I due fratelli quell'estate erano ospiti dello zio materno e dormivano
all'ultimo piano, sotto la piccionaia, dove ogni notte sentivano
il verso di un barbagianni. Nel grande cortile d'ingresso, lungo
il muro di cinta c'era un capannone per i carri e due alberi di
gelso; lo zio vi aveva costruito anche la casa per il colono con
delle piccole finestre basse. Spesso i ragazzi si affacciavano,
ma non guardavano nel cortile. Le cose del cortile le conoscevano
tutte. Spingevano invece lo sguardo oltre il muro di cinta, lungo
il viale costeggiato dai meli, verso i campi, tutti coltivati a
erba medica, dai fiori azzurri. In molti campi si era mietuto e
i mucchi di un verde già stinto giacevano sulle sponde dei fossati;
poi gli uomini avrebbero caricato l'erba medica sui lenti carri,
comprimendola per ammonticchiarne il massimo possibile. Ora i ragazzi
guardavano allontanarsi i carri enormemente gonfi, coi conducenti
accoccolati in cima al carico, e i buoi dagli occhi stanchi che
non si accendevano neppure alla vista dell'erba. Ma dove lo sguardo
dei due fratelli si posava con maggiore frequenza era sul nero querceto
in fondo al viale e ai campi, di lì, quando il meriggio si afflosciava
nella calura, veniva il fragore delle cicale, assordante come quello
di una cascata. Sapevano che il querceto era proprio roba loro,
perché apparteneva alla madre insieme a parte dei campi e ad una
fattoria, dove una volta si erano recati. Andavano spesso al querceto.
Vi si entrava per una larga apertura tagliata in una siepe. Appena
dentro, osservavano lo spessore folto della siepe che divideva la
loro proprietà da quella dello zio ed erano contenti. Camminavano
sotto le querce. Con le ghiande che andavano cogliendo facevano
collane e pipe, con cui poi si trastullavano per delle ore. Erano
gelosi della loro proprietà e, se scorgevano un pastore attraversare
con le pecore il querceto, correvano dallo zio a dirgli dello sconfinamento.
Lo zio li ascoltava però distrattamente e si stancava presto dei
loro discorsi. Li lasciava bruscamente. Allora andavano ad aspettare
il tramonto sulla nazionale che divideva la proprietà dello zio
dalle campagne degli altri, che si stendevano, tutte coperte di
quell'erba azzurra, fino alla ferrovia lungo l'orizzonte. Fantasticavano,
seduti dinanzi ai cancelli della casa, che da grandi avrebbero acquistato
tutti i campi al di là e al di qua della strada per farne una sola
grande proprietà.
Il carattere dello zio li aveva dapprima stupiti e poi riempiti
di timore. Gli si erano accostati sicuri che si sarebbero fatti
compagnia, guidati dal ricordo del suo amore, conosciuto in un tempo
di comune solitudine, ma erano rimasti delusi. Lo zio era preso
dalle sue occupazioni, sempre a parlare con i contadini, oppure
girava per i campi con il colono. Quando era in casa stava sempre
intorno alla moglie, sposata da pochi mesi. La accarezzava e i ragazzi
si sentivano allontanati ogni volta che un suo sorriso si rivolgeva
a lei. Era una donna di carnagione pallida, dallo sguardo però penetrante,
che si smorzava quando socchiudeva le palpebre e annegava nel grigio
delle pupille. Molto più giovane del marito, che aveva circa cinquant'anni,
sembrava invece più vecchia di lui, come già sfaldata dagli anni,
quando si rinchiudeva in un suo scontroso mutismo. Allora lo zio,
temendo di averla urtata, la blandiva come si fa con chi si teme
o si ama. E lei fingeva di riprendersi a poco a poco. Lo zio era
diventato un estraneo per i nipoti, mentre sua moglie non era cattiva
con loro, anzi li vezzeggiava e carezzava come fossero ancora piccoli
e grassocci. Tutto questo li faceva sentire impacciati. Così si
rinchiudevano nella corteccia della solitudine. Allora lei li trascurava.
Per altro si comportava in questo modo solo quando la incalzava
la noia.
I ragazzi vagavano per la campagna senza parlarsi. Le loro meraviglie
e scoperte non se le comunicavano. Ognuno voleva che il proprio
stupore non fosse guastato da quello dell'altro. Talvolta però si
confidavano le rispettive fantasie, presso il lavatoio. Poi, quando
scendeva la sera, aspettavano fuori della porta, nel chiarore del
cielo, che in casa accendessero i lumi a petrolio e, subito dopo
mangiato, con un timido saluto salivano in camera. Dal basso Vera
teneva loro il lume, mentre la luce si frastagliava in lingue d'ombra,
a mano a mano che giungevano alla sommità delle scale, perché la
mano della serva tremava. Appena entrati si accusavano l'un l'altro
di avere paura, finché nel buio si spogliavano in fretta, ansiosi
di ottenere la protezione delle coltri. Non si rinfacciavano mai,
durante il giorno, questa loro comune crudeltà serale.
L'unica persona con cui avevano confidenza era Vera, la serva.
Una ragazza scarna, bassa, dai capelli neri, lisci come la stoppa,
con lunghi baffi sul labbro superiore. Vera si faceva sempre il
segno della croce. Aveva paura delle formiche rosse perché portavano,
diceva, sventura. Parlava sempre di diavoli e di streghe e a volte
mormorava a voce bassa sillabando con un tono strisciante mentre
dopo i pasti lavava i piatti in cucina. I due ragazzi ascoltavano
avidamente e nella loro mente ogni fatto prendeva un colore di tregenda.
Credevano alla presenza del diavolo. Quando in camera i bisbigli
della piccionaia o i sibili e i tonfi dei topi, che strisciavano
lungo le pareti, li spingevano a parlarsi, si dicevano che, mentre
loro dormivano, chissà cosa succedeva nella casa. Vera e la zia
forse si alzavano di nascosto e uscivano per i campi sotto la luna
e andavano a compiere incantesimi nel querceto. I ragazzi si addormentavano
con le mani rattratte sulle coperte.
Uno dei racconti di Vera, che più li riempiva di paura, era quello
della fine del mondo. In esso, più che negli altri, Vera non si
limitava a rievocare storie già accadute, ma le sue parole erano
di profezia. Spesso, con un sorriso sottile, sporgendosi nella conca
dove fumava l'acqua sbrodolata dalle stoviglie, coinvolgeva i ragazzi,
lo zio, la zia e se stessa nel suo racconto. Ogni avvenimento della
giornata assumeva l'aspetto di un inevitabile pericolo sospeso su
di loro. Una volta i due fratelli, tremando, corsero in camera,
si gettarono in ginocchio sul pavimento di cemento, picchiettato
da minuscoli buchi, e pregarono, singhiozzando, e chiesero perdono
e pietà. Arrivava il buio e la camera, gelida e nuda, si riempiva
del morbido calore delle tenebre. Finché gli ultimi guizzi rossastri
del tramonto sullo smalto povero del lavabo e i radi splendori dei
pomi gialli del letto si spensero. Si riudiva la voce sommessa,
il lamento umano, della piccionaia. Loro non osarono più rimanere.
Pensavano alle civette e ai barbagianni dagli occhi giallastri,
che solevano apparire a quell'ora e corsero giù per le scale fino
al pianerottolo. Vera si affacciò sulla soglia della cucina ammiccando.
I ragazzi andarono nel cortile e sedettero nei pressi del pozzo,
sull'erba, placandosi al gorgoglio dell'acqua e al mormorio indistinto
delle parole dello zio, che era sulla veranda con la moglie. La
tranquillità dei loro atti era intrisa di terrore e la stessa solitudine
dei campi offriva un mistero che rendeva i loro animi come una membrana
sensibile ad ogni vibrazione.
Erano ormai sicuri che sarebbe accaduto qualcosa di terribile
quella sera. Quando salirono in camera, dalla finestra spalancata
entrava un lucore verdastro. La luna era avvolta da una nuvola turchina.
Gli alberi, i casolari erano di un grigiore violaceo. Quella luce
verdastra si rifletteva sul vetro del quadro della Madonna, appeso
alla parete tra i due letti, in una lama precisamente ad angolo
che scintillava giocando sull'inferriata arrugginita. I ragazzi
si nuovevano con gesti timidi in quella luninosità morente: chiazze
scure si allargavano sui muri; le porte, tagliate da quei riflessi,
sembravano spaccate da un'accettata. Le loro mani posate sulle spalliere
di ferro dei letti diventarono di colore cinerino. La piccionaia
non ebbe più voce. Un vento freddo scosse le fronde degli alberi
e le tegole dei tetti e sbatté contro le pareti col fragore prodotto
dalle imposte. Il silenzio della piccionaia era ciò che maggiormente
li spaventava. Temevano, a coricarsi, di trovare un cadavere sotto
le coltri, si cercarono, si trovarono vicino al lavabo e si strinsero
la mano, schiacciandosi alla parete. I letti si gonfiarono per il
peso delle ombre e sotto le lenzuola i ragazzi credettero di scorgere
due forme contorte, avviluppate nell'apparente tranquillità del
sonno. Un grigiore cupo, più oscuro delle tenebre, invase la camera.
Dai letti le forme si levarono e si proiettarono sul verde delle
porte. Erano corpi gobbi e flaccidi con spalle larghe e braccia
grosse, che attraversavano i muri. Alla finestra apparve una testa
bianca di vecchio ghignante. Le imposte sbatterono di nuovo con
un gracidio di vetri infranti e il quadro della Madonna cadde sul
pavimento. Il lavabo piroettò su un piede e si rovesciò con un colpo
versando sul pavimento la sua acqua. I letti sferragliarono e si
accasciarono piegandosi verso i muri. I due fratelli si stesero
in terra, l'uno accanto all'altro, mentre il rivolo dell'acqua del
lavabo si avvicinava lentamente ai loro capelli. Due scarafaggi
morti galleggiavano pancia all'aria e scendevano con l'acqua verso
di loro. Sentirono sbattere. Grida di donne. Una folata di vento
impetuoso spalancò la porta della camera. Salivano i lumi per le
scale. Entrò lo zio chiamandoli, li scorse per terra, li prese in
braccio e scese giù di corsa. Trovarono tutti dinanzi alla casa,
nel cortile. Una folla di gente che non conoscevano. La zia era
seduta accanto al pozzo e si acconciava i capelli con le mani. Vera
piangeva, si segnava. Lo zio posò i ragazzi sull'erba. Nella campagna
un insolito vocìo. Videro brillare tra le piante alcuni fuochi che
illuminavano forme accosciate, immagini balenanti. Giacevano immobili.
Li portarono accanto ad uno di quei bracieri. Sentirono parlare
di terremoto, ma sapevano che era la fine del mondo.