... a tutto un modo d'intendere i rapporti fra il letterato, fra l'intellettuale, e gli altri uomini". Il fatto è che La fiera letteraria, nella prospettiva di ricostituire una qualche organizzazione dei letterati, intende essere "il giornale di tutti gli scrittori italiani in un rinnovato clima e patto di società letteraria" e vuole difendere la letteratura "come mestiere o professione". Ora - obietta Alicata - questo non si può, il concetto di società letteraria sente troppo della separatezza legata alla linea dell'arte per l'arte, della torre d'avorio, dell'orfismo ermetico, ecc., mentre Eluard ha chiarito benissimo che per difendere la poesia bisogna difendere la libertà dell'uomo (che è precisamente la motivazione filosofica del ragionamento di Sartre sull'impegno, come abbiamo visto, ma senza le postille sartriane per l'appunto sulla figura e funzione sociale dello scrittore).Le cose erano certamente complicate. Ce lo ricorda, casualmente, la presenza, a distanza di poche pagine, in quello stesso fascicolo di Rinascita, di un articolo di Cesare Pavese, intitolato "Di una nuova letteratura", dove si invitava al silenzio chi fosse ossessionato dal dilemma: "Sono o non sono uno scrittore sociale?". Pavese (che con uno slittamento significativo d'orizzonte pensava lo scrittore dovesse "comunicare... al compagno uomo" e non soltanto al compagno di classe) affermava seccato che non bisognava più "dibattersi in chiacchiere, ma attendere al proprio mestiere sapendolo un mestiere", come quello del calzolaio o del capomastro, che meno parlano e meglio lavorano. Così doveva essere "l'operaio della fantasia intelligente".

 

La sconfitta di Elio Vittorini

Nel giugno 1946, quando appare la noterella di Alicata di critica alla "corrente Politecnico", questa rivista, che usciva presso l'editore Einaudi dalla fine del 1945 come settimanale, s'è appena trasformata in mensile, intendendo acquistare un maggior spessore e peso culturale. Mario Alicata infatti giudica esplicitamente "il complesso dell'attività giornalistica ed editoriale di Vittorini e dei suoi amici" una "corrente" e dice che essa "rappresenta l'unico tentativo organizzato di "novità" affiorato in Italia come riflesso culturale della lotta contro il fascismo condotta da taluni gruppi intellettuali". Il punto è però che tale corrente dovrebbe proporsi, in primo luogo di istituire un contatto produttivo fra cultura e interessi concreti delle grandi masse popolari; e in secondo luogo di dar vita a un vasto movimento di interessi fra ceti medi e intellettuali. Invece Il politecnico ha gusti e linguaggio intellettualistici. In altri termini rimane dentro l'orto corporativo. Non è questo il luogo per raccontare le ragioni politiche e storiche che stavano dalla parte delle preoccupazioni del Partito comunista italiano. Queste ragioni fanno sì, comunque, che Palmiro Togliatti intervenga in prima persona, a sostegno di Alicata, con una lettera pubblicata su Rinascita. La contestazione però ha un tono bonario, persuasivo, e si limita a rilevare come la "ricerca astratta del nuovo", dentro un enciclopedismo senza discrimine, porti alla medesima superficialità e irrequietezza generica che si era avuta in Italia nel primo decennio del secolo (col diffondersi del decadentismo) e che aveva preparato il terreno all'"analfabetismo fascista", mentre agli intellettuali spetta oggi la funzione di rinnovare seriamente e profondamente la cultura italiana. Su un tema specifico, il rapporto fra cultura e politica, Togliatti invece si fermava a discutere cogliendo il punto debole della teorizzazione di Vittorini, il quale aveva affermato che la politica si muove nella cronaca e la cultura nella storia. Vittorini, tuttavia, risponde entrando a fondo nel problema e motivando con grande forza di pensiero la propria posizione la ribadisce: "Suonare il piffero per la rivoluzione", afferma, lanciando un'immagine che resterà proverbiale, non significa affatto essere rivoluzionari, ma arcadi. "Che il piffero sia suonato su temi di politica, di scienza o di ideologia civile anziché su temi di ideologia amorosa non cambia in nulla il carattere arcadico d'una simile musica. Buona parte delle composizioni poetiche scritte dagli arcadi italiani del settecento sono su temi civili... Né chi suona il piffero per una politica rivoluzionaria è meno arcade e pastorello di chi suona per una politica reazionaria o conservatrice... Nel migliore dei casi, se ha temperamento lirico, ci darà del lirismo in luogo di pastorelleria, e sarà, mettiamo, un Majakovskij. Ma non sarà certo il lirismo a rendere rivoluzionario uno scrittore". Per Vittorini lo scrittore pone esigenze diverse da quelle che la politica pone, e sta sempre "oltre i limiti richiesti dalla società". Ecco allora il punto nodale: "La formula "l'arte per l'arte" non è, di per se stessa, una formula arcadica. Storicamente noi la troviamo usata, sia nell'Inghilterra vittoriana come nella Francia del Secondo Impero, per proteggere dal conformismo lo sviluppo di nuove concezioni della vita". Lo scrittore quindi lavora soltanto alle cose dell'arte (dell'arte che "aderisce direttamente alla vita" e che "si sviluppa direttamente dalla vita"). Se non lo fa, produce l'"arte del conformismo", quella che trova e usa le verità già bell'e pronte fornite dalla politica. Ora Vittorini è più lucido, più meditato, non ripete che "la cultura dovrebbe, finalmente, "prendere il potere", come aveva scritto l'anno precedente, ma tiene fermo sulla questione di fondo, perché l'avverte come un punto decisivo. In realtà la sconfitta di Vittorini è come avesse lasciato irrisolto un problema storico in Italia, il problema della presenza degli intellettuali (degli intellettuali artistici e per conseguenza di tutti gli altri) nella società. Se è vero infatti che nel clima psicologico ancora resistenziale, antifascista, moltissimi scrittori affluirono all'impegno, ciò avvenne perché in tale scelta si scorgeva - come ha osservato Alberto Asor Rosa - "anche un modo per dare un ruolo sociale più significativo alla letteratura, un maggior potere allo scrittore". Ed è anche rispondendo a tale esigenza che Vittorini compie il "tentativo di creare un vero e proprio movimento d'intellettuali e scrittori a favore di una cultura democratica e progressista, gestita dai suoi stessi "produttori". Il ceto intellettuale cui si rivolgeva, però, nonostante i confusi impulsi alla modernizzazione del proprio ruolo che lo percorrevano, di fatto non era pronto, giacché "l'opzione a favore di una concezione individualistica e altamente artigianale del lavoro dello scrittore era ancora dominante". Sono più di uno dunque i fattori che intervengono a provocare il fallimento dell'impresa di Vittorini (Il politecnico chiuderà alla fine del 1947). Fra questi non va dimenticata la politica culturale di chi in Italia stava prendendo il potere politico in quegli anni, la Democrazia Cristiana. Questo partito - probabilmente diffidando di quello che poco appresso qualche suo rappresentante di rilievo definirà "il culturame" e al medesimo tempo confidando nelle strutture organizzative autonome del mondo cattolico nel campo della cultura - evitò allora e successivamente di offrire agli artisti e letterati un qualsiasi terreno istituzionale di elaborazione della propria presenza nella società in quanto artisti e letterati. Anche questo tolse armi e forza ai propositi, che pure ancora vi furono, di organizzazione autonoma degli intellettuali.

 

La vittoria di Togliatti

Gli intellettuali restarono completamente affidati alle politiche culturali degli schieramenti contrapposti, ambedue contrarie alla loro autonomia. Quelli progressisti, in particolare, vennero a trovarsi tra l'incudine del zdanovismo ormai imperante (e però reso meno arbitrario e più soft dalla rilevata personalità intellettuale di Togliatti) e il martello propagandistico di chi, accusandoli di fare da "utili idioti" del partito comunista, tentava di risucchiarli in un altro conformismo, retorico e ben retribuito. All'inizio del 1948 Corrado Alvaro fondò con altri l'Alleanza della cultura. In un articolo ("Sulle condizioni degli intellettuali nei nostri anni in Italia") pubblicato su Rinascita descriveva la situazione con alquanto calore: "Arti, scienze, lettere, non hanno valore per i nostri democristiani, i quali le trovano scomode e petulanti. Le trovano di niente altro bramose che di stipendi e guadagni". Ma, se il denaro che cola da tutti i rivi è là, dai democristiani, "perché non si sono rivolti là gli intellettuali e gli scrittori?" Perché - era la risposta - dai democristiani ci sono, che si fanno avanti, i "fascisti a ritroso" (quelli che, talmente scarsi di valore intellettuale, non erano riusciti nemmeno a essere fascisti di prestigio), insomma il sottobosco. Per rimediare questo stato di cose disperante, Corrado Alvaro vuole mettere in piedi una organizzazione, appunto l'Alleanza della cultura, vuole costruire "una formazione di intellettuali la quale si occupi della cosa pubblica, che reclami i suoi strumenti di espressione"; l'obiettivo è "cercare i mezzi per ricostruire una cultura e poterla esercitare". La mira è alta, addirittura da grande politica (la cultura è "una delle attività con cui una nazione si presenta al mondo"), ma dall'altra parte, dalla parte di chi sta al potere o con il potere, nella guerra fredda incipiente, arrivano solo contumelie e polemiche di basso profilo. Corrado Alvaro ne cava una lezione generale sull'Italia:

Ma è bene segnare qui quali siano le condizioni croniche dell'intellettuale nel nostro paese, perché domani, sfogliando i documenti del nostro tempo, qualcuno tremi per una civiltà così teatralmente parata di dignità umana e di libertà, e nell'essenza così avversa alla cultura, ai suoi slanci, ai suoi doveri, ai quali trova motivi di una bassezza che umilia ogni lotta, e che abbassa la nazione intiera come incapace di produrre altro che gente corrotta e corruttibile.

È impressionante, con l'esperienza di oggi, anno 2000, leggere tali parole, così come quelle di un altro scrittore, Francesco Jovine, anch'egli dalla propria analisi convinto della necessità di una organizzazione specifica degli intellettuali: "Difficoltà inerenti a ragioni geografiche, di costume, di tradizioni, di economia, messe tutte insieme, fanno del nostro, un paese in perpetuo disagio e sofferenza. Le vicende storiche degli ultimi secoli hanno impedito la formazione di una lingua nazionale veramente parlata e universalmente intesa. I governi hanno sempre favorito la cultura e la letteratura delle accademie, una minoranza di gente ricca e vanamente letterata. La chiesa ha impedito con il suo dogmatismo la libera formazione di contenuti etici, veramente nobili e liberi. Il popolo, tenuto nell'ignoranza, non ha potuto mai sollevarsi dall'angustia di una civiltà arcaica, cristallizzata, alla comprensione dei problemi che il mondo moderno veniva via proponendo e imporre un modo nuovo di vita di cui sentiva torbidamente l'esigenza". La conclusione desolata è che in Italia "lo scrittore non si sottrae a una duplice sorte: essere un arcade o un ribelle; essere ornamento delle corti, della bella società, delle accademie, o inascoltato profeta". Intanto la morsa della politica si andava chiudendo sugli scrittori e lasciava loro aperta solo la porta che conduce verso la solitudine nel vocìo del mercato. Nell'ottobre del 1948 Rinascita pubblica un necrologio elogiativo di Zdanov e soprattutto, in una breve antologia di testi significativi del dirigente sovietico appena scomparso, un suo discorso (cui si dà un titolo da brivido, Contro la degenerazione in arte) che è esclusivamente un attacco contro i poeti Anna Achmatova e Osip Mandel'štam e nel quale viene riproposta la definizione staliniana degli scrittori come "ingegneri delle anime umane".

 

Calvino

Nel numero successivo della rivista Italo Calvino (che, venticinquenne, aveva scelto di entrare più risolutamente nell'agone politico e aveva accettato l'incarico di redattore della terza pagina dell'edizione torinese del quotidiano del Pci, l'Unità, restandovi però solo fino alla fine del 1948) firma anche lui una "noterella di letteratura" (intitolata Ingegneri e demolitori). Qui, profittando della metafora, delinea una sorta di critica alla Švejk del programma di politica culturale insito nella definizione: cioè prende sul serio il compito e tocca così un punto dolente dell'intera cultura politica della sinistra non solo di quel tempo. Calvino - che parla di letteratura ma suscitando, almeno nel lettore odierno, una immediata associazione di idee generalizzante - rileva come fra gli intellettuali di cui egli è parte manchi la mentalità costruttiva, appunto quella dell'ingegnere (oggi diremmo una cultura di governo), mentre c'è ad abbondanza la capacità demolitrice. Così lo scrittore, invitato ad essere "ingegnere delle anime", in realtà non sa esserlo, sa produrre solo "letteratura di denuncia" e non è capace di costruire il "personaggio positivo" che sia espressione dell'epoca nuova. In buona sostanza, sempre usando un linguaggio più attuale, lo scrittore di sinistra è rinchiuso dentro una cultura d'opposizione che non sa elaborare il nuovo. Calvino-Švejk conclude infine: "Io credo che ancora per molto tempo noi dovremo combattere con le contraddizioni estreme della cultura dell'imperialismo che sono sempre in noi". Non si potrà quindi rispondere subito operativamente alle richieste della politica culturale zdanoviana. Occorrerà del tempo, per intanto si dovrà "studiare e sforzarsi in questa via, senza l'ambiziosa ipocrisia di chi dà tutto ciò già per risolto, senza isterismi piccolo-borghesi, senza masochismi puritani (senza cioè nessuno dei nostri tradizionali vizi intellettuali, mascherati con linguaggio rivoluzionario)".Nel fascicolo ancora successivo di Rinascita Calvino torna sul tema, ma già inavvertitamente spostandosi verso il terreno della poetica personale: "Gli intellettuali, questo ceto combattuto e contraddittorio, hanno funzioni e agganci spesso diversi nel quadro delle diverse civiltà, ed è attraverso alle vicissitudini della loro storia interna e della funzione sociale, che la storia dell'intiera società raggiunge le loro opere, tranne in alcuni momenti pieni, per condizione di civiltà o di genio individuale, in cui il poeta è cantore "diretto" di tutta una società e un'epoca". Solo in questi casi è possibile "arrivare a quel realismo "totale", a quella capacità omerica di far nascere la poesia quasi direttamente dalla natura e dalla storia, "come se l'autore non ci fosse"". (E varrà forse la pena di notare, tra parentesi, che questa aspirazione a una poesia diretta, in apparenza priva di autore, rimarrà sempre presente nella poetica di Calvino.) Ma nel frattempo che fare? Darsi come militante all'attività di partito rinunciando per il momento a scrivere? Epperò il posto di combattimento dei letterati non è altrove, è lì, davanti alla pagina bianca. Con tutti i conseguenti problemi di autonomia e responsabilità. E quale sarà allora il compito del partito verso la letteratura? La risposta a questa domanda suona sorprendentemente (visto il luogo e il tempo: Rinascita alla fine del 1948) molto esplicita: compito del partito non è progettare riforme letterarie, ma esercitare la "critica" sull'opera d'arte esistente (dopo quindi che l'autore si sia autonomamente misurato con la pagina bianca, con la sua creatività, con la sua libertà d'inventare); anzi, a questo punto viene un'ulteriore inequivoca precisazione: non ci può essere nessuna " 'direttiva' sull'ispirazione".

 

Il freddo della guerra fredda

Queste cose pubblicate sul mensile del Pci, sotto l'occhio vigile del suo direttore, Togliatti, potrebbero far pensare a un'apertura di credito ai letterati per andare verso l'autonomia della letteratura, pur nel disegno complessivo di un progetto di costruzione culturale. Ma poche pagine appresso Mario Alicata enunciava con altrettanta chiarezza Una linea per l'unità degli intellettuali progressivi, segnalando a tutte lettere che qui si trattava non di arte o di estetica, ma della "costruzione di una cultura nazionale e popolare" subito. E questo mentre la borghesia stava "compiendo un tentativo estremo per riorganizzare in senso reazionario la cultura italiana". Non ci si poteva dunque perdere in troppe chiacchiere. E ancora: "La cultura non è mai stata, e meno che mai lo è oggi, l'aggregato "spontaneo" delle attività e dei prodotti intellettuali di più individui singoli". Una constatazione ovvia, la quale però faceva cadere anche la pretesa minima di una autonomia per così dire privatizzata nel gesto dello scrittore davanti alla pagina bianca e dell'artista davanti alla tela altrettanto bianca. "La cultura è anch'essa una forma d'organizzazione, anzi la forma superiore d'organizzazione del potere della classe dominante". Potremmo interpretare come allegoria della stretta ideologica cui si era giunti nel campo comunista il fatto che quello stesso fascicolo di Rinascita conteneva un'ampia e reverente presentazione delle teorie biologiche di Micurin e Lysenko. Anche la scienza andava alla guerra. A noi qui tuttavia interessa soffermarci invece sui due interventi polemici con cui il fascicolo si chiudeva. Il primo era di Luchino Visconti, il quale - criticato per aver messo in scena Come vi piace di Shakespeare con scenografia e costumi di Salvador Dalí e con gusto favolistico - si spazientiva e rispondeva che quella di "neorealismo" (che pure era categoria storico-poetica nata, nel cinema, proprio sul suo film Ossessione) cominciava a diventare "un'assurda etichetta" e soprattutto un limite, mentre c'era bisogno piuttosto di fantasia. E sulla strada della fantasia lui intendeva, senza sentire ragioni, proseguire. L'altro intervento polemico portava la firma di un gruppo di pittori e critici (Consagra, Guttuso, Mafai, Penelope e altri) e disciplinatamente protestava contro una brevissima nota redazionale apparsa sul numero precedente della stessa Rinascita in cui si chiamavano "orrori" e "scemenze" i pezzi artistici esposti alla Prima mostra nazionale d'arte contemporanea, organizzata dalla Alleanza della cultura di Bologna, e inoltre si invitavano i lettori a dire che il re era nudo, "che lo scarabocchio è uno scarabocchio". Tuttavia la protesta risultava molto diplomatica e appunto disciplinata. Infatti, dopo aver attribuito alla borghesia e al fascismo la colpa dell'isolamento provinciale in cui si trovava l'arte italiana e pur affermando il bisogno di contatto con le principali esperienze figurative prodottesi altrove, alla fine dei conti si conveniva sul nocciolo: l'arte era al servizio di un potere. "Noi sappiamo bene", riconoscevano gli artisti e critici firmatari della protesta, "che dobbiamo liberarci dalle posizioni intellettualistiche di un'arte senza contenuto, di un'arte sfiduciata e solitaria staccata dai problemi del mondo e dalla realtà in movimento, obiettivamente al servizio della classe dominante... La lotta dunque contro l'arte contemporanea formalistica (e soprattutto contro quelle ideologie di decomposizione, di assenza e di sfiducia che hanno presieduto e presiedono a quell'arte) va condotta a fondo".

 

Dopo, il mercato

Con ciò non finì ovviamente la storia della letteratura e dell'arte italiane. Ci saranno altre battaglie, altre generazioni, altre idee, ma paradossalmente il contesto culturale rimarrà nella sostanza identico a se stesso fino al "crollo del muro", fino al 1989. Si continuerà a pensare o magari solo a sentire la situazione nei termini dicotomici della guerra fredda. Nemmeno Pier Paolo Pasolini, così luterano ed eretico come diceva di essere, dunque così programmaticamente autonomo, riuscirà a cambiare lo schema interpretativo di riferimento. Semplicemente scandalizzerà (ad esempio, chiamando figli del popolo i poliziotti e figli della borghesia gli studenti del "sessantotto"), per cui alla fine qualcuno si è potuto chiedere se in definitiva questo scrittore fosse di destra o di sinistra o magari un cattolico super partes. Soltanto la neoavanguardia del Gruppo 63 mi sembra abbia posto di nuovo, nel corso degli anni sessanta, il problema dell'autonomia dell'attività artistica e degli intellettuali. Questo io credo fosse il senso "politico" dell'intendimento di lavorare sul linguaggio prescindendo dalla politica, sia per l'ala del gruppo che staccava il testo dal contesto e ne faceva un universo autosignificante, sia per l'ala che leggeva nel fatto linguistico, definito suo unico campo di lavoro, l'ideologia. L'avanguardia però possiede nel proprio codice genetico il problema del potere, può disinteressarsi della politica, può considerarla una sorta di possibile suo braccio secolare, cosa che a un certo momento pensarono ad esempio i surrealisti del partito comunista, ma di fatto vede nel proprio gesto spiazzante, anarchico, un intervento, una partecipazione a un gioco di poteri. Così, non è forse del tutto impossibile avvertire nella vicenda terrena del Gruppo 63 l'operare di un sogno di conquista, la conquista di un chiuso potere neovanguardistico, naturalmente sui generis. In ogni caso è certo che la paralizzante e distorcente dicotomia della guerra fredda non fu intaccata da quelle mosse.

***

D'altronde la bufera sessantottesca con le sue fagocitanti grandi ondate contestative sommerse in seguito, per tutti gli anni settanta, ogni fatto letterario e artistico. Cosicché al risveglio, negli anni ottanta, non c'era quasi più niente, solo il mercato e un po' di nostalgia dei protagonisti. Il ritorno all'ordine è segnalato con nettezza da due episodi: a Torino, capitale delle lotte operaie, ha luogo una manifestazione di quarantamila colletti bianchi che rivendicano il proprio ruolo e appunto l'ordine sociale; a Roma, capitale di tutto, ha luogo una manifestazione di studenti che rivendicano una buona scuola, fondata sull'efficienza degli insegnanti e delle attrezzature, vogliono studiare, non contestare. Gli intellettuali diventano, quando va bene, opinionisti su quotidiani e periodici, quando va male "tuttologi" televisivi. D'altra parte, già nel corso degli anni settanta all'interno del mondo letterario si ebbero fenomeni indicativi di una qualche impasse critica. Nel settore della poesia, ad esempio, a metà del decennio uscì un libro significativo intitolato Il pubblico della poesia, dove due dei migliori critici della allora nuova generazione, Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli, affermavano senza mezzi termini che ormai la poesia trovava il suo pubblico solo tra chi la scriveva, in un circuito chiuso che creava non si sa se una élite o un ghetto. Ed era anche una opinione ottimistica, giacché almeno oggi è invece opinione diffusa che i poeti semplicemente non leggano i prodotti dei loro colleghi. Una sindrome di autismo letterario che sarebbe interessante studiare nel concreto. E forse è da annoverare fra i sintomi di questo medesimo processo psichico collettivo il gesto irritato e fiero di un altro gruppetto di poeti che, pochi anni dopo, pubblicò un libro intitolandolo La parola innamorata, innamorata di se stessa a dispetto di tutto, dove, in una sete di Sublime e di Bellezza Pura, ci si voleva porre fuori dalle consapevoli masse della ideologia così come (ma questo forse un po' meno) dalla pazza folla del mercato. Ma mentre continuava ancora a montare l'onda del "riflusso" culturale degli anni ottanta, con il 1989 terminò definitivamente la guerra fredda e, allo stesso modo che negli ex paesi dell'orbita sovietica, anche in Italia i letterati e gli artisti vennero "gettati" sul mercato senza più mediazioni e freni, in un gran baccanale massmediatico dove i valori erano diventati altri e lontanissimi da ciò che la tradizione diceva letterario e artistico. Ora, infine, gli italiani avevano la loro lingua "parlata", per merito della televisione unificante e omologante (aveva denunciato già Pasolini), ed effettivamente parlavano, tutti parlavano, nessuno taceva più, e nessuno ascoltava. Si trattava solo di audience, non di ascolto, e di chiacchiera, of course, di un vocìo continuo entro cui la letteratura e l'arte avevano voce innaturale, aliena, d'altri tempi, anche se talora andavano anch'esse in onda, quando una moda o più spesso una ragione economica le "portava". Da allora, tutto e divenuto immotivato. Un romanzo irrilevante come Va dove ti porta il cuore di Susanna Tamaro ha venduto milioni di copie, ma nessuno si è spiegato perché. Un romanzo colto e gustoso, intriso di intenzioni letterarie epocali, come Il nome della rosa di Umberto Eco ha venduto milioni di copie e, altrettanto, nessuno ha saputo dire perché. Indecifrabilità del mercato. Da allora singoli autori, per l'appunto, "vendono", ma senza plasmare un discorso letterario vero e proprio che indichi l'epoca. A meno di non voler vedere proprio nella frantumazione il segno di questa epoca. Nella frantumazione, perciò nell'exploit singolo sempre auspicato e sempre fortemente auspicabile, ma anche nell'organizzazione economica, cioè editoriale, che provoca e talora inventa quelle performances librarie. Negli anni novanta ha fatto rumore in effetti l'operazione editoriale dei cosiddetti "cannibali", cui qualche critico ha mostrato di credere. Mentre il precedente tentativo di lanciare un gruppo di "giovani scrittori" non aveva prodotto nulla in termini di proposta letteraria, aveva solo portato sul mercato alcune singole individualità di buona scrittura e dato luogo ad alcuni risultati editoriali, questa seconda prova ha suscitato attenzione e dibattito. Sembrava che questi terribili "cannibali" dessero voce alla quintessenza dell'epoca e alla generazione che più francamente l'incarnava: i giovanissimi, privi di scorie storiche, tutti interni all'eterno presente del postmoderno, fatto di griffes, tribù e sballo (il sabato sera), nel contesto d'una settimana flessibile, terziaria e virtuale. Sembrava che questa letteratura "cannibale" definisse un popolo nuovo, forse già postumano e interplanetario, transennino e quantico. Sembrava, ma poi ha fatto flop. O più probabilmente ha esaurito il suo ciclo vitale. L'azione, tecnicamente bene impostata e condotta in termini imprenditoriali impeccabili (aveva determinato con sicurezza il suo target commerciale, aveva operato con tempi e ritmi produttivi appropriati, aveva recepito i dati sociologici in atto) è cessata insieme ai suoi presupposti. Queste imprese infatti obbediscono alla legge ferrea della moda: cambiare di continuo per esistere. Il cliente si stanca. Il gusto esige il nuovo. Questa ultima esperienza, - che, al solito, non ha lasciato dietro di sé che un ricordo e qualche singola individualità di buona scrittura - pare voler dimostrare ancora una volta che la vorticosità del mercato si presenta in sé problematica per la durée della letteratura. Forse vale il principio che politica, arte e economia possono, anzi devono cooperare, ma ciascuna rispettando l'autonomia dell'altra. Se non andasse questa, allora bisognerà cercare qualche altra strada.


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