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La Fine del Mondo

Giovanni Russo

 

I due fratelli quell'estate erano ospiti dello zio materno e dormivano all'ultimo piano, sotto la piccionaia, dove ogni notte sentivano il verso di un barbagianni. Nel grande cortile d'ingresso, lungo il muro di cinta c'era un capannone per i carri e due alberi di gelso; lo zio vi aveva costruito anche la casa per il colono con delle piccole finestre basse. Spesso i ragazzi si affacciavano, ma non guardavano nel cortile. Le cose del cortile le conoscevano tutte. Spingevano invece lo sguardo oltre il muro di cinta, lungo il viale costeggiato dai meli, verso i campi, tutti coltivati a erba medica, dai fiori azzurri. In molti campi si era mietuto e i mucchi di un verde già stinto giacevano sulle sponde dei fossati; poi gli uomini avrebbero caricato l'erba medica sui lenti carri, comprimendola per ammonticchiarne il massimo possibile. Ora i ragazzi guardavano allontanarsi i carri enormemente gonfi, coi conducenti accoccolati in cima al carico, e i buoi dagli occhi stanchi che non si accendevano neppure alla vista dell'erba. Ma dove lo sguardo dei due fratelli si posava con maggiore frequenza era sul nero querceto in fondo al viale e ai campi, di lì, quando il meriggio si afflosciava nella calura, veniva il fragore delle cicale, assordante come quello di una cascata. Sapevano che il querceto era proprio roba loro, perché apparteneva alla madre insieme a parte dei campi e ad una fattoria, dove una volta si erano recati. Andavano spesso al querceto. Vi si entrava per una larga apertura tagliata in una siepe. Appena dentro, osservavano lo spessore folto della siepe che divideva la loro proprietà da quella dello zio ed erano contenti. Camminavano sotto le querce. Con le ghiande che andavano cogliendo facevano collane e pipe, con cui poi si trastullavano per delle ore. Erano gelosi della loro proprietà e, se scorgevano un pastore attraversare con le pecore il querceto, correvano dallo zio a dirgli dello sconfinamento. Lo zio li ascoltava però distrattamente e si stancava presto dei loro discorsi. Li lasciava bruscamente. Allora andavano ad aspettare il tramonto sulla nazionale che divideva la proprietà dello zio dalle campagne degli altri, che si stendevano, tutte coperte di quell'erba azzurra, fino alla ferrovia lungo l'orizzonte. Fantasticavano, seduti dinanzi ai cancelli della casa, che da grandi avrebbero acquistato tutti i campi al di là e al di qua della strada per farne una sola grande proprietà.

Il carattere dello zio li aveva dapprima stupiti e poi riempiti di timore. Gli si erano accostati sicuri che si sarebbero fatti compagnia, guidati dal ricordo del suo amore, conosciuto in un tempo di comune solitudine, ma erano rimasti delusi. Lo zio era preso dalle sue occupazioni, sempre a parlare con i contadini, oppure girava per i campi con il colono. Quando era in casa stava sempre intorno alla moglie, sposata da pochi mesi. La accarezzava e i ragazzi si sentivano allontanati ogni volta che un suo sorriso si rivolgeva a lei. Era una donna di carnagione pallida, dallo sguardo però penetrante, che si smorzava quando socchiudeva le palpebre e annegava nel grigio delle pupille. Molto più giovane del marito, che aveva circa cinquant'anni, sembrava invece più vecchia di lui, come già sfaldata dagli anni, quando si rinchiudeva in un suo scontroso mutismo. Allora lo zio, temendo di averla urtata, la blandiva come si fa con chi si teme o si ama. E lei fingeva di riprendersi a poco a poco. Lo zio era diventato un estraneo per i nipoti, mentre sua moglie non era cattiva con loro, anzi li vezzeggiava e carezzava come fossero ancora piccoli e grassocci. Tutto questo li faceva sentire impacciati. Così si rinchiudevano nella corteccia della solitudine. Allora lei li trascurava. Per altro si comportava in questo modo solo quando la incalzava la noia.

I ragazzi vagavano per la campagna senza parlarsi. Le loro meraviglie e scoperte non se le comunicavano. Ognuno voleva che il proprio stupore non fosse guastato da quello dell'altro. Talvolta però si confidavano le rispettive fantasie, presso il lavatoio. Poi, quando scendeva la sera, aspettavano fuori della porta, nel chiarore del cielo, che in casa accendessero i lumi a petrolio e, subito dopo mangiato, con un timido saluto salivano in camera. Dal basso Vera teneva loro il lume, mentre la luce si frastagliava in lingue d'ombra, a mano a mano che giungevano alla sommità delle scale, perché la mano della serva tremava. Appena entrati si accusavano l'un l'altro di avere paura, finché nel buio si spogliavano in fretta, ansiosi di ottenere la protezione delle coltri. Non si rinfacciavano mai, durante il giorno, questa loro comune crudeltà serale.

L'unica persona con cui avevano confidenza era Vera, la serva. Una ragazza scarna, bassa, dai capelli neri, lisci come la stoppa, con lunghi baffi sul labbro superiore. Vera si faceva sempre il segno della croce. Aveva paura delle formiche rosse perché portavano, diceva, sventura. Parlava sempre di diavoli e di streghe e a volte mormorava a voce bassa sillabando con un tono strisciante mentre dopo i pasti lavava i piatti in cucina. I due ragazzi ascoltavano avidamente e nella loro mente ogni fatto prendeva un colore di tregenda. Credevano alla presenza del diavolo. Quando in camera i bisbigli della piccionaia o i sibili e i tonfi dei topi, che strisciavano lungo le pareti, li spingevano a parlarsi, si dicevano che, mentre loro dormivano, chissà cosa succedeva nella casa. Vera e la zia forse si alzavano di nascosto e uscivano per i campi sotto la luna e andavano a compiere incantesimi nel querceto. I ragazzi si addormentavano con le mani rattratte sulle coperte.

Uno dei racconti di Vera, che più li riempiva di paura, era quello della fine del mondo. In esso, più che negli altri, Vera non si limitava a rievocare storie già accadute, ma le sue parole erano di profezia. Spesso, con un sorriso sottile, sporgendosi nella conca dove fumava l'acqua sbrodolata dalle stoviglie, coinvolgeva i ragazzi, lo zio, la zia e se stessa nel suo racconto. Ogni avvenimento della giornata assumeva l'aspetto di un inevitabile pericolo sospeso su di loro. Una volta i due fratelli, tremando, corsero in camera, si gettarono in ginocchio sul pavimento di cemento, picchiettato da minuscoli buchi, e pregarono, singhiozzando, e chiesero perdono e pietà. Arrivava il buio e la camera, gelida e nuda, si riempiva del morbido calore delle tenebre. Finché gli ultimi guizzi rossastri del tramonto sullo smalto povero del lavabo e i radi splendori dei pomi gialli del letto si spensero. Si riudiva la voce sommessa, il lamento umano, della piccionaia. Loro non osarono più rimanere. Pensavano alle civette e ai barbagianni dagli occhi giallastri, che solevano apparire a quell'ora e corsero giù per le scale fino al pianerottolo. Vera si affacciò sulla soglia della cucina ammiccando. I ragazzi andarono nel cortile e sedettero nei pressi del pozzo, sull'erba, placandosi al gorgoglio dell'acqua e al mormorio indistinto delle parole dello zio, che era sulla veranda con la moglie. La tranquillità dei loro atti era intrisa di terrore e la stessa solitudine dei campi offriva un mistero che rendeva i loro animi come una membrana sensibile ad ogni vibrazione.

Erano ormai sicuri che sarebbe accaduto qualcosa di terribile quella sera. Quando salirono in camera, dalla finestra spalancata entrava un lucore verdastro. La luna era avvolta da una nuvola turchina. Gli alberi, i casolari erano di un grigiore violaceo. Quella luce verdastra si rifletteva sul vetro del quadro della Madonna, appeso alla parete tra i due letti, in una lama precisamente ad angolo che scintillava giocando sull'inferriata arrugginita. I ragazzi si nuovevano con gesti timidi in quella luninosità morente: chiazze scure si allargavano sui muri; le porte, tagliate da quei riflessi, sembravano spaccate da un'accettata. Le loro mani posate sulle spalliere di ferro dei letti diventarono di colore cinerino. La piccionaia non ebbe più voce. Un vento freddo scosse le fronde degli alberi e le tegole dei tetti e sbatté contro le pareti col fragore prodotto dalle imposte. Il silenzio della piccionaia era ciò che maggiormente li spaventava. Temevano, a coricarsi, di trovare un cadavere sotto le coltri, si cercarono, si trovarono vicino al lavabo e si strinsero la mano, schiacciandosi alla parete. I letti si gonfiarono per il peso delle ombre e sotto le lenzuola i ragazzi credettero di scorgere due forme contorte, avviluppate nell'apparente tranquillità del sonno. Un grigiore cupo, più oscuro delle tenebre, invase la camera. Dai letti le forme si levarono e si proiettarono sul verde delle porte. Erano corpi gobbi e flaccidi con spalle larghe e braccia grosse, che attraversavano i muri. Alla finestra apparve una testa bianca di vecchio ghignante. Le imposte sbatterono di nuovo con un gracidio di vetri infranti e il quadro della Madonna cadde sul pavimento. Il lavabo piroettò su un piede e si rovesciò con un colpo versando sul pavimento la sua acqua. I letti sferragliarono e si accasciarono piegandosi verso i muri. I due fratelli si stesero in terra, l'uno accanto all'altro, mentre il rivolo dell'acqua del lavabo si avvicinava lentamente ai loro capelli. Due scarafaggi morti galleggiavano pancia all'aria e scendevano con l'acqua verso di loro. Sentirono sbattere. Grida di donne. Una folata di vento impetuoso spalancò la porta della camera. Salivano i lumi per le scale. Entrò lo zio chiamandoli, li scorse per terra, li prese in braccio e scese giù di corsa. Trovarono tutti dinanzi alla casa, nel cortile. Una folla di gente che non conoscevano. La zia era seduta accanto al pozzo e si acconciava i capelli con le mani. Vera piangeva, si segnava. Lo zio posò i ragazzi sull'erba. Nella campagna un insolito vocìo. Videro brillare tra le piante alcuni fuochi che illuminavano forme accosciate, immagini balenanti. Giacevano immobili. Li portarono accanto ad uno di quei bracieri. Sentirono parlare di terremoto, ma sapevano che era la fine del mondo.


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