Da undici anni Elsa vive all'estrema punta nord dell'isola, nella
casa di pietra che pare intagliata nella cupa roccia vulcanica del
promontorio, eroso alla base dalle onde che ad ogni stagione battono
e ribattono come a piegare quella parete rocciosa emersa improvvisa,
con il tuono di un'esplosione sotterranea, a spezzare il ritmo millenario
del mare.
Aveva diciotto anni appena compiuti quando suo marito era venuto
a prelevarla a casa del padre, al quale era legato da complicati
rapporti di affari che lei non aveva mai potuto né voluto
approfondire, e l'aveva portata a vivere su quell'isola non lontana
dalla città costiera in cui era cresciuta. Molte volte, da
bambina, scendendo dai vicoli del suo quartiere verso i viali spaziosi
e aperti del lungomare, Elsa aveva guardato il profilo frastagliato
ed erto dell'isola che nei giorni di bel tempo si sollevava dal
fondo dell'orizzonte, ed aveva immaginato che laggiù, come
in un pianeta inesplorato, vivesse una razza diversa e misteriosa,
esseri altissimi e sottili come giunchi, forgiati dal vento del
mare aperto, scuri come le rocce vulcaniche di cui era fatta l'isola,
ma con sguardi chiarissimi e affilati, capaci di penetrare le nebbie
marine che avvolgevano d'inverno l'arcipelago.
Discesa dal traghetto nel porticciolo polveroso, giovane sposa con
un paio di scarpe scomode comprate per l'occasione, aveva invece
scoperto che i volti degli isolani non erano poi così diversi
da quelli dei commercianti e dei rigattieri che affollavano il quartiere
umido e scuro in cui era nata. Persino l'accento era uguale, un
sottofondo raschiato che faceva sembrare ogni frase uno sputo.
Il marito di Elsa, di parecchi anni più anziano di lei, è
in effetti molto alto, come gli isolani delle sue immaginazioni
infantili, ma secco e curvo come una pergamena lasciata per un'intera
estate al sole. Trascorre le giornate, fin dall'alba, nel suo laboratorio
di impagliatore, al piano terra della casa, circondato dai suoi
strumenti e dall'odore acuto della formaldeide, ed esce all'aperto
soltanto con il calar del sole, come se temesse che la sua pelle
di pergamena si sbricioli sotto l'effetto della luce.
Elsa invece adora l'abbagliante sole mediterraneo con un rispetto
e un timore quasi primitivi. Sbrigate le poche faccende domestiche,
il suo unico passatempo è quello di sdraiarsi sulla punta
della scogliera come una lucertola ad ascoltare il respiro del mare,
cercando di sintonizzarlo con il suo, come se tutto il mediterraneo
fosse l'enorme polmone di un gigante. Si dice, distesa tutta sola
sul limitare del promontorio: ecco, il gigante dorme, oppure: ecco,
il gigante oggi è infuriato e respira come un toro prima
della battaglia.
Quasi mai osa entrare nel laboratorio del marito, uno stanzone immerso
in un'eterna penombra polverosa. L'odore della formaldeide le dà
una nausea profonda, e ancora più forte è la pena
che prova per quelle creature che invece di dissolversi dopo la
morte nella materia indistinta, per rinascere forse sotto altre
forme, sono costrette, attraverso operazioni lunghe, minuziose e
crudeli, a rimanere imprigionate per sempre nell'involucro svuotato
del loro corpo, con le ali aperte in una simulazione di volo o con
il collo irrigidito da una fierezza posticcia, in una messa in scena
grottesca che offusca la dignità della morte.
Il marito di Elsa è un impagliatore rinomato. Lavora soprattutto
con gli uccelli. L'isola infatti è un punto di passaggio
per molte specie di volatili migratori, e in autunno e in primavera
il cielo si riempie di ali e di richiami. Allora, esce con un retino
dal lungo manico, e raccoglie gli uccelli che stremati dal viaggio
si sono lasciati cadere sul promontorio, finendo sulla roccia nuda
o nei cespugli spinosi dei fichi d'India. Elsa non lo accompagna
mai in queste spedizioni, si nasconde in cucina con la scusa di
qualche faccenda urgente e non esce da lì fino a quando non
sente la porta del laboratorio chiudersi nuovamente dietro le spalle
del marito. A volte trova sul piazzale della casa tracce del dibattersi
disperato dei volatili, piume sparse, penne spezzate ed escrementi
espulsi dai visceri terrorizzati dei volatili. Allora prende la
scopa e spazza via tutto con le mani che le tremano, e poi corre
sul promontorio a sentire respirare il suo gigante marino. Ecco,
si dice, oggi il gigante è affaticato, i suoi polmoni si
aprono e si chiudono ritmicamente, come il soffietto di una fisarmonica.
Gli unici momenti di intimità con il marito sono le cene
veloci e frugali che Elsa serve nel tinello al secondo piano. Non
hanno mai molte cose da dirsi: lei non vuole ascoltare nulla del
suo lavoro, e da parte sua non può certo raccontargli del
suo gigante marino che le respira attorno. Lui la guarderebbe alzando
un poco le sopracciglia spesse che quasi gli nascondono gli occhi,
e le direbbe con il tono condiscendente che ha sempre con lei: "Elsa,
piccola mia, esci ogni tanto, vai con le altre donne al mercato
settimanale del porto, oppure aiuta a preparare gli addobbi della
piazza per la festa del patrono, lascia perdere i giganti! ".
Quindi Elsa non gli dice mai nulla, e le loro cene si svolgono in
un silenzio così profondo che si può sentire giù
in basso il rumore del mare che sospinto dal vento testardamente
batte e ribatte contro la roccia. Dopo cena, durante l'inverno,
i due si mettono a guardare il gioco delle fiamme nel camino, seguendo
ognuno i propri pensieri o la propria assenza di pensieri; nelle
sere estive, invece, si sdraiano in terrazza su basse poltroncine
a farsi cullare dalla brezza marina. A volte, soprattutto d'estate,
il marito di Elsa si sporge verso la donna in una carezza timida
e ruvida. Lei si lascia carezzare, respirando piano per calmare
i battiti del cuore e vincere la paura di scappare. Non sopporta
l'idea che quelle stesse mani che le carezzano i capelli o le guance
abbiano per tutta la giornata sventrato, svuotato, esplorato visceri
di uccelli, cavato gli occhi a quelle creature per sostituirli con
occhi di vetro dallo sguardo eternamente fisso.
I primi tempi dopo il matrimonio si dibatteva sotto le mani ossute
dell'uomo come un animale terrorizzato, si rotolava nel letto battendo
la testa sulla spalliera di legno scuro, sovrastata da un crocifisso
ancora più scuro al quale era appuntato un ramoscello di
olivo rinsecchito. Poi, con il passare del tempo, ha fatto l'abitudine
a quelle effusioni, che del resto non sono mai state molto frequenti.
Ogni volta si lascia carezzare socchiudendo gli occhi e respirando
piano, come ipnotizzata dal suo stesso respiro. Attraverso la fessura
delle ciglia guarda la mano ossuta e ruvida del marito che le sfiora
il ventre, e pensa che dopotutto anche la sua pelle sta diventando
anno dopo anno più secca, meno elastica di quando era una
giovane sposa, e che con il tempo i loro corpi finiranno con l'assomigliarsi.
Il pensiero di questa somiglianza la terrorizza e insieme la affascina.
E' come una consolazione aspra, come il compiersi di qualcosa che
è già scritto da lungo tempo. La dolcezza acre di
questa consolazione le fa rilassare per un momento i muscoli, e
le sue gambe si aprono al marito senza più resistenza.
Così, da un'estate ad un inverno ad un'altra estate ancora,
sono passati undici anni.
Un giorno di maggio Elsa, alla quale l'aria aromatica della primavera
ha messo addosso un nuovo fervore, acconsente ad uscire per una
volta dalla sua solitudine selvatica e a scendere al porto ad accompagnare
il marito che parte per qualche giorno. Ci sono delle consegne da
fare in continente, ed Elsa lo aiuta a portare fino al traghetto
le scatole di cartone grigio diligentemente etichettate con il nome
dell'animale che vi è contenuto. All'ultimo momento, Elsa
consegna al marito un pacchetto da recapitare a una sorella che,
come ha appreso in una delle poche lettere ricevute dalla famiglia
da quando vive sull'isola, ha appena avuto una bambina. Elsa ha
confezionato una copertina in lana rosa, decorata con il ricamo
di un grande gabbiano in volo seguito da un gabbiano più
piccolo e ancora implume. Lei stessa, dopo il matrimonio, ha aspettato
un figlio per molti anni, inutilmente. Poi ha rinunciato anche a
questa attesa, convincendosi che dopotutto quella casa sul promontorio,
odorosa di salino e formaldeide, non è certo il luogo adatto
a fare crescere un bambino.