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da "La Testa Invasa"
(roman per fragmenta)

1984-1994

Mariella Bettarini

 

È la storia di due protagonisti (Ambra e Lorenzo) che, pur essendo reciprocamente amici (simbiotici amanti? Madre e padre, madre e figlio, fratello e sorella, compagni), parti d'una medesima identità (e chi sa cos'altro), nel libro non s'incontrano mai. Uno parla (poco) dell'altra e molto di sé. Lei fa lo stesso. Due pseudo-monologhi (un roman per fragmenta) che si rincorrono, s'intrecciano, si scambiano le parti (lei è lui, lui è lei), alternandosi nel corso (nel corpo) del libro senza quasi mai direttamente interloquire, anche se permeati l'uno dell'altra e il libro d'essi: intrecciàti, intersecàntisi, interagenti, reciproci interpreti e doppi io dell'io (Lorenzo è Lorenzo ed è Lorenzo/Ambra; Ambra è Ambra ed è Ambra/Lorenzo) sì da essere quattro, non più due e in realtà una presenza sola, la cruda effigie d'un auto-da-fé, la summa d'una singola/collettiva (forse banale ma unica, individua eppure generazionale) auto-biografia.

Allora La testa invasa può avere la dimensione smisurata del cosmo quanto quella d'una testa d'uomo e donna reali, d'una capocchia di spillo o d'un invisibile citoplasma. Testa comunque invasa da altro, da sé, da altro da sé e da sé soltanto. Testa (testo) testimone d'una tenzone che non ha (né avrà mai) né vittorie né disfatte: solo la miserevole certezza d'esserci (suo malgrado), d'essere una testa che entro sé stessa lotta: tra essere e non essere, tra vita e morte, ma soprattutto tra volontà, bisogno insopprimibile d'esprimersi, di testimoniare (mediante la parola, la scrittura) e la straziante coscienza dell'impossibilità di farlo davvero: come vorrebbe, quanto dovrebbe.

M. B

7. Lorenzo

Dopo tutto quell'aspettare e aspettare, fantasticare ed essere ansiosi come d'un evento essenziale (importante e per certi versi ormai inesorabile), ecco che il drappello scarno dei primi ciclisti da dietro la curva rompe l'ansia e insieme la precipita, l'addensa. Possibile che tutte quelle dure ore fermo lungo una strada valgano la fulmineità quasi scialba di quella apparizione, e per di più imprevista, talmente attesa e insieme improvvisa da esser persino inattesa in quel modo, in quel momento?  Tutto qui, tutto già finito? Tutto risolto in quella scia di cometa dietro al campione, sua testa polverosa ormai invisibile? Così avviene passino splendenti cose nell'alone loro, mentre per anni e lustri si resti a rimirarne, ricordarne il fuggevole effetto, il seguito sciamante. E della cosa non rimane, infine, che (sua fine) la coda più che la testa. E dunque niente. Un'impressione, un barlume, un'idea. Non il fatto più, solo un'idea.

È allo stesso modo che oggi il suo campione è apparso (e scomparso) a Lorenzo ragazzo: dopo una curva nella lieve campagna prima della città: fugace, troppo fugace per tanto spasimo; troppo fuggente e imprendibile dopo tanta febbre. Tutta qui la cerca? (Tutta qui la vita?). In questo lampo che quasi la retina neanche riesce a registrare, a fissare? In questo polverio d'indistinti segni, colori? Quello che segue (altri ciclisti, auto, aiutanti gregari, il cosiddetto «plotone»), anche se all'infinito passasse, non riuscirebbe a colmare la delusione per quella imprevedibile velocità nella quale s'è come bruciata, spenta tutta quanta la tensione, l'attesa. Lorenzo ragazzo lo ricorderà per sempre, quel lampo. E saprà (ormai per sempre) che non ci sarà da aspettarsi nient'altro, in un evento, che l'attimo precedente e la durata seguente: il prima e il poi. L'evento non è che ciò che precede (estenuante) e ciò che segue (inutile). Tanto valgono l'aspettazione e la vista: ancora a immaginare, più che a vedere; a costruirselo come si vuole, un evento (un campione), tanto essi poco esistono, tanto sono fugaci. Così meglio vale allenare lo sguardo a immaginarsele, le stelle mobili e fisse della propria vita. Vale meglio immaginare, Lorenzo, non credi?  E nutrire ben altro che la smania della presenza, della realtà, la smania del testimone (che crea il protagonista, il divo, il campione). Oppure sì: testimoniare (alto e forte) per una irrealtà, per un sogno, per ciò che scaturisce da un'immagine. Questo vale.  Ma ciò Lorenzo lo capirà solo dopo, solo a distanza, non da ragazzo. E a proposito di se stesso. Sempre a proposito di sé, dei propri errori, devianze, magari dei tentativi (impossibili) di spiegarsi agli altri, di testimoniarsi. Ché non esiste testimonianza se non della effettuale storia. Della storia invisibile (propria, che non si vede) non esiste possibile testimonianza. Anche se ormai Lorenzo sa che solo la storia irreale interna può essere davvero testimoniata e che la storia dei fatti non è che un lampo, un inganno

14. Ambra

I piedritti dell'arco interno e i due interni muri sono etruschi, fatti di massi enormi di calcare tufaceo ricchissimo di concrezioni fossili: conchiglie che, alla prima metà del IV secolo prima di Cristo, furono lì trasportate dentro al calcare, nel cuore del cuore dei tufo, intufàte ora che Ambra (anche lei fossile dell'Oligocene nel nome d'ambra) con un'unghia le scrosta e il suo interno Lorenzo gliene porge una su di un piattino verde di rame, un'arcaica patèra (Ambra è Velathri Volaterrae?  Vòlta della terra o terragnolo volto, tellurico foro, foràme? E il mare perché? ). Cum chiglia.  Incagliarsi. Le conchigliette cedevano all'acqua, cedettero, poi persero l'abitatore, presero (sole) il vastissimo largo e nell'imo silenzio, nel più boato delle acquose muraglie senza vista né essere viste transitarono, volarono giù, mutarono pelle, poi valva e dopo natura, materia, fissate da lei, notate da lui, lì, nell'arco ocra, nell'interstizio secco tra storia e no, tra persa perdita e ripetizione d'uno che grida: «Fossile!» e l'etrusco in etrusco replica che sono futili conchiglie da collo, monete da scambio, non gasteropodi illustri (come parrebbe) del genere Trochalia marcusiana o Claviliter longaevus, molluschi marini (qua dove riposava il grande Mare), animali a conchiglia unica, conica, avvolta a spirale attorno ad un asse, nati nel Pre-Cambriano, mezzo miliardo d'anni fa, sviluppàtisi nell'Eocene (trenta-quaranta milioni d'anni sono passati).

Così Ambra (e il suo doppio, contemplante Lorenzo) ora per sempre s'aggira per quella landa d'etrusca e fossile fascinazione senza potere mai con la cabeza conquiderla compiutamente, ché la forza (e la forza e la forza) di quei “debili” esseri (di quelle deboli essenze) troppo sopravanza la sua speculativa “debilità”, così che tutte le porte arcaiche e tutti i fossili d'un visibilio vincono la piccola testa e la sua miserrima (benché infinita, immortale) sete di sapere, di sceverare e conoscere alcunché di compiuto, saputo, nel salso mare dell'universo.

28. Ambra

La sua anoressia antica. Lei, anoressica ragazza negli anni del pasto pantagrulico, dell'ingordigia, del pieno, del boom, dell'almeno materiale vittoria di coloro che – vivi, generati venti o trent'anni prima – giungevano allora alla cuccia-pappa, alla naturale delizia, alla vita-vita cui lei non voleva accessi, che non sapeva, non volendone nulla, niente condividendo (solitaria ape) di quell'euforico rimpinzamento, di quel pienarsi tumido ed osceno che a lei, assoluta timida, pareva orgia, sporco, sopraffazione, rumori di denti a mola, a sghignazzo, spalancate gole da rigurgito e grido, vitalità, vitalità senz’altro. Sì, a lei proprio l’altro mancava, non già la vita (essa, la facile, la biologica): l'altro bianco, l'altro muro, l'altro difficile; l'indicibile altro che le tagliava le mani, segava giunture, faceva vibrare di sé tutti i popoli dell'innaturale testa che lei teneva nell'ombra per non scoprirla, per non ferirla e non ferirsi, ma che pure emergeva ai pranzi, ai prati, alle richieste, alle ferine amenità squassanti, agli abbuffamenti e abboccamenti di cibo e parole, tristo connubio di pece, di morte.

A dire la verità, la questione non è come guarire, ma come vivere”, ha scritto Conrad. Meglio, come guarire dalla vita (dalla vita da vivere). Come vivere. Meglio: come morire, se vita è questa morta morte di mascelle e denti, ghigni e paté, poppe, pappe, pastette. Come morire senza essere vissuti, senza avere vissuto. Intonsi, candidi, morire folli d’una fame che lei non può chiamare vita, se vita è quell'altra, se vita la chiamano gli altri e non è la sua.  “La vita”, dicono, e non è sua, non la riconosce. “La nostra vita” e non è che la loro, non la propria. “Vivi la vita”, consigliano, e non sa dove andare, non sa che farsene, dove si trova il luogo “vivi-la-vita”, che luogo è, che nicchia, che nido, dove si trova, dove cercarlo, dove i compagni di corda, le compagne: meglio nelle campagne di marzo, a brucare erba,  campanella solinga, lieta bestia, occhi blu, omaso, abomaso, le mosche agli occhi, mandùca, ci sono in mezzo al trifoglio, mastica mastica, ci sono primule, le sputa, il pelo è a macchie, viene fresco dalla campagna, mastica mastica, capra, agnella, stai tranquilla e mangi senza danno, senza dannarti, bruca la verde, astràiti, assorbiti in te, mangialo tutto il verde frutto del re, della regina, ché diventi forte, diventi soda e vivi, è vita sì, vita questa, a brucarla, l'erba di Spagna, la tenera acetosella, la lattuga, la cicorietta.

Scriveva Simone Weil, rivolta alla madre: “Ho sognato che mi dicevi: ti voglio troppo bene, non posso più voler bene a nessun altro. È spaventosamente doloroso”.  E altrove: “Si sa che una grande intelligenza è spesso paradossale e talora un po' stra-vagante... Gli elogi fatti alla mia mirano a evitare la domanda: ‘Ma quella dice la verità o no?’. La mia reputazione di intelligenza è l'equivalente pratico della  follia di quei ‘folli’.  Come preferirei la loro etichetta!”. E ancora: “Una delle infelicità della vita umana è che si può guardare e mangiare nello stesso tempo.  I bambini sentono questa infelicità. Quello che mangiamo lo distruggiamo. Di ciò che non mangiamo, non cogliamo pienamente la realtà. Nel mondo soprannaturale, l'anima mangia la verità attraverso la contemplazione”.

Mangiare.  Guardare.  Sognare.  Mentire.  Essere savi o pazzi.  Vivere.  Morire.  Gettare alle ortiche la propria gioventù. Infischiarsene della floridezza.  Sopravvivere (ad un gradino più alto). Prediligere la sparizione per innalzarsi (o abbassarsi?). Tentare l'annientamento. Gettar via pane, patate. Sabotare qualunque cibo. Rifiutarsi a lui. Rifiutarlo. Ribellarsi al bene stare, bene vivere. Essere mal viventi, assolutamente innocui, assolutamente innocenti (innocenti no, giacché si è fornicato con la morte). Agguerrirsi. Disarmarsi. Aspettare. Attendere. Vigilare. Aspettare che? L’immobile mutamento. La trincea. Il sabotaggio. L’armonia. La completezza. La finitudine. La fine dell’ansia, del bisogno, dell’indigenza, della fame. Per questo Ambra buttava (si buttava) pane, patate, dolciumi dalle pentole e dalle tasche. E non si beve l'acqua: per non enfiarsi, per non ingrossare le file dei ben pasciuti, dei troppo vivi, dei sazi viventi. “Svanirò come da un piacevolissimo! pertugio del cuore”, scriveva l'imperatrice Elisabetta d'Austria, “Sissi”.

Si tratta di un indefinibile (ma anche impercettibile al soggetto) stato d'inedia, d’una ripugnanza (senza tregua) all'ovvio, di una cachessia (“Mangio niente”.  “Non posso mangiare”. “Non mi avranno”); di un sentimento oceanico, di un contropotere.  “Se non entra pane escono parole”. Pane. Parole. La magrezza come mezzo. L'affilatezza del coperto cuore, dell'occulto affetto, dell'oscura dedizione. “Se non mangi, non mi vedi più”, le diceva. “Morirai”. È morta. S'è addormentata dentro quelle ossa. Ha voluto fare “una cosa sua”.


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