È la storia di due protagonisti (Ambra e Lorenzo) che, pur
essendo reciprocamente amici (simbiotici amanti? Madre e padre,
madre e figlio, fratello e sorella, compagni), parti d'una medesima
identità (e chi sa cos'altro), nel libro non s'incontrano mai. Uno
parla (poco) dell'altra e molto di sé. Lei fa lo stesso. Due pseudo-monologhi
(un roman per fragmenta) che si rincorrono, s'intrecciano, si scambiano
le parti (lei è lui, lui è lei), alternandosi nel corso (nel corpo)
del libro senza quasi mai direttamente interloquire, anche se permeati
l'uno dell'altra e il libro d'essi: intrecciàti, intersecàntisi,
interagenti, reciproci interpreti e doppi io dell'io (Lorenzo è
Lorenzo ed è Lorenzo/Ambra; Ambra è Ambra ed è Ambra/Lorenzo) sì
da essere quattro, non più due e in realtà una presenza sola, la
cruda effigie d'un auto-da-fé, la summa d'una singola/collettiva
(forse banale ma unica, individua eppure generazionale) auto-biografia.
Allora La testa invasa può avere la dimensione smisurata
del cosmo quanto quella d'una testa d'uomo e donna reali, d'una
capocchia di spillo o d'un invisibile citoplasma. Testa comunque
invasa da altro, da sé, da altro da sé e da sé soltanto. Testa (testo)
testimone d'una tenzone che non ha (né avrà mai) né vittorie né
disfatte: solo la miserevole certezza d'esserci (suo malgrado),
d'essere una testa che entro sé stessa lotta: tra essere e non essere,
tra vita e morte, ma soprattutto tra volontà, bisogno insopprimibile
d'esprimersi, di testimoniare (mediante la parola, la scrittura)
e la straziante coscienza dell'impossibilità di farlo davvero: come
vorrebbe, quanto dovrebbe.
M. B
7. Lorenzo
Dopo tutto quell'aspettare e aspettare, fantasticare ed essere
ansiosi come d'un evento essenziale (importante e per certi versi
ormai inesorabile), ecco che il drappello scarno dei primi ciclisti
da dietro la curva rompe l'ansia e insieme la precipita, l'addensa.
Possibile che tutte quelle dure ore fermo lungo una strada valgano
la fulmineità quasi scialba di quella apparizione, e per di più
imprevista, talmente attesa e insieme improvvisa da esser persino
inattesa in quel modo, in quel momento? Tutto qui, tutto già finito?
Tutto risolto in quella scia di cometa dietro al campione, sua testa
polverosa ormai invisibile? Così avviene passino splendenti cose
nell'alone loro, mentre per anni e lustri si resti a rimirarne,
ricordarne il fuggevole effetto, il seguito sciamante. E della cosa
non rimane, infine, che (sua fine) la coda più che la testa. E dunque
niente. Un'impressione, un barlume, un'idea. Non il fatto più, solo
un'idea.
È allo stesso modo che oggi il suo campione è apparso (e scomparso)
a Lorenzo ragazzo: dopo una curva nella lieve campagna prima della
città: fugace, troppo fugace per tanto spasimo; troppo fuggente
e imprendibile dopo tanta febbre. Tutta qui la cerca? (Tutta qui
la vita?). In questo lampo che quasi la retina neanche riesce a
registrare, a fissare? In questo polverio d'indistinti segni, colori?
Quello che segue (altri ciclisti, auto, aiutanti gregari, il cosiddetto
«plotone»), anche se all'infinito passasse, non riuscirebbe a colmare
la delusione per quella imprevedibile velocità nella quale s'è come
bruciata, spenta tutta quanta la tensione, l'attesa. Lorenzo ragazzo
lo ricorderà per sempre, quel lampo. E saprà (ormai per sempre)
che non ci sarà da aspettarsi nient'altro, in un evento, che l'attimo
precedente e la durata seguente: il prima e il poi. L'evento non
è che ciò che precede (estenuante) e ciò che segue (inutile). Tanto
valgono l'aspettazione e la vista: ancora a immaginare, più che
a vedere; a costruirselo come si vuole, un evento (un campione),
tanto essi poco esistono, tanto sono fugaci. Così meglio vale allenare
lo sguardo a immaginarsele, le stelle mobili e fisse della propria
vita. Vale meglio immaginare, Lorenzo, non credi? E nutrire ben
altro che la smania della presenza, della realtà, la smania del
testimone (che crea il protagonista, il divo, il campione). Oppure
sì: testimoniare (alto e forte) per una irrealtà, per un sogno,
per ciò che scaturisce da un'immagine. Questo vale. Ma ciò Lorenzo
lo capirà solo dopo, solo a distanza, non da ragazzo. E a proposito
di se stesso. Sempre a proposito di sé, dei propri errori, devianze,
magari dei tentativi (impossibili) di spiegarsi agli altri, di testimoniarsi.
Ché non esiste testimonianza se non della effettuale storia. Della
storia invisibile (propria, che non si vede) non esiste possibile
testimonianza. Anche se ormai Lorenzo sa che solo la storia irreale
interna può essere davvero testimoniata e che la storia dei fatti
non è che un lampo, un inganno
14. Ambra
I piedritti dell'arco interno e i due interni muri sono etruschi,
fatti di massi enormi di calcare tufaceo ricchissimo di concrezioni
fossili: conchiglie che, alla prima metà del IV secolo prima di
Cristo, furono lì trasportate dentro al calcare, nel cuore del cuore
dei tufo, intufàte ora che Ambra (anche lei fossile dell'Oligocene
nel nome d'ambra) con un'unghia le scrosta e il suo interno Lorenzo
gliene porge una su di un piattino verde di rame, un'arcaica patèra
(Ambra è Velathri Volaterrae? Vòlta della terra o terragnolo volto,
tellurico foro, foràme? E il mare perché? ). Cum chiglia. Incagliarsi.
Le conchigliette cedevano all'acqua, cedettero, poi persero l'abitatore,
presero (sole) il vastissimo largo e nell'imo silenzio, nel più
boato delle acquose muraglie senza vista né essere viste transitarono,
volarono giù, mutarono pelle, poi valva e dopo natura, materia,
fissate da lei, notate da lui, lì, nell'arco ocra, nell'interstizio
secco tra storia e no, tra persa perdita e ripetizione d'uno che
grida: «Fossile!» e l'etrusco in etrusco replica che sono futili
conchiglie da collo, monete da scambio, non gasteropodi illustri
(come parrebbe) del genere Trochalia marcusiana o Claviliter longaevus,
molluschi marini (qua dove riposava il grande Mare), animali a conchiglia
unica, conica, avvolta a spirale attorno ad un asse, nati nel Pre-Cambriano,
mezzo miliardo d'anni fa, sviluppàtisi nell'Eocene (trenta-quaranta
milioni d'anni sono passati).
Così Ambra (e il suo doppio, contemplante Lorenzo) ora per sempre
s'aggira per quella landa d'etrusca e fossile fascinazione senza
potere mai con la cabeza conquiderla compiutamente, ché la forza
(e la forza e la forza) di quei “debili” esseri (di quelle deboli
essenze) troppo sopravanza la sua speculativa “debilità”, così che
tutte le porte arcaiche e tutti i fossili d'un visibilio vincono
la piccola testa e la sua miserrima (benché infinita, immortale)
sete di sapere, di sceverare e conoscere alcunché di compiuto, saputo,
nel salso mare dell'universo.
28. Ambra
La sua anoressia antica. Lei, anoressica ragazza negli anni
del pasto pantagrulico, dell'ingordigia, del pieno, del boom, dell'almeno
materiale vittoria di coloro che – vivi, generati venti o trent'anni
prima – giungevano allora alla cuccia-pappa, alla naturale delizia,
alla vita-vita cui lei non voleva accessi, che non sapeva, non volendone
nulla, niente condividendo (solitaria ape) di quell'euforico rimpinzamento,
di quel pienarsi tumido ed osceno che a lei, assoluta timida, pareva
orgia, sporco, sopraffazione, rumori di denti a mola, a sghignazzo,
spalancate gole da rigurgito e grido, vitalità, vitalità senz’altro.
Sì, a lei proprio l’altro mancava, non già la vita (essa, la facile,
la biologica): l'altro bianco, l'altro muro, l'altro difficile;
l'indicibile altro che le tagliava le mani, segava giunture, faceva
vibrare di sé tutti i popoli dell'innaturale testa che lei teneva
nell'ombra per non scoprirla, per non ferirla e non ferirsi, ma
che pure emergeva ai pranzi, ai prati, alle richieste, alle ferine
amenità squassanti, agli abbuffamenti e abboccamenti di cibo e parole,
tristo connubio di pece, di morte.
A dire la verità, la questione non è come guarire, ma come vivere”,
ha scritto Conrad. Meglio, come guarire dalla vita (dalla vita da
vivere). Come vivere. Meglio: come morire, se vita è questa morta
morte di mascelle e denti, ghigni e paté, poppe, pappe, pastette.
Come morire senza essere vissuti, senza avere vissuto. Intonsi,
candidi, morire folli d’una fame che lei non può chiamare vita,
se vita è quell'altra, se vita la chiamano gli altri e non è la
sua. “La vita”, dicono, e non è sua, non la riconosce. “La nostra
vita” e non è che la loro, non la propria. “Vivi la vita”, consigliano,
e non sa dove andare, non sa che farsene, dove si trova il luogo
“vivi-la-vita”, che luogo è, che nicchia, che nido, dove si trova,
dove cercarlo, dove i compagni di corda, le compagne: meglio nelle
campagne di marzo, a brucare erba, campanella solinga, lieta bestia,
occhi blu, omaso, abomaso, le mosche agli occhi, mandùca, ci sono
in mezzo al trifoglio, mastica mastica, ci sono primule, le sputa,
il pelo è a macchie, viene fresco dalla campagna, mastica mastica,
capra, agnella, stai tranquilla e mangi senza danno, senza dannarti,
bruca la verde, astràiti, assorbiti in te, mangialo tutto il verde
frutto del re, della regina, ché diventi forte, diventi soda e vivi,
è vita sì, vita questa, a brucarla, l'erba di Spagna, la tenera
acetosella, la lattuga, la cicorietta.
Scriveva Simone Weil, rivolta alla madre: “Ho sognato che mi
dicevi: ti voglio troppo bene, non posso più voler bene a nessun
altro. È spaventosamente doloroso”. E altrove: “Si sa che una grande
intelligenza è spesso paradossale e talora un po' stra-vagante...
Gli elogi fatti alla mia mirano a evitare la domanda: ‘Ma quella
dice la verità o no?’. La mia reputazione di intelligenza è l'equivalente
pratico della follia di quei ‘folli’. Come preferirei la loro
etichetta!”. E ancora: “Una delle infelicità della vita umana è
che si può guardare e mangiare nello stesso tempo. I bambini sentono
questa infelicità. Quello che mangiamo lo distruggiamo. Di ciò che
non mangiamo, non cogliamo pienamente la realtà. Nel mondo soprannaturale,
l'anima mangia la verità attraverso la contemplazione”.
Mangiare. Guardare. Sognare. Mentire. Essere savi o pazzi.
Vivere. Morire. Gettare alle ortiche la propria gioventù. Infischiarsene
della floridezza. Sopravvivere (ad un gradino più alto). Prediligere
la sparizione per innalzarsi (o abbassarsi?). Tentare l'annientamento.
Gettar via pane, patate. Sabotare qualunque cibo. Rifiutarsi a lui.
Rifiutarlo. Ribellarsi al bene stare, bene vivere. Essere mal viventi,
assolutamente innocui, assolutamente innocenti (innocenti no, giacché
si è fornicato con la morte). Agguerrirsi. Disarmarsi. Aspettare.
Attendere. Vigilare. Aspettare che? L’immobile mutamento. La trincea.
Il sabotaggio. L’armonia. La completezza. La finitudine. La fine
dell’ansia, del bisogno, dell’indigenza, della fame. Per questo
Ambra buttava (si buttava) pane, patate, dolciumi dalle pentole
e dalle tasche. E non si beve l'acqua: per non enfiarsi, per non
ingrossare le file dei ben pasciuti, dei troppo vivi, dei sazi viventi.
“Svanirò come da un piacevolissimo! pertugio del cuore”, scriveva
l'imperatrice Elisabetta d'Austria, “Sissi”.
Si tratta di un indefinibile (ma anche impercettibile al soggetto)
stato d'inedia, d’una ripugnanza (senza tregua) all'ovvio, di una
cachessia (“Mangio niente”. “Non posso mangiare”. “Non mi avranno”);
di un sentimento oceanico, di un contropotere. “Se non entra pane
escono parole”. Pane. Parole. La magrezza come mezzo. L'affilatezza
del coperto cuore, dell'occulto affetto, dell'oscura dedizione.
“Se non mangi, non mi vedi più”, le diceva. “Morirai”. È morta.
S'è addormentata dentro quelle ossa. Ha voluto fare “una cosa sua”.